Una chiesa medioevale nel Principato salernitano

La pieve di S. Angelo e Santa Maria de locum solofre1

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All’indomani della guerra greco-gotica la pianura, che alle spalle di Salerno si allarga a nord-nord-est giungendo al Sarno e incuneandosi oltre Rota tra le propaggini dei monti Picentini, devastata dalle distruzioni di quella guerra, fu interessata dal fenomeno degli arroccamenti che fu particolarmente significativo nella conca solofrana posta tra i contrafforti di quei monti. Qui la conformazione morfologica delimitava un territorio con caratteri altamente difensivi che assicurarono al luogo la continuità abitativa negli insediamenti di Le cortine e di Cortina del cerro, posti in luoghi alti alle due estremità della conca e difesi da due postazioni da cui si dominava la pianura sottostante2.

Tutto il territorio, che prima delle invasioni apparteneva alla colonia romana di Abellinum3, entrò nell’orbita di Salerno, venne cioè a far parte di quell’area gravitante sulla città che visse per lungo tempo una simbiosi particolare con essa ed in cui avvenne un importante processo di organizzazione territoriale ad opera di Salerno attraverso i distretti pievani. Erano questi divisioni territoriali abitativo-religiose che facevano capo ad una chiesa rurale, la pieve, centro e fondazione del distretto, una peculiarità dell’organizzazione ecclesiastica della pianura salernitana. Salerno fu infatti un attivo centro di evangelizzazione delle campagne dove fin dal V secolo giungevano gli inviati del vescovo per rispondere ai bisogni religiosi delle popolazioni e dove tra il VI e il VII secolo si crearono questi centri che furono l’unico sostegno alla gente isolata e sparsa nelle campagne4.

Le pievi - nel territorio tra l’Irno e il Sarno furono quattro5 -, che accoglievano in modo stabile il presbitero per la cura animorum e per le funzioni liturgico-sacramentali più importanti, divennero punti di coagulo e di radicamento al territorio soprattutto perché avevano il jus cimiterii, che suggellava quel legame, e il jus baptisteri col quale si entrava nella comunità cristiana. Esse permisero, in questa area, ad ampia diffusione romana e dove si era introdotto il cristianesimo delle origini6, quel sincretismo di cristianesimo e paganesimo che è il substrato della religiosità popolare in cui i comportamenti pagani, depurati dall’aspetto religioso si trasformarono in atti consuetudinari permettendo al cristianesimo di assorbirli in sé.

L’esistenza delle pievi sottintende nel distretto altri luoghi di culto che rispondevano ai bisogni quotidiani delle popolazioni le quali facevano riferimento alla chiesa matrice "per ricevervi il battesimo e la sepoltura, per le maggiori festività dell’anno e per portarvi le oblationes in natura o in denaro"7. Infatti per "plebs" deve intendersi sia "il popolo di Dio raccolto intorno alla chiesa", sia l’edificio di culto ove i fedeli si radunavano e il territorio ove abitavano ed anche l’istituto che si riassumeva nell’ente chiesa come "centro di amministrazione dei beni patrimoniali della Mensa arcivescovile da cui ogni distretto dipendeva"8.

La pieve del locum Solofra, diversamente dalle altre dell’episcopio salernitano tutte poste in pianura, sorgeva in luogo difeso lungo la riva destra dell’alto corso del flubio-rivus siccus-saltera9 su una collinetta delimitata e protetta dal corso d’acqua. Era a servizio di un territorio più ristretto e altamente difensivo, a cui facevano capo sia gli abitanti del locum Solofre10 sia quelli del locum sancte Agathe11, ma anche la gente sparsa nella campagna che giungeva, fuori della conca solofrana, in territorio montorese.

La zona era servita dalla strada del passo di Castelluccia, una via secondaria di comunicazione tra Abellinum e Salernum, indicata col nome di "via antica qui badit ad sancta Agathe", lungo la quale erano sorte le romane villae e tabernae e che, seguendo il corso del fiume - il flubio-rivus siccus-saltera -, giungeva a Rota12.

La conformazione della conca, profondamente segnata da valloni con violenti corsi torrentizi, la sua configurazione abitativa con insediamenti sparsi e lontani, e la posizione marginale, elevata ed interna del distretto, fece sì che la pieve non ebbe la pienezza delle sue funzioni plebane, non ebbe cioè un collegio stabile di chierici, ma ebbe le prerogative plebane: l’officiatura "die noctuque" e l’obbligo per il preposto a officiare "sicut decet ecclesias villanas", laddove "ecclesias villanas" è proprio la chiesa rurale senza collegio di chierici13.

Inizialmente, per l’impronta bizantina avuta dalla zona, la pieve accolse il culto a Santa Maria del quindici agosto, espressione dell’impianto mariano che ebbe la zona nel periodo bizantino, fu infatti l’imperatore Maurizio, dopo il concilio di Efeso (431) a prescrivere nelle terre bizantine la diffusione del culto alla Vergine alla data 15 agosto14. Alla venuta dei Longobardi, diventati fedeli a S. Michele, vi fu aggiunto, secondo il costume di quel popolo di non distruggere le realtà dei luoghi ove si insediavano, quello all’Arcangelo celebrato l’8 maggio, una vera festa longobarda15, e quindi la doppia titolazione16.

Nel 1042 all’epoca del documento  - un memoratorium stipulato all’atto della consegna della chiesa al prete solofrano Truppoaldo17 -  era tenuta in beneficio da Adelferio, abate ed "unum de domini"18 di S. Massimo di Salerno, la potente chiesa privata della famiglia dei principi longobardi19, ma nello stesso tempo faceva parte del patrimonio dell’episcopio salernitano, infatti fu presente all’atto anche l’arcivescovo Amato III20. Era questa una situazione abbastanza particolare nell’archidiocesi di Salerno che vedeva una non conflittualità tra i possessori di chiese private e i vescovi, i quali con le "chartae libertatis" avevano eliminato ogni possibilità di contrasto e inglobato queste chiese nella organizzazione ecclesiastica del territorio21. Se però si tiene presente che S. Massimo non era una chiesa privata qualsiasi, bensì la chiesa palatina dei principi di Salerno si individua un elemento rilevante che va spiegato nel fatto che tutto il territorio che stiamo considerando, facente parte del gastaldato di Rota, era divenuto, in seguito alla burrascosa costituzione del Principato salernitano (849), un delicato distretto di confine22. Lungo di esso erano stati rinforzati i presidi militari, cioè i castelli di Rota, di Forino, di Montoro e quello di Serino. Quest’ultimo ebbe come rinforzo il fortilizio posto sulle pendici meridionali del Pergola-S. Marco, il futuro castello di Solofra23.

Parallelamente in questo stesso territorio il principe Guaiferio dette vita ad una forte opera di penetrazione economico-religiosa proprio attraverso la chiesa palatina a cui furono donate terre arborate e seminative che giungevano fino alla conca solofrana dove gli stessi principi ebbero possessi personali24. Si venne così a creare una larga contiguità tra i beni facenti capo alle due autorità. Per mantenere i buoni rapporti con l’episcopio e non turbare la struttura plebana esistente nella zona, il principe definì col preposto dell’episcopio salernitano clausole ben chiare che stabilivano che fosse la diocesi ad ordinare i preti che officiavano in San Massimo e nelle altre chiese ad essa soggette e soprattutto precluse alla chiesa privata i diritti plebani.

In virtù di questa accorta politica S. Massimo divenne un formidabile strumento di potere e di controllo nelle mani della famiglia regnante, centro di vita religiosa ed economica, baluardo anche politico capace di far fronte a qualsiasi pericolo. Intorno a questa chiesa gravitavano forti interessi per la gran massa di rustici e liberi che con varie forme di contratto coltivavano le terre, le mettevano a coltura, all’ombra della protezione della potente istituzione. San Massimo divenne così un "centro materiale ed ideale di coesione e di raccordo". Mai vi furono conflitti di competenza, mai fu messo in discussione il superiore controllo dell’autorità dell’episcopio salernitano, né mai in pericolo la necessità di assicurare in queste terre un’amministrazione vigile e sollecita e un più razionale sfruttamento dei beni25.

Questa collaborazione si coglie in modo concreto nel documento solofrano dove la presenza dell’abate di S. Massimo e dell’arcivescovo non era dovuta solo alla pure importante necessità di non far mancare nella zona il loro solido e concorde sostegno. La chiesa era invece considerata un bene concreto i cui proventi, sia quelli derivanti dalle funzioni liturgico-sacramentali sia quelli legati al lavoro dei campi, erano divisi in modo preciso tra le due autorità. Chiaramente Adelferio indicò i proventi dovuti all’arcivescovo, quelli dovuti a lui e a Truppoaldo26. Inoltre più volte ripetette "in pars ipsius archiepiscopi" volendo sottolineare che non veniva messa in discussione la dipendenza della chiesa dall’episcopio salernitano27 e in modo preciso indicò i diritti pievani spettanti all’arcivescovo e cioè investire ogni anno Truppoaldo delle competenze plebane ("formata et chisma et oleo sancto"), infatti la pieve richiedeva che il clero fosse rigorosamente soggetto ai poteri dell’ordinante fin dal momento dell’elezione. Infine l’abate sottolineò in modo pregnante il ruolo della chiesa - "que est plebe" - proprio perché non si facesse confusione circa le competenze delle due autorità.

