Lettura di opere letterarie
Arco di luminara di Luisa Adorno |
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"Quand nous habitions
tous ensemble sur nos collines d'autrefois... ", la citazione di
V. Hugo in epigrafe ad Arco di luminara (Palermo, Sellerio,
1990), quasi un sottotitolo, ne è
significativo referente. Una vue d'ensemble, narrazione
di gruppo, di un'entità esistenziale organizzata intorno ad un proprio
patrimonio culturale, questo terzo romanzo di Luisa Adorno che copre un arco di tempo più vicino a noi rispetto ai precedenti, L'ultima
provincia e Le dorate stanze. Il romanzo è memoria narrata ove figure e profili, scolpiti
nella evanescenza del ricordo dai tocchi preziosi di
uno stile personalissimo che cesella, disegnano gli eventi assecondando il
puntello che scava. "Ricordi fatti di niente", ma che insieme
"cuciono" le vicende di questo gruppo familiare italiano che riesce
ad attraversare le mutazioni degli anni del miracolo economico fino a quelle della difficile epoca attuale con sapiente coerenza ad uno
stile di vita che riceve forza dal legame alla terra d'origine. Il ritorno ogni estate alla "piccola proprietà"
sulle pendici dell'Etna è intatti "amore,
vacanza, rimpatrio", attingimento di quella
linfa che dà il contatto con le proprie radici. Il romanzo si snoda lungo
questo andare ("di settembre in settembre sono cresciuti i miei
figli") che scandisce e lega ("sembrava che quel partire reggesse
la famiglia ") le dinamiche dell'intero gruppo. Vita corale di tre generazioni intorno,
ad un ceppo che dà vigore. Arco di luminara, tradizione, che è luce e si fa luce;
vincolo che è amalgama e si fa continuità; usi che si dilatano nel tempo. Il centro ideale e reale di tutto è il nonno, una specie di
patriarca del nostro tempo, a cui fanno corona la moglie "tranquilla
nella naturale disposizione al silenzio, forte nella consapevolezza della
propria influenza", le domestiche, semplici creature "che non
avevano i segni della servitù", il figlio Cosimo, sterile figura che
"si lascia vivere isolato in un mondo tutto suo", e poi i parenti,
gli amici intimi, gli ospiti, fino ai coloni siciliani, tutti chiusi nelle
loro abitudini, tessuto connettivo cogente per gli altri, gli elementi
vitali. Tra questi c'è Giovanni che nelle vacanze siciliane da un atto
d'amore del nonno quasi una dotazione fatta lì "alla festa del
paese" "sul filo dei desideri della propria infanzia" -
attinge la "passione" "a cui avrebbe improntato gli studi e la
vita". Ma soprattutto c'è lei, la nuora, docilmente adagiata nella quotidianità
degli eventi solo in virtù di una intima
"capacità di ridere" che la "rendeva invulnerabile " e di
quei viaggi estivi - "la vera vacanza" che letteralmente la
facevano "schizzare" in salutari parentesi di libertà senza il
"freno muto" della presenza dei suoi. Sarà lei, che coglierà la fecondità
di quel "freno muto" proprio quando esso
tace nella casa ormai vuota - i figli a vivere nel mondo, i vecchi consumata
la loro ultima vacanza -. Con un atto bellissimo di ribellione, ella,
"rigettando il gesto antico delle donne", inizierà il suo canto
epico. E tutto questo avviene seguendo un odore "umile" e
"leggero" - quasi un'anima familiare - di "lattuga che bolle
con ampi sbuffi di vapore" che "si spandeva dalla cucina nelle
stanze all'ora di cena" quando "la casa
era piena"; "odore di sere d'autunno, d'inverno quando fuori è buio
e le finestre sono chiuse e all'ora di cena, tutti già a casa, odore di
lunghi mesi di lavoro, di scuola, di convivenza col mondo quieto e fermo dei
suoceri"; odore che "spariva" quando i suoi partivano per
ricomparire con loro, là, in Sicilia. Emergono dalla memoria "i tanti anni volati",
"le presenze familiari attente e quiete"; il ricordo va alle estati
di luce sull'Etna ch'ella rivive con
struggente" acuto globale rimpianto degli anni migliori" - siamo
alle profonde sorgenti dell'uorno -. Inizia così un cammino a ritroso ed ella
ripercorre "la vita, i suoi slanci gli arresti, la gioia e il riso,
l'infanzia dei figli, la loro riuscita, la pazienza, imposta e imparata del
vivere insieme, il caldo respiro della casa piena" andando dalla Sicilia
a Roma in quella saga familiare. La memoria diviene trepidante di calda dolcezza perché è
scoperta che quegli anni sono rimasti in lei; e nel racconto dolcemente più
spesso si ferma intorno al desco imbandito, ricco muro di amici
e parenti, luogo protetto (infinite erano le cose di cui a tavola non si
poteva parlare") perché essenziale al rito familiare più puro, dove
trova la sua consacrazione la fedeltà al prezioso portato del patrimonio
comune. Alimentata a questa fonte comprendiamo perché - lo dice
l'autrice in un luogo del suo romanzo - "le sciagure che segnarono le
nostre giovinezze" non possono "incrinare" "l'amore per
la vita". Questo romanzo è soprattutto un silenzioso inno di vita. |
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In "Riscontri", n 2 (aprile-giugno 1992). |
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