La sottolineatura di Adelferio acquista un ulteriore significato se si considera che a Salerno era sorta, in concorrenza con S. Massimo un’altra chiesa palatina del ramo dei principi che faceva capo a Guaimario IV e al conte Giovanni, che aveva avuto i diritti plebani, contrariamente a quanto era solito per una chiesa cittadina. Adelferio cioè volle sottolineare, in polemica con la chiesa rivale, l’antica fisionomia di S. Massimo non concorrenziale con l’episcopio.

Non si sa quando la pieve sia finita in beneficio di S. Massimo ma questo possesso è senza dubbio legato al processo di penetrazione della istituzione palatina nella pianura e alla rilevanza strategica del distretto attraversato dall’unica via che metteva in comunicazione i due Principati nemici. Ma c’è di più, la concessione a Truppoaldo della chiesa si carica di un altro significato. In quegli anni infatti si chiudeva la felice stagione di S. Massimo della quale il documento rappresenta l’ultima voce. Gli anni seguenti furono difficilissimi poiché prese corpo una grave crisi durante la quale si ebbe una vasta opera di accaparramento dei beni della chiesa operata persino dal fratello di Adelferio, Castemanno, insieme "a rapaci e spregiudicati circonvicini", che porterà l’abate ad "alienare quote del patrimonio e ad accedere a prestiti", fino alla donazione fatta dai "domini" che facevano capo a lui delle loro quote di S. Massimo all’arcivescovo e fino all’assorbimento della stessa chiesa nel patrimonio dell’abbazia di Cava28.

Adelferio, che vedeva avvicinarsi questi anni difficili, sottolineò con meticolosa cura gli obblighi di Truppoaldo anche quelli di carattere non religioso, infatti si preoccupò che la struttura avesse una conduzione efficiente ed utile, che fossero ben tenuti i beni annessi alla chiesa su cui il presbitero aveva piena potestà e che poteva estendere anche ai suoi eredi29, manifestando in questa preoccupazione e in questa sottolineatura la volontà di preservare per il futuro la chiesa e il suo territorio, quasi una consegna della chiesa agli abitanti del "locum Solofre", tramite il loro presbitero e alla presenza di Amato. Siamo infatti negli ultimi anni anche del distretto pievano che a causa del popolamento delle campagne perdeva la sua prerogativa più importante - la pieve scadeva là dove non c’era più una popolazione sparsa - per cui quella consegna acquista il significato di una presa di possesso da parte della popolazione di un centro religioso proprio intorno a cui prenderà corpo l’identità della popolazione.

Era questo il periodo di maggiore prosperità del Principato di Salerno, la cui sede arcivescovile era circondata da un prestigio indiscusso sottolineato dal fatto, al di là della facoltà di ordinare i vescovi, di essere al centro di un processo di rigenerazione che percorse tutta la metà del secolo XI e che portò ad una ristrutturazione di tutto il territorio della diocesi30. In questi anni di profondi rivolgimenti, dovuti al difficile periodo della fine dell’autonomia politica di Salerno con l’avanzare della conquista normanna e al contrasto con il cenobio di Cava31, l’episcopio salernitano tentò in questa zona di confine di mantenere la giurisdizione ecclesiastica legata al territorio e di rispondere alla necessità di "assicurare la presenza di un clero gerarchicamente subordinato ai poteri dell’ordinario"32.

Nella pianura tra Nocera e Salerno i distretti pievani furono sostituiti da divisioni più organiche alla nuova situazione e si ebbero i distretti di "Nuceria", "Sancti Georgi", "Sancti Severini", "Montorii", "Furini et Serini"33, dove rimasero le pievi di Nocera e di Rota anche se quest’ultima cambiò nome, mentre S. Cesareo fu assorbita da Salerno e la pieve di Solofra fu inglobata nel distretto di "Furino et Sirino", e dove molte di queste chiese divennero parrocchie34. Vale sottolineare la funzione del grosso distretto di "Furini et Sirini", un vero polo territoriale-religioso sulla linea di confine nord-orientale del Principato salernitano, che servì per ostacolare le rivendicazioni territoriali dell’arcivescovo di Benevento Roffredo35 e per opporsi al dilagare del normanno Troisio che per un periodo mise in discussione i possessi episcopali nella zona36. Fu dunque un distretto che riconfermava la giurisdizione episcopale su quelle terre.

Lungo tutto il secolo successivo, in seguito ad una consistente espansione economico-demografica - i due locum si trasformarono in vico37 - e alla organizzazione politica del regno normanno, si ebbe la ristrutturazione del territorio episcopale in archipresbiterati (1168), cioè in nuove aggregazioni religiose che in più seguivano quelle politico-amministrative, infatti l’archipresbiterato di Serino comprese tutto il territorio del feudo dei Sanseverino di Tricarico38.

La chiesa, divenuta parrocchia, cioè centro di un territorio più ristretto e quindi più vicina alla popolazione, restrinse ad uno specifico territorio culturale le caratteristiche primitive che continuò a mantenere, infatti divenne chiesa ricettizia, cioè chiesa diretta da un collegio di chierici che ne gestiva il patrimonio39. Essa seguì la lenta gestazione della comunità civile nel reticolo feudale normanno divenendo centro di vita civile e confermandosi come chiesa madre della Universitas divenuta autonoma con Giordano Tricarico40.

In questo tratto si descriveranno gli altri elementi della chiesa quali emergono dal documento già in parte analizzato.

Interessante è il suo patrimonio costituito dalle terre date a coltura, la dos, che dovevano essere di una particolare consistenza se richiedevano lavori di innesto, messa a cultura, raccolta di prodotti ("annualiter suo nempe desuper et de suptus laborare et cultare [...] propaginare faciad ubi meruerit arbores et vites planctare"), tanto che a Truppoaldo venne dato il permesso dal concessionario di stipulare regolari contratti ("et liceat illum et omines quos ibi miserit ad laboranorandum fobee") poteva cioè tenere degli uomini legati da un contratto agrario41. Gli accenni relativi alle attività agricole fanno desumere che i campi producessero uva, olive, grano, frutti vari, che si allevassero galline, ovini, maiali, api. C’erano poi ben precise attività legate a questi prodotti. La torchiatura del olive per la produzione dell’olio ("palmentum"), la vinificazione del prodotto della vite, la panificazione ("unum furnum"), la lavorazione della carne salata ("longa et presupta")42. Gli altri attrezzi - tractore due, tine quadtuor, bagina una - richiamano attività artigianali legate all’agricoltura e alla pastorizia e tra questi vale citare quelli per la concia, infatti le "tine" prima della concia chimica indicavano i recipienti che accoglievano le pelli, mentre il "calce" era una macina usata non solo per il grano ma anche per i vegetali tanninici di cui sono state fornite le concerie fino a tempi recenti43. Queste attività insieme a locali specifici (casa de applicta tres), ai magazzini di raccolta dei prodotti (celle) e a generici luoghi di asilo (casis) indicano che la pieve era un vero e proprio centro economico, secondo un’altra caratteristica di questo tipo di chiesa e dove in più queste attività erano comuni. Bisogna infatti tenere presente che, nella povertà dei mezzi in una zona agro-pastorale di scarsa densità, la vita aveva caratteri comuni molto spiccati per cui alcune costruzioni e anche gli attrezzi erano di uso comune (come sicuramente il forno) ancora di più se erano annessi alla chiesa e ancora di più se questa era una pieve, cioè un’istituzione ad uso di un territorio44.

Questi beni fruttavano dei tributi a cui si univano i proventi delle attività liturgiche divisi, come si è detto, tra Truppoaldo, Adelferio e l’Arcivescovo. C’erano "offertas et quicquid in ipsa ecclesia introierit" che non sono quantificabili ma che erano usufruiti interamente dal prete locale; c’erano i proventi relativi alle "sepoltura", "et votationes et centa de ipsa ecclesia", divisi a metà tra il concedente e il beneficiario; c’erano gli obblighi pecuniari e in natura di Truppoaldo nei riguardi delle due autorità, le cui proporzioni sono indicate con rigorosa precisione e che avevano delle scadenze nel corso dell’anno; c’era il patrimonio agricolo della chiesa, che Truppoaldo doveva far fruttificare e non far scadere nell’incolto e che era goduto sia dal preposto solofrano che dagli uomini che vi lavoravano, secondo la politica agraria medioevale, che voleva il godimento dei beni da parte di chi era sul fondo, affinché potesse rendere bene; e c’era il patrimonio pastorale, gli animali di allevamento e quelli al servizio delle attività agricole, che qualificano il centro economico con quelle caratteristiche che si evincono in documenti coevi e che saranno poi regolamentate negli Statuti45.

Ancora una volta la chiesa si conferma un ente economico-religioso al centro della realtà agro-artigiana del luogo, un centro che promuoveva e sosteneva il commercio. Se si considerano infatti i termini con cui venne stabilita la corresponsione dei censi, e cioè l’espressione "dare vel dirigant", si evidenzia il rapporto con Salerno reso obbligatorio dall’imposizione dei tributi che avveniva più volte in un anno e che si traduceva anche in un rapporto commerciale in quanto coloro che portavano i tributi a Salerno partecipavano ai mercati, che si tenevano nella città in occasione di tutte le festività religiose. In genere erano i missi dei proprietari a giungere nei fondi per raccogliere i tributi ai quali il conduttore doveva dare ospitalità, come si evidenzia in altri documenti coevi, mentre qui è chiaro che sono i messi di Truppoaldo a recarsi a Salerno, cosa che conferma la via commerciale dei prodotti locali46.

Inoltre l’accenno alla tradizione che legava la chiesa di Salerno alla pieve, il fatto che la concessione fu estesa agli eredi e la clausola di garanzia che pose Truppoaldo come garante del patto confermano la funzione della chiesa e il nucleo fondante che si era formato intorno ad essa47.

Il documento permette anche di individuare le tappe liturgiche che durante l’anno scandivano la vita religiosa del locum, che in quel momento era il centro di due culti. Dalla formula die noctuque si deduce che nella pieve c’era regolarità del servizio religioso, che la chiesa accoglieva i chierici delle cappelle sparse nel distretto pievano per l’officiatura durante le feste rituali più importanti. C’era un periodo più intenso da "adventum Domini usque in octaba de Pascha"48, c’erano le due feste peculiari della religiosità popolare del locum, quella di "sancte Marie de mense augusto", celebrata con particolari riti e con la prescrizione di precisi tributi da versare all’episcopio salernitano e quella di "sancti Angeli de mense magio", rito più importante dell’altro perché il tributo che scadeva in occasione della festa micaela era il censo di ricognizione ("deat nobis pro censum), un tributo indicativo del beneficio. Questa scadenza, preferita a quella di agosto, è indice di un già avviato processo di sostituzione che portò al sopravvento della festa dell’Angelo sull’altra fino alla scomparsa della intestazione alla Vergine, processo che si completò alla fine del secolo, quando la chiesa subì il processo di ristrutturazione istituzionale, di cui si è detto, divenendo parrocchia, per cui cadde la doppia intestazione restando solo quella al Santo Angelo, infatti si chiamò semplicemente "Brebe de Sancto Angelo"49.

La suppellettile liturgica era quella propria di una chiesa che aveva la cura animorum, i libri liturgici infatti coprivano le funzioni dell’intero anno. Tra essi c’era il "liver comes", un tipo di lezionario per la liturgia di tutto l’anno che nella seconda metà dell’XI secolo scomparve per dar posto al breviario cioè alla fusione dello stesso lezionario con due antifonari. Nella descrizione dei libri della pieve si vede in atto questo processo di assorbimento infatti "in ipso volumine [nel liver comes] coniunctum abet antifonarium de die adventum Domini usque in sancte Marie de mense augustus, et alium antifonarium de nocte anni circuli50. C’erano poi il "salterio", un libro sacro che nel Medioevo ebbe un posto importante e che si usava anche come libro di lettura, conteneva infatti preghiere liturgiche e private che si imparavano a memoria, l’omelario, un libro con i sermoni per le varie festività, il "manuale", un libro di orazioni. Di particolare importanza erano due libri - detti "legere" - caratteristici del medioevo che permettevano letture di edificazione religiosa, in quanto erano raccolte di racconti o di fatti notevoli intorno ai santi51.

C’erano poi gli oggetti sacri per i riti  - campana una, turibulum ereum unum, et sindones linee sidecim, curtina unam, planete due, orarium unum, amittum unum trilice unam, calice unum, pastena una de stainus -  tra cui la sindone che era un panno in cui si raccoglievano e conservavano i pani offerti ai fedeli nel divino sacrificio.

Ricapitolando si deve dire che questa chiesa fu punto di riferimento e matrice di un centro di culto per gli uomini sparsi in un’area fortemente conservativa, ai margini di una pianura attraversata da forti contrasti e da pericoli d’ogni genere; acquistò poi, col popolarsi della pianura, il carattere di chiesa parrocchiale, conservando però, in un territorio più ristretto, l’impronta della pieve, cioè di chiesa-madre che fortemente assemblò la variegata struttura abitativa della conca. Diventò così vincolo saldo della comunità isolata nel lavoro e negli ampi spazi di allora, unitaria testimone delle vicende di essa e suo elemento di continuità. E con essa l’Arcangelo, vero patrono legato alla terra e al gruppo sociale in un tempo in cui il signore imponeva col suo potere anche il santo per catturare l’obbedienza delle popolazioni. Tutto ciò avveniva prima che nel locum sorgesse un’entità amministrativa. E in questo la comunità del locum Solofra ha seguito il cammino di ogni comunità.

 

Note

1. Di questa chiesa hanno parlato B. Ruggiero, "Parrochia" e "plebs" in alcune fonti del Mezzogiorno longobardo e normanno in "Campania sacra", V (1974), pp. 5-11 e Per una storia della pieve rurale nel Mezzogiorno medievale in Potere, istituzioni, chiese locali: Aspetti e motivi del Mezzogiorno medievale dai Longobardi agli angioini (Bologna, 1977, p. 179) e M. De Maio, La pieve di S. Angelo e S. Maria de "Locum Solofre" in "Rassegna storica irpina", 5-6 (1992), pp. 87-119 e in Alle radici di Solofra. Dal tratturo transumantico all’autonomia territoriale (Avellino, 1997, pp. 31-36 e infra) ora anche in versione web: http://www.solofrastorica.it/radicilibro.

2. M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 9-28. In questo studio è dimostrata la continuità abitativa della zona dal pagus romano alla pieve altomedioevale.

3. Ibidem.

4. B. Ruggiero, Per una storia...., cit.; G. Crisci - A. Campagna, Salerno sacra, Salerno, 1962, pp. 139 e sgg.; G. Crisci, Il cammino della Chiesa salernitana nell’opera dei suoi vescovi, I, Napoli-Roma, 1976, pp. 55-72.

5. Oltre a quella di Solofra ci furono le pievi di S. Cesareo, di Rota e di Nocera che furono i quattro centri di questa nuova realtà dell’entroterra salernitano (B. Ruggiero, Per una storia..., cit.).

6. M. De Maio, Alle radici...,cit., pp. 24-28.

7. B. Ruggiero, Per una storia..., cit., p. 179.

8. Ibidem, p. 84.

9. È questo il nome medioevale del torrente Solofrana che ingloba tre denominazioni date allo stesso corso d’acqua nei documenti cavensi: il primo si riferisce all’alto corso del fiume, che nasce in territorio solofrano e che dette il nome anche ad un casale (lo fiume appunto), il secondo alla denominazione avuta dal fiume nella zona pianeggiante fino a Rota (per contrazione del più esteso flubio-rivus siccus) riferendosi al tratturo transumantico fluviale usato dai Sanniti nei loro spostamenti transumantici verso le zone pianeggianti, il terzo alla denominazione che lo stesso prendeva a Rota fino alla confluenza nel Sarno nei pressi di Nocera (cfr. M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 9-13).

10. Il locum Solofre aveva oltre all’arroccamento di Cortina del cerro, altri fondi con pertinenze che delineano un diffuso insediamento sparso in una parte della conca (cfr. M. De Maio, Alle radici...., cit., pp. 83-85 e l’Appendice documentaria, pp. 103-130).

11. Il locum Sancte Agathe occupava un’altra parte della conca solofrana sulle pedici e ai piedi del Pergola-San Marco (cfr. M. De Maio, Alle radici ..., cit., pp. 91-95).

12. Ibidem, pp. 9 e sgg. In questo studio è stata dimostrata l’esistenza della via ed è stata sistemata tutta l’antica valenza dei luoghi da essa attraversati.

13. V. il documento in calce a questo articolo. Dice il concessionario della chiesa: Et die noctuque in ipsa ecclesia officia[t] seu officiare faciad sicut decet ecclesias villanas, sottolineando uno degli obblighi derivanti dall’ufficio plebano di asilo e di ritrovo religioso per le popolazioni sparse nelle campagne.

14. Cfr. F. Heiler, La madre di Dio nella fede e nella preghiera dei primi secoli in "Ricerche religiose", VII, 1931. Di un altare dedicato "ab antiquo" a Santa Maria "de mezzo agosto" esistente nell’edificio si parla in un atto notarile del XVI secolo quando, abbattuta la chiesa per costruire un nuovo edificio, si dovettero sostituire le cappelle in essa esistenti (cfr. Archivio di Stato di Avellino, Notai, B6574, II, ff. 73v-74r).

15. M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 36-44. Nella battaglia di Siponto dell’8 maggio del 625 i Longobardi, attribuendo la vittoria all’aiuto dell’Arcangelo che dominava dall’alto del Gargano, ne adottarono il culto e la festa (P. Diacono, Historia Langobardorum, V, 1, IV, 46). Tale culto soppiantò l’altro bizantino sempre dedicato all’arcangelo ma nella forma ingrottata.

16. La doppia titolazione delle chiese fu una pratica molto diffusa all’inizio della dominazione longobarda (cfr. A. Crivellucci, Le chiese cattoliche e i Longobardi ariani in Italia, in "Studi storici", VI, 4, 1897, pp. 93-115.

17. In effetti Truppoaldo ricevette una prebenda individuale che permise di assicurare un’amministrazione più vigile e sollecita della chiesa e un più razionale sfruttamento dei beni. Il documento lo dice filius quondam Dilecti clerici, una persona dedita allo studio appartenente ad un rango elevato della società locale che altri documenti coevi mostrano essere formata da artigiani e mercanti.

18. Adelferio, appartenente alla famiglia che alla fine del X secolo era entrata nel possesso della chiesa di S. Massimo, ne fu il rettore dal 1033 al 1056 e l’ultimo dei suoi abati.

19. La potente chiesa palatina della famiglia dei principi di Salerno fu voluta dal principe Guaiferio accanto al suo palazzo e dotata di beni nella stessa città e di molti possedimenti nei territori a sud di Salerno e nella pianura di Rota e Montoro fino a Nocera. Questa istituzione è stata studiata da B. Ruggiero in Principi, nobiltà e Chiesa nel Mezzogiorno longobardo. L’esempio di S. Massimo di Salerno (Napoli, 1973).

20. Amato III oltre ad essere presente alla stipula dell’atto ne dette l’assenso poiché la chiesa era soggetta e pertinente all’episcopio salernitano. Adelferio infatti dice: Per largietatem ipsius domini archiepiscopi, formula che attesta senza equivoci che l’amministrazione dei beni della chiesa era sotto il controllo dell’autorità religiosa, assicurata proprio dalla presenza dell’arcivescovo.

21. B. Ruggiero, Per una storia... cit., pp. 70 e sgg.

22. Radelgisi et Siginulfi principum divisio ducatus Beneventani, ed. Fr. Bluhme in MGH, LL. IV, Hannoverae, 1868, pp. 221-225, c. 1. Il confine passava sui monti di Forino-Montoro toccando il territorio di Aiello-Tavernola e giungeva al Sabato in località "ad Peregrinos", dove era l’immissione sulla via di comunicazione con la Puglia e dove c’era una stazione per i pellegrini che si recavano al santuario del Gargano protetti da una precisa clausola dell’atto di divisione.

23. Questa linea difensiva risale all’opera del potenziamento militare della zona messo in atto da Arechi I prima della conquista di Salerno poi rinforzata all’epoca della divisione del grande Ducato di Benevento (cfr. M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 39 e sgg.).

24. Cfr. M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 46 e sgg. e nell’Appendice documentaria (pp. 103 e sgg.) ove sono riportati i documenti cavensi che testimoniano sia gli ampi possessi della chiesa che quelli dei principi longobardi.

25. B. Ruggiero, Principi, nobiltà ..., cit., pp. 15 e sgg.

26. Adelferio indica in modo chiaro e ripetuto ciò che ogni anno dovrà essere corrisposto a lui e all’arcivescovo nelle varie festività (dare nobis vel in pars ipsius archiepiscopi .... dare nobis vel dirigant... pars ipsius archiepiscopi) e ciò che è concesso a Truppoaldo. V. ultra.

27. Adelferio dichiara che egli partecipa, in qualità di procuratore e beneficiario, al possesso della chiesa e dei suoi beni che appartenevano all’episcopio salernitano (subi[ecte et per]tinentis ipsius archiepiscopii, quod ego in beneficium teneo a pars ipsius archiepiscopii [...] ad potestate nostra vel de / pars ipsius archiepiscopi).

28. La donazione avvenne all’inizio del periodo normanno, nel 1079, ad opera del figlio di Roberto il Guiscardo, Ruggiero Borsa. (B. Ruggiero, Principi, nobiltà..., cit., pp. 45 e sgg).

29. V. ultra.

30. G. Crisci, Il cammino della chiesa..., cit., pp. 178 e sgg. 

31. Lo sviluppo del cenobio cavense, a cui non furono estranei gli ultimi principi di Salerno, si intensificò nella seconda metà del secolo XI quando tutte le terre di S. Massimo e la stessa chiesa fu assorbita dall’abbazia contro cui l’episcopio salernitano all’inizio fece una politica ostile (cfr. G. Portanova, I Sanseverino e l’Abbazia cavense (1061-1324), Badia di Cava, 1977, pp. 23-27 e 44 e sgg. e B. Ruggiero, Principi..., cit., pp. 81 e 197 e sgg.).

32. B. Ruggiero, Per una storia..., cit., pp. 64-65.

33. R. F. Kher, Italia pontificia, VIII, Regnum Normannorum. Campania, Barolini, 1935, n. 29, p. 353.

34. B. Ruggiero, Per una storia..., cit., p. 63. Gli studi del Ruggiero hanno dimostrato che nell’area salernitana la parola "parrochia" sostituì la parola "plabs" e quindi le relative realtà, assumendone il significato proprio, in seguito al morire della struttura pievana.

35. R. F. Kher, op. cit. La rivendicazione era avvenuta tra il 1076 e il 1085.

36. F. Ughelli, Trogisius de Rota, VII, 383. Fin dal 1065 il guerriero normanno Troisio, venuto al seguito del Guiscardo e detto poi di Rota, espugnata "la rocca di Rota" aveva esteso "il suo dominio per castelli e valli nel territorio di Rota operando spoliazioni". Il papa Alessandro II con la bolla "Notum est omnibus sanctae ecclesiae filiis" confermò i territori alla chiesa di Salerno (cfr. G. Crisci, op. cit., p. 39; G. Portanova, op. cit., pp. 31-40).

37. Solofra è chiamata vico nel 1159 (v. il documento in. M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 119-120), mentre S. Agata nel 1127 (v. il documento in ibidem, pp. 117-118).

38. Cfr. G. Paesano, Memorie per servire alla storia della Chiesa salernitana, I, Napoli, 1846, pp. 176-179; R. F. Kher, op. cit., p. 358. Il territorio dell’ex-distretto pievano di Solofra si arricchì di due chiese: S. Giuliano e S. Andrea. Per il governo dei Tricarico v. M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 61 e sgg.

39. Tale caratteristica fu mantenuta dalla istituzione religiosa che sostituì la chiesa all’inizio del XVI secolo quando fu abbattuto l’antico edificio e al suo posto fu costruita la Collegiata di S. Michele Arcangelo e il Capitolo canonicale fu trasformato, con bolla pontificia, in Collegio di undici canonici con a capo un primicerio. Da sottolineare che i canonici dovevano essere solofrani o oriundi, caratteristica che riflette l’obbligo plebano dei presbiteri di essere del posto ove sorge la chiesa. (cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno angioino aragonese, Solofra, 2000, pp. 159-160).

40. Nel 1187 è documentata a Solofra l’esistenza della curia (v. il documento in M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 122-123) quando divenne anche centro amministrativo autonomo. Per la realtà solofrana nel periodo normanno v. ibidem, pp. 55 e sgg.

41. Nel documento è citato il laborandum fobee che era il contratto agricolo col quale il proprietario affidava a lavoranti la cura dei campi dividendo con essi i prodotti. Da notare che i lavoranti che Truppoaldo poteva assumere nella conduzione delle terre non erano liberi, cioè non godevano dei diritti di proprietà, potevano però essere soggetti di contratti.

42. Questi prodotti e questi lavori, già presenti nella documentazione coeva, si mostreranno in forma matura, perché svolti da "antico tempo", negli atti notarili dell’inizio del XVI secolo. Tra le attività, oltre alla concia, c’è la lavorazione della carne salata che fu una specificità locale anche perché la sugna era un prodotto usato nella concia delle pelli (cfr. M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 83-90 e l’Appendice documentaria; Id., Solofra nel mezzogiorno angioino-aragonese, cit., pp. 174 e sgg.).

43. Per l’origine autoctona della concia delle pelli v. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno-angioino aragonese, cit., (pp. 133-134) dove si analizza un importante articolo degli antichi Statuti in cui è regolato questo lavoro proprio nelle terre della pieve, dove si era formato il casale delle concerie.

44. Ancora all’inizio del XVI secolo quando si dispone di una cospicua documentazione il forno era di uso comune.

45. V. nota 32. Il primo corpus statutario solofrano raccoglie articoli scritti tra il XIII e il XIV secolo, il secondo comprende una legislazione avvenuta lunga tutto il XV (cfr. M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno angioino-aragonese, cit., pp. 109 e sgg. e 221 e sgg.).

46. Questi rapporti avranno poi come centro le due grandi fiere salernitane del mese di maggio e di settembre. Quest’ultima anzi diventerà un termine di scadenza dei contratti commerciali come si evince dai contratti regestati nell’Appendice documentaria in M. De Maio, Solofra nel Mezzogiorno angioino-aragonese, cit., (pp. 237 e sgg.).

47. Per la coeva realtà artigiano mercantile di cui il territorio era espressione v. M. De Maio, Alle radici..., cit., pp. 29 e sgg.

48. Queste festività richiamano il tempo della religiosità pagana legate alla vita agricola nel quale si seguiva il seme nella terra fino al suo germogliare, assorbite poi dalle festività del cristianesimo. Questo passaggio avvenne più facilmente là dove già c’era una liturgia in tal senso (cfr. G. P. Bognetti, Bizantini e Longobardi, cit., pp. 334-335).

49. È questa la scritta posta sul dorso del documento con calligrafia di poco posteriore: "Brebe de Sancto Angelo de Solofra".

50. Unito a questo libro ci sono due antifonari, uno per i canti diurni, che va dal giorno dell’Avvento alla festività della Madonna del mese di agosto, e l’altro per i canti notturni dell’intero anno. Nel Medioevo le celebrazioni erano essenzialmente corali perciò presso le chiese esisteva una vera e propria biblioteca destinata ai vari ministeri e alle varie celebrazioni. Da tenere presente che la festività della Madonna del 15 agosto era quella originaria della chiesa.

51. Nel documento si citano i racconti su S. Pietro e S. Angelo, S. Nicola e S. Fortunato, un martire salernitano del III secolo le cui reliquie furono trasportate in Salerno dalla periferia alla fine dello stesso secolo (Cfr. G. Crisci, Il cammino...., cit., pp. 47-48).

 

  Questo studio è pubblicato su www.storiadelmondo.com (maggio 2003).

 

 

Approfondimenti

 

Una questione storiografica

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Questo documento1, scritto all’epoca del grande Guaimario2, fu così regestato nel 1959 da Antonio Balducci: "1042, giugno. Collazione in cartapecora delle Chiese di S. Angelo e S. Maria, site in Solofra con tutti gli stabili e mobili, sacri utensili, fatta da Adelferio Presbitero et Abbate della Chiesa di S. Massimo per parte dell’Arcivescovo Amato, et in persona di Truppoaldo Presbitero di Solofra per l’annuo censo di mezza libra di cera, ova cinquanta e due polli in segno di ricognizione. Rog. Da Marinaldo Not. Nell’anno XXIV di Guaimario IV principe di Salerno e II Gisulfo suo figlio"3. La sottolineatura indica un errore che si trova anche nei precedenti Paesano4, Pennacchini5, Scandone6.

Antonio Graziani, riportando in appendice ad alcune note di storia solofrana il testo balducciano, faceva notare la pochezza dell’annuo censo7 quale si ricavava da quel regesto che anche per questa notazione risulta errato e mancante. Generoso Crisci ed Angelo Campagna infine nello studio Salerno sacra affermano: "Nel 1042 si conoscono a Solofra due chiese: S. Angelo e S. Maria concesse da Alferio" e in nota citano come fonti Pennacchini e Paesano8.

Nel 1974 il coautore dell’opera precedentemente citata, Generoso Crisci, nella sua ampia storia della Chiesa di Salerno parlando dell’opera di Amato III riferisce del conferimento fatto dall’arcivescovo al presbitero Truppoaldo della "ecclesia vocabulum S. Angeli et sancte Marie que est constructa in ipsum locum Solofre con tutti i beni annessi" e in nota precisa che "si tratta di una sola chiesa e non di due come si rileva chiaramente dalla lettura della pergamena originale"9. Lo studioso nel rielaborare per questa sua seconda opera il materiale precedentemente acquisito mostra di aver letto direttamente il documento e pone rimedio all’errore. Egli mostra anche di essersi accorto che presso l’Archivio Diocesano di Salerno esiste una errata trascrizione della pergamena vergata a mano con grafia uniforme ed inchiostro nero su foglio protocollo, sul bordo sinistro del quale c’è in senso verticale una scritta a matita che dice :"Errata in molti punti. Iorio. Da chi è stata fatta?"10.

Il documento ha visto la luce per merito di Bruno Ruggiero che ne fece una nuova e corretta trascrizione pubblicata postuma in Appendice allo studio Potere, istituzioni, chiese locali, più volte qui citato. Il regesto del Ruggero dice: "Adelferio, diacono e archipresbitero e abate di S. Massimo, in presenza e per concessione di Amato, arcivescovo di Salerno. Concede a vita a Truppoaldo presbitero del fu Diletto chierico la chiesa pievana di S. Maria e S. Angelo di Solofra, soggetta e pertinente all’archiepiscopio salernitano e tenuta in beneficio dallo stesso Adelferio; insieme con la chiesa concede i suoi beni mobili ed immobili, perché ne goda e offici e faccia officiare nella chiesa, tenendo per sé alcune delle offerte dei fedeli, dividendone altre a metà, mentre degli animali e di altri oggetti ornamentali della chiesa potrà usufruire, conservandoli tuttavia ad essa come beni suoi propri. Il concessionario si obbliga a pagare un annuo censo nelle festività di S. Angelo e S. Maria del mese di maggio e di S. Maria del mese di agosto, nel giorno di Natale e il giovedì santo, quando a sua volta riceverà le sacre specie, il crisma e l’olio santo" (pp. 88-90).

Il documento, che il Ruggiero definì "una preziosa - ed unica per la nostra diocesi - carta di collazione" (p. 82), è stato pubblicato, disturbato da molti refusi, nel 1989 da Francesco Garzilli nel suo La Collegiata di San Michele Arcangelo in Solofra (Napoli, 1989) con una lettura in parte scorretta in quanto il Garzilli, pur citando il Ruggiero mostra di non averlo letto, infatti confonde la chiesa palatina di S. Massimo con un’inesistente chiesa di Montoro e mostra di non conoscere affatto la dimensione plebana della diocesi di Salerno ricostruita dal Ruggiero confondendo la pieve con la parrocchia, e ritenendo "due le chiese" che mantenevano le due titolazioni unificate "come sede in un’unica parrocchia (plebs)" (p. 22). Infine lo stesso è stato pubblicato da Mimma De Maio nello studio monografico dal titolo La pieve di S. Angelo e Santa Maria del “Locum Solofre” in “Rassegna storica irpina”, 1992, pp. 87-120 (anche in estratto autonomo pubblicato da Grafic Way - Avellino) e dalla stessa autrice nell’Appendice documentaria di Alle radici di Solofra (Solofra, 1997, pp. 109-110) e in edizione web nel sito http://www.solofrastorica.it/pieve con ampie annotazioni.

 

Note

1. Il documento è un memoratorium che è un tipo di atto legale del diritto longobardo che riguardava le divisioni, le vendite e le donazioni. I Longobardi introdussero nella Longobardia minore il loro diritto senza sostituirlo a quello romano-giustinianeo, coesistettero infatti leggi romane e longobarde.

2. Governava sul principato di Salerno Guaimario IV (V) che era stato associato al trono dal padre Guaimario III (IV) nel 1018 e gli era successo nel 1027, nel 1038 era stato investito dall’imperatore Corrado II del Principato di Capua, nel 1039 per conquista militare fu principe di Amalfi e di Sorrento, nel marzo del 1042 si associò il figlio Gisulfo II, che fu l’ultimo principe longobardo prima della conquista normanna (1076). Guaimario morì il 4 giugno del 1052.

3. A. Balducci, L’archivio diocesano di Salerno. Cenni sull’Archivio del Capitolo metropolitano, I, Salerno, n. 9, pp. 5-6.

4. A. Paesano, op. cit., p. 104.

5. L. E. Pennacchini, Pergamene della curia arcivescovile di Salerno in “Rassegna storica salernitana”, anno VI, 1945, n. 3-4.

6. F. Scandone, Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, Avellino, 1956, p. 225.

7. A. Graziani, Purdgavine, Avellino, s. d., p. 14.

8. G. Crisci - A. Campagna, Salerno sacra, cit., p. 376 e nota.

9. G. Crisci, Il cammino..., cit., p. 76 e n.

10. Archivio Mensa Arcivescovile di Salerno, foglio sciolto in miscellanea, n. 9.

 

Testo del documento*

 

 

+  In nomine Domini[1]. Vicesimo quarto anno principatus Salernitani domini nostri Guaimari gloriosi principi et quarto anno principatus eius Capue et ducatus illius Amalfi et tertio anno ducatus eius Syrrenti et primo anno suprascriptorum principatuum et ducatuum domini Gisulfi ex mio Principis et dux filius eius[2], mense iunius, decima indicione[3]. Memoratorium[4]  factu a me Alferus diaconus et archipresbiter et abbas[5] ecclesie Sancti Maximi[6] et sum unum de domini ipsius ecclesie Sancti Maximi[7], eo quod ante presentia domini Amati venerabilis archiepiscopi sancte sedis Salernitane[8] et ibidem addesent ydoneis hominibus[9] per convenientiam[10], per largietatem ipsius domini archiepiscopi[11] tradidi[12] Truppoaldi presbiteri[13] filius quondam Dilecti clerici[14] de locum Solofre[15]  ecclesiam vocabulum Sancti Angeli et Sancte Marie[16], que est plebe[17] et constructa in ipso locum Solofre subi[ecte et per]tinentis ipsius archiepiscopii[18], quod ego in beneficium teneo a pars ipsius archiepiscopii quam et assignabi causa mobilia ipsius ecclesie ei[19], idest[20] liver comes anni circuli et in ipso volumine coniuctum abet antifonarium de die da adventum. Domini usque in sancte Marie de mense augustus, et alium antifonarium de nocte anni circuli[21], psalterium unum, omelia unam da adventum Domini usque in octaba de Pascha, manuale unum, / legere sancti Angeli et sancti Petri, et legere sancti Nicole et sancti Fortunati[22], campana una, turibulum ereum unum, et sindones linee sidecim, curtina unam, planete due, orarium unum, amittum unum, trilice unam, calice unum, patena una de stainuus[23], bocte maiore una, tractore due, ti[ne] quadtuor, bagine una, palmentum unum, casa de applicta tres, idest arca una et calce et unum furnum[24], idest ipsa ecclesia cum predicta mobilia et casis et cum omnis rebus stabile et mobile pertinentes ipsius ecclesie funditus illut ei tradidi[25], tali hordine, ut cunctis diebus vite sue illius sit potestati[26] eos tenendum et reiendum et licead illum et omines quos ibi miserit ad laboranorandum fobee et omnes sue hutilitatis ibi faciendum iusta ratione[27], et die noctuque in ipsa ecclesia officia[t] se officiare faciad sicut decet ecclesias villanas[28] et omnes offertas et quicquid in ipsa ecclesia introierit totum eius sit potestatis[29], scepta sepultura et votationes et centa de ipsa ecclesia quod ibi intraberint medietatem illut nobis dare et medietatem inde sivi abere[30], tantum si ibi intraberit animalia viba aut tale causa que ad ornamentum ipsius ecclesie pertinead semper sit de ipsa ecclesia et ipsa presbiter abendum illut dum vibus fuerit et dominandum et reiendum et iusta ratione salbum faciendum[31], sicut ipsa alia predicta mobilia et totis arbusti et alia rebus ipsius ecclesie annualiter suo nempe de super et de suptus laborare et cultare et laborare faciad et illu[t] prop[aginare faciad] ubi meruerit arbores et vites planctare[32], et sic per annum illut lavoraret sicut [in] ipso locum meruerit quatenus proficiat et non disperead[33] et omnis vinum et fruies quod per annum inde exierit totum ei sit potestati tantum de illut retinunt alii hominibus ad lavorandum per brebi a parte ipsius ecclesie illut quod inde dare debunt in pars ipsius ecclesie tollad et abead illut ipse presbiter dum vibus fuerit[34], et censum exinde per omnis annum dare nobis vel in pars ipsius archiepiscopii duo auri tari bonum et decem massole de cerea et in festivitate sancti Angeli de mense magio et sancte Marie de mense augusto per omnis annum dare nobis [...] cerea pro ipsa festivitate ibi intraberit, et Nativitas Domini per omnis annum similiter dare nobis vel diriga[nt dua ossa persupta bona et una longa et decem massole de cerea, et in die Sanctum Iobis per omnis annum dare nobis vel dirigant unum peculium bonum et quinquaginta oba et decem massole de ciria et unum parium de pulli[35], et stetit pars ipsius archiepiscopii inclita ipsa traditione ei defendere diebus vite sue cum vice de bia sua da omnes omines omnique partibus[36]. Ad ovitum suum inclita suprascripta traditione iusta ratione salva et ipsa rebus cultata revertad ad patestate nostra vel de pars ipsius archiepiscopii, et heredes suas licead inde exire cum omnia sua causa mobiles[37], et potestatem habead ipse presbiter ipsi homines lavoratores quos diximus perquirere per annum si vene animalia operant ipsa rebus, quod si male laborant licead illis inde pignerare pro pars et vice ipsius ecclesie, et stetit ut ipsa ecclesia et ipsa casa et cella quando meruerit coperire et conciare ut per omnis annum bona paread decopertas et conciatas[38]. Unde in eo hordine per conbenientiam guadiam mihi dedit ipse Truppoaldus presbiter et fideiussore mihi posuit se ipsum per partes placentem, ut si talia omnia suprascripta per supradictum hordinem nobis non adimpleverit et aliquit inde contradixerint per ipsa guadia componere obligavit se ipse presbiter et sui eredes mihi vel in pars ipsius archiepiscopii triginta auri solidi costantiniani et apposuit ei [...] nobis seu in pars ipsius ecclesie ad pignerandum omnia sua causa legitimo et inlegitimo[39] [...].  Hoc memoramus ut in ipsa festivitate sancti Angeli de mense magius deat nobis pro censum duo auri tari et decem massole de ciria, et in die Sanctu Iobis demus ad ipsum presbiter vel ad missum eius formata et chrisma et oleo sancto sicut meruerit[40].  Quod scripsi eo Mirandus notarius[41] (S).

+ Ego Romoaldus me subscripsi (S).

+ Ego Ademari me subscripsi[42] (S).

 

 

*Archivio arcivescovile di Salerno, arca, 1, n. 9 in B. Ruggiero, Potere, istituzioni, chiese locali. Aspetti e motivi del Mezzogiorno medievale dai Longobardi agli Angioini, Bologna, 1977, Appendice, pp. 88-90.

 

1. In nomine Domini: è l’invocazione che apriva ogni contratto pubblico del Principato di Salerno nell’XI secolo. L’atto legale aveva questa sequenza: l’invocazione e la data, l’esposizione del fatto, l’elenco degli obblighi tra i due contraenti, le riserve e le soluzioni, le clausole di garanzia, la sottoscrizione.

2. Vicesimo....eius: è la datazione salernitana basata sull’epoca del sovrano, sul mese e sulla indizione. Il principe Guaimario IV (V) era stato associato al trono dal padre Guaimario III (IV) nel 1018 e gli era successo nel 1027, anno in cui inizia la datazione del suo principato; nel 1038 fu investito dall’imperatore Corrado II del Principato di Capua; nel 1039 per conquista militare si fregiò del titolo di principe di Amalfi e di Sorrento; nel marzo del 1042 Guaimario si associò il figlio Gisulfo II, che fu l’ultimo principe longobardo prima della conquista normanna (1076). Guaimario morì il 4 giugno del 1052.

3. Decima indicione: l’indizione è un computo cronologico fondato su cicli di 15 anni che cominciò ad essere usato comunemente nella datazione delle bolle papali e degli atti notarili dal 313 d.C. L’indizione in questione era cominciata nel 1033 per cui nel 1042 ci si trovava nel decimo anno. 

4. Memoratorium: è un tipo di atto legale del diritto longobardo che riguardava le divisioni, le vendite e le donazioni. I Longobardi introdussero nella Longobardia minore (i territori dell’Italia meridionale che rimasero longobardi fino alla fine del XI secolo) il loro diritto senza sostituirlo a quello romano-giustinianeo, coesistettero infatti leggi romane e longobarde.

5. Alferus....abbas: è Adelferio, il rettore della chiesa salernitana di S. Massimo dal 1033 al 1056 e l’ultimo dei suoi abati. Appartenne alla famiglia che alla fine del X secolo era entrata nel governo della chiesa.

6. Ecclesie Sancti Maximi: è la potente chiesa palatina della famiglia dei principi di Salerno, voluta dal principe Guaiferio accanto al suo palazzo e dotata di beni nella stessa città e di molti possedimenti nei territori a sud di Salerno e nella pianura di Rota e Montoro fino a Nocera.

7. Sum unum....Sancti Maximi: formula legale con la quale Adelferio si dichiara uno dei possessori dei beni della chiesa come detentore di una quota di proprietà.

8. Eo quod....sedis Salernitane: Amato III, arcivescovo di Salerno, è presente alla stipula dell’atto e ne dà l’assenso poiché la chiesa era soggetta e pertinente all’episcopio salernitano.

9. Et ibidem adest ydoneis hominibus: la presenza all’atto di uomini ydoneis, cioè di testimoni degni di fede, era richiesta dagli atti legali, che essi dovevano sottoscrivere. 

10. Per convenientiam: espressione legale che indicava l’accordo che i testimoni dovevano avallare.

11. Per largietatem....archiepiscopi: questa formula attesta senza equivoci che l’amministrazione dei beni della chiesa è sotto il controllo dell’autorità religiosa, assicurato dalla presenza dell’arcivescovo.

12. Tradidi: è il termine col quale si indica la concessione del bene.

13. Truppoaldi presbiteri: il presbitero Truppoaldo è la persona beneficiaria della locazione. In effetti Truppoaldo riceve una prebenda individuale, che permette di assicurare un’amministrazione più vigile e sollecita della chiesa e un più razionale sfruttamento dei beni.

14. Filius quondam Dilecti clerici: il riferimento al padre era richiesto nei documenti per distinguere le persone. I “clerici” erano coloro che si dedicavano allo studio.

15. De locum Solofre: Truppoaldo è un prete di Solofra.

16. Ecclesiam....Marie: è la chiesa di cui si parla in questo tratto. La doppia intestazione fu abbandonata presto, come dimostra la scritta sul dorso del documento con calligrafia di poco posteriore: “Brebe de Sancto Angelo de Solofra”.

17. Que est plebe: l’affermazione attesta le caratteristiche della chiesa. La pieve era una chiesa di campagna dell’alto medioevo, centro di un distretto religioso poco popolato. Ad essa facevano capo le popolazioni per i bisogni religiosi, in occasione delle festività. Era una chiesa caratteristica della pianura tra Salerno e il Sarno risalente alla diffusione del cristianesimo da Salerno dopo la guerra greco-gotica.

18. Subiecte....archiepiscopii: Adelferio dichiara che egli partecipa, in qualità di procuratore e beneficiario, al possesso della chiesa e dei suoi beni che appartenevano all’episcopio salernitano.

19. Quam...ei: con questa espressione Adelferio dichiara di concedere a Truppoaldo i beni mobili ed immobili della chiesa e la stessa chiesa.

20. Idest: inizia la descrizione dettagliata dei beni che riceve Truppoaldo e che sono le suppellettili necessarie per gli uffici liturgici, gli attrezzi per la vita agricola che si svolge nelle terre della chiesa e i beni immobili, utili per la vita della pieve che sono descritti di seguito. La chiesa si configura quindi anche come un centro economico.

21. Liver comes anni circuli: è citato qui il liver comes che è un tipo di lezionario per la liturgia di tutto l’anno e una raccolta delle sacre scritture. Unito ad esso ci sono due antifonari, uno per i canti diurni, che va dal giorno dell’Avvento alla festività della Madonna del mese di agosto, e l’altro per i canti notturni dell’intero anno. Nel Medioevo le celebrazioni erano essenzialmente corali perciò presso le chiese esisteva una vera e propria biblioteca destinata ai vari ministeri e alle varie celebrazioni. 

22. Psalterium....sancti Fortunati: continua l’elenco dei libri esistenti nella chiesa. Il “Salterio” era uno dei libri sacri, che ebbe nel Medioevo un posto importante perché conteneva preghiere liturgiche e private, lo si doveva imparare a memoria, veniva usato anche come libro di lettura. L’“omelario” era un libro che conteneva i sermoni per le varie festività. Il “Manuale” era un libro di orazioni varie. Col termine “legere” si indicava un libro di lettura di edificazione religiosa, cioè una raccolta di racconti o di fatti notevoli intorno ai santi. Tra i racconti contenuti nei libri della pieve c’è S. Fortunato che è un martire salernitano del III secolo.

23. Campana....patena una de stainus: qui sono elencati gli oggetti sacri per i riti tra cui c’è la sindone che era un panno in cui si raccoglievano e conservavano i pani offerti ai fedeli nel divino sacrificio.

24. Bocte maiore....unum furnum: qui sono citati gli attrezzi di proprietà della chiesa che indicano le attività che si svolgevano negli immobili di pertinenza della chiesa e che erano legati alla coltivazione di ulivi (un palmento per la torchiatura delle olive), della vite (varie botti per la pigiatura dell’uva tra cui una grande ove si lasciava fermentare e depositare per più mesi il mosto prima di travasarlo), del grano (tutto l’occorrente per la molitura della farina e la panificazione). Tutto ciò dimostra una comune attività del locum. Bisogna infatti tenere presente che, nella povertà dei mezzi in una zona agro-pastorale di scarsa densità, la vita aveva caratteri comuni molto spiccati per cui alcune costruzioni e anche gli attrezzi erano di uso comune (come sicuramente il forno) ancora di più se erano annessi alla chiesa e ancora di più se questa era una pieve, cioè un’istituzione ad uso di un territorio. La pieve si conferma come centro economico.

25. Idest ipsa ecclesia....tradidi: Adelferio, usando questa formula, che sintetizza i beni mobili e immobili oggetti della concessione, il concessionario afferma che sono del tutto integri. Da notare in questo elenco la sottolineatura di casis che accoglievano i chierici adetti all’officiatura presso la chiesa o anche persone bisognose dei servizi della chiesa. L’accogliere i chierici per i riti delle maggiori festività dell’anno era una caratteristica della pieve.

26. Tali ordine....potestati: questa espressione attesta che Truppoaldo riceve a vita la chiesa e i beni e che ha su di essi piena potestà.

27. Eos tenendum....iusta ratione: i lavoranti che Truppoaldo può assumere nella conduzione delle terre non erano liberi, cioè non godevano dei diritti di proprietà, potevano però essere soggetti di contratti. Il laborandum fobee era il contratto agricolo col quale il proprietario affidava a lavoranti la cura dei campi dividendo con essi i prodotti.

28. Et die noctuque....ecclesie villanas: uno degli obblighi derivanti dall’ufficio plebano era quello di assicurare la regolarità dell’officiatura liturgica. Adelferio sottolinea il compito della chiesa rurale che era punto di asilo e di ritrovo religioso per le popolazioni sparse nelle campagne. Dalla formula die noctuque si deduce che nella pieve c’era regolarità del servizio religioso, che la chiesa accoglieva i chierici delle cappelle sparse nel distretto pievano per l’officiatura durante le feste rituali più importanti.

29. Et omnes offertas....eius sit potestatis: è concesso a Truppoaldo il godimento delle offerte e di ogni altra entrata della chiesa.

30. Scepta sepoltura....inde sivi aberre: si considerano qui i redditi che Truppoaldo dovrà dividere con Adelferio e cioè i tributi per le sepolture, i doni fatti per voto e le entrate per i fitti. Adelferio rivendica la metà dei diritti di pertinenza della chiesa.

31. Tantum si ibi....salbum faciendum: da notare la ripetizione del godimento a vita dei beni della chiesa e la sottolineatura che essi debbano essere conservati integri. Tra questi c’è il patrimonio pastorale della chiesa che indica la realtà agro-pastorale del luogo. C’erano ovini, bovini, suini, equini, pollame e api. 

32. Sicut ipsa....vitas planctare: la sottolineatura degli obblighi di Truppoaldo nella conduzione dei campi è espressione della cura che si aveva nell’assicurare la buona fruttificazione di essi, la messa a coltura di nuove piante, la necessità che non si scadesse nell’incolto.

33. Et sicut per annum.... non disperead: si fa qui accenno alle consuetudini del luogo cui Truppoaldo deve attenersi. Ciò fa emergere l’abituale e periodico ripetersi di attività, che nel tempo sono diventate proprie del posto, il quale è chiaro che ha già acquisito una sua identità.

34. Et omnes vinum....dum vibus fuerit: la conferma del godimento dei prodotti dei campi non solo da parte di Truppoaldo ma anche degli uomini che li lavorano, qui fatta da Adelferio, fa parte della politica agraria medievale che vuole il godimento dei beni da parte di chi è sul fondo affinché questo possa rendere bene.

35. Et pro censum....parium de pulli: gli obblighi pecuniari e in natura di Truppoaldo nei riguardi dell’arcivescovo e di Adelferio hanno delle scadenze nel corso dell’anno e cioè in occasione delle due feste celebrate nella chiesa locale  - quella di S. Angelo del mese di maggio (la ricorrenza di S. Michele dell’8 maggio è dunque documentata fin da questo periodo) e quella di S. Maria del mese di agosto -  e delle feste dell’anno liturgico e cioè Pasqua (Sanctum Iobis è il giovedì santo) e Natale. Da notare la rigorosa precisazione con cui vengono stabilite le proporzioni in base alle quali saranno divisi i proventi delle terre tra la chiesa di Salerno e Truppoaldo. I termini con cui viene stabilita la corresponsione dei censi sono: “dare nobis”, “dare nobis vel dirigano” essi indicano che Truppoaldo deve inviare, tramite messi, il dovuto a  Salerno. Qui si evidenzia il rapporto con Salerno reso obbligatorio dall’imposizione dei tributi, che avveniva più volte in un anno e che si traduceva anche in un rapporto commerciale in quanto coloro che portavano i tributi a Salerno partecipavano ai mercati che si tenevano nella città in occasione di tutte le festività religiose. Da considerare inoltre che di solito erano i missi dei proprietari a giungere nei fondi per raccogliere i tributi ai quali il conduttore doveva dare ospitalità. Qui invece sono uomini di Truppoaldo che vanno a Salerno, il che conferma l’esistenza del commercio dei prodotti locali.

36. Et stetit....partibus: l’accenno alla tradizione che lega la chiesa di Salerno alla pieve del locum Solofre conferma tutto quanto si è detto intorno a questa istituzione.

37. Ad ovitum.... causa mobiles: l’estensione della concessione fatta da Truppoaldo agli eredi, che però avevano la facoltà di romperla, serviva a legare gli uomini al fondo.

38. Et potestatem....decopertas et conciatas: ricade sul detentore del beneficio l’obbligo di vigilare sulla buona conduzione della terra, di mantenere in buono stato la chiesa, le case, le celle. Col termine “cella” si indicavano i magazzini per raccogliere e conservare i frutti della terra, il che rispondeva all’uso dei tempi di unire in luoghi comuni i prodotti della terra per meglio difenderli e richiama una delle funzioni della pieve. Da considerare come la chiesa offra asilo e sia punto di ritrovo e di riferimento, prima ancora dei castelli, per la gente isolata negli ampi ed insicuri spazi di allora. 

39. Unde in eo ordine....inlegitimo: è la clausola di garanzia che pone Truppoaldo come garante del patto e determina, in caso di inadempienza per lui stesso e per i suoi eredi, la pena pecuniaria di 30 costantini d’oro da versare ad Adelferio, il quale a sua volta si impegna di far rispettare i patti. Sono citati in questo patto due istituti longobardi (guadia) l’uno indicato dal sintagma per combenienza che è il patto di garanzia, l’altro dall’espressione ad pignerandum che è l’atto legale di accettazione del pegno. 

40. Hoc memoramus....meruerit: è la formula che dopo aver riassunto il canone di base da versare in occasione della festa di S. Angelo di maggio, attesta l’investitura di Truppoaldo del crisma e dell’olio sacro che gli permetteva di battezzare e seppellire i morti. La corresponsione dell’annuo censo dimostra che il prete accetta il magistero disciplinare e si sottopone alla volontà del vescovo. Più del crisma è la possibilità di conservare e tramandare la memoria dei morti che fa del distretto pievano il centro ed il cuore della comunità umana che vi abita, la quale poi con la chiesa entra a far parte della società dei credenti e tramite essa può impetrare la protezione divina. Da considerare che tutto questo avviene a Solofra prima che si giunga alla sua autonomia territoriale ed amministrativa.

41. Scrive e firma il contratto il notaio Mirando che fu anche avvocato di S. Massimo e come tale controllava la gestione del patrimonio della chiesa. 

42. Romualdo e Ademaro sono i testimoni di cui si è detto alla n. 9. Erano persone del posto ed erano libere.

 

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*Archivio arcivescovile di Salerno, arca, 1, n. 9 in B. Ruggiero, Potere, istituzioni, chiese locali. Aspetti e motivi del Mezzogiorno medievale dai Longobardi agli Angioini, Bologna, 1977, Appendice, pp. 88-90.

[1] In nomine Domini: è l’invocazione che apriva ogni contratto pubblico del Principato di Salerno nell’XI secolo. L’atto legale aveva questa sequenza: l’invocazione e la data, l’esposizione del fatto, l’elenco degli obblighi tra i due contraenti, le riserve e le soluzioni, le clausole di garanzia, la sottoscrizione.

[2] Vicesimo....eius: è la datazione salernitana basata sull’epoca del sovrano, sul mese e sulla indizione. Il principe Guaimario IV (V) era stato associato al trono dal padre Guaimario III (IV) nel 1018 e gli era successo nel 1027, anno in cui inizia la datazione del suo principato; nel 1038 fu investito dall’imperatore Corrado II del Principato di Capua; nel 1039 per conquista militare si fregiò del titolo di principe di Amalfi e di Sorrento; nel marzo del 1042 Guaimario si associò il figlio Gisulfo II, che fu l’ultimo principe longobardo prima della conquista normanna (1076). Guaimario morì il 4 giugno del 1052.

[3]Decima indicione: l’indizione è un computo cronologico fondato su cicli di 15 anni che cominciò ad essere usato comunemente nella datazione delle bolle papali e degli atti notarili dal 313 d.C. L’indizione in questione era cominciata nel 1033 per cui nel 1042 ci si trovava nel decimo anno. 

[4]Memoratorium: è un tipo di atto legale del diritto longobardo che riguardava le divisioni, le vendite e le donazioni. I Longobardi introdussero nella Longobardia minore (i territori dell’Italia meridionale che rimasero longobardi fino alla fine del XI secolo) il loro diritto senza sostituirlo a quello romano-giustinianeo, coesistettero infatti leggi romane e longobarde.

[5]Alferus....abbas: è Adelferio, il rettore della chiesa salernitana di S. Massimo dal 1033 al 1056 e l’ultimo dei suoi abati. Appartenne alla famiglia che alla fine del X secolo era entrata nel governo della chiesa.

[6]Ecclesie Sancti Maximi: è la potente chiesa palatina della famiglia dei principi di Salerno, voluta dal principe Guaiferio accanto al suo palazzo e dotata di beni nella stessa città e di molti possedimenti nei territori a sud di Salerno e nella pianura di Rota e Montoro fino a Nocera.

[7]Sum unum....Sancti Maximi: formula legale con la quale Adelferio si dichiara uno dei possessori dei beni della chiesa come detentore di una quota di proprietà.

[8]Eo quod....sedis Salernitane: Amato III, arcivescovo di Salerno, è presente alla stipula dell’atto e ne dà l’assenso poiché la chiesa era soggetta e pertinente all’episcopio salernitano.

[9]Et ibidem adest ydoneis hominibus: la presenza all’atto di uomini ydoneis, cioè di testimoni degni di fede, era richiesta dagli atti legali, che essi dovevano sottoscrivere. 

[10]Per convenientiam: espressione legale che indicava l’accordo che i testimoni dovevano avallare.

[11]Per largietatem....archiepiscopi: questa formula attesta senza equivoci che l’amministrazione dei beni della chiesa è sotto il controllo dell’autorità religiosa, assicurato dalla presenza dell’arcivescovo.

[12] Tradidi: è il termine col quale si indica la concessione del bene.

[13] Truppoaldi presbiteri: il presbitero Truppoaldo è la persona beneficiaria della locazione. In effetti Truppoaldo riceve una prebenda individuale, che permette di assicurare un’amministrazione più vigile e sollecita della chiesa e un più razionale sfruttamento dei beni.

[14]Filius quondam Dilecti clerici: il riferimento al padre era richiesto nei documenti per distinguere le persone. I “clerici” erano coloro che si dedicavano allo studio.

[15]De locum Solofre: Truppoaldo è un prete di Solofra.

[16] Ecclesiam....Marie: è la chiesa di cui si parla in questo tratto. La doppia intestazione fu abbandonata presto, come dimostra la scritta sul dorso del documento con calligrafia di poco posteriore: “Brebe de Sancto Angelo de Solofra”.

[17]Que est plebe: l’affermazione attesta le caratteristiche della chiesa. La pieve era una chiesa di campagna dell’alto medioevo, centro di un distretto religioso poco popolato. Ad essa facevano capo le popolazioni per i bisogni religiosi, in occasione delle festività. Era una chiesa caratteristica della pianura tra Salerno e il Sarno risalente alla diffusione del cristianesimo da Salerno dopo la guerra greco-gotica.

[18]Subiecte....archiepiscopii: Adelferio dichiara che egli partecipa, in qualità di procuratore e beneficiario, al possesso della chiesa e dei suoi beni che appartenevano all’episcopio salernitano.

[19]Quam...ei: con questa espressione Adelferio dichiara di concedere a Truppoaldo i beni mobili ed immobili della chiesa e la stessa chiesa.

[20]Idest: inizia la descrizione dettagliata dei beni che riceve Truppoaldo e che sono le suppellettili necessarie per gli uffici liturgici, gli attrezzi per la vita agricola che si svolge nelle terre della chiesa e i beni immobili, utili per la vita della pieve che sono descritti di seguito. La chiesa si configura quindi anche come un centro economico.

[21]Liver comes anni circuli: è citato qui il liver comes che è un tipo di lezionario per la liturgia di tutto l’anno e una raccolta delle sacre scritture. Unito ad esso ci sono due antifonari, uno per i canti diurni, che va dal giorno dell’Avvento alla festività della Madonna del mese di agosto, e l’altro per i canti notturni dell’intero anno. Nel Medioevo le celebrazioni erano essenzialmente corali perciò presso le chiese esisteva una vera e propria biblioteca destinata ai vari ministeri e alle varie celebrazioni. 

[22]Psalterium....sancti Fortunati: continua l’elenco dei libri esistenti nella chiesa. Il “Salterio” era uno dei libri sacri, che ebbe nel Medioevo un posto importante perché conteneva preghiere liturgiche e private, lo si doveva imparare a memoria, veniva usato anche come libro di lettura. L’“omelario” era un libro che conteneva i sermoni per le varie festività. Il “Manuale” era un libro di orazioni varie. Col termine “legere” si indicava un libro di lettura di edificazione religiosa, cioè una raccolta di racconti o di fatti notevoli intorno ai santi. Tra i racconti contenuti nei libri della pieve c’è S. Fortunato che è un martire salernitano del III secolo.

[23]Campana....patena una de stainus: qui sono elencati gli oggetti sacri per i riti tra cui c’è la sindone che era un panno in cui si raccoglievano e conservavano i pani offerti ai fedeli nel divino sacrificio.

[24]Bocte maiore....unum furnum: qui sono citati gli attrezzi di proprietà della chiesa che indicano le attività che si svolgevano negli immobili di pertinenza della chiesa e che erano legati alla coltivazione di ulivi (un palmento per la torchiatura delle olive), della vite (varie botti per la pigiatura dell’uva tra cui una grande ove si lasciava fermentare e depositare per più mesi il mosto prima di travasarlo), del grano (tutto l’occorrente per la molitura della farina e la panificazione). Tutto ciò dimostra una comune attività del locum. Bisogna infatti tenere presente che, nella povertà dei mezzi in una zona agro-pastorale di scarsa densità, la vita aveva caratteri comuni molto spiccati per cui alcune costruzioni e anche gli attrezzi erano di uso comune (come sicuramente il forno) ancora di più se erano annessi alla chiesa e ancora di più se questa era una pieve, cioè un’istituzione ad uso di un territorio. La pieve si conferma come centro economico.

[25]Idest ipsa ecclesia....tradidi: Adelferio, usando questa formula, che sintetizza i beni mobili e immobili oggetti della concessione, il concessionario afferma che sono del tutto integri. Da notare in questo elenco la sottolineatura di casis che accoglievano i chierici adetti all’officiatura presso la chiesa o anche persone bisognose dei servizi della chiesa. L’accogliere i chierici per i riti delle maggiori festività dell’anno era una caratteristica della pieve.

[26]Tali ordine....potestati: questa espressione attesta che Truppoaldo riceve a vita la chiesa e i beni e che ha su di essi piena potestà.

[27]Eos tenendum....iusta ratione: i lavoranti che Truppoaldo può assumere nella conduzione delle terre non erano liberi, cioè non godevano dei diritti di proprietà, potevano però essere soggetti di contratti. Il laborandum fobee era il contratto agricolo col quale il proprietario affidava a lavoranti la cura dei campi dividendo con essi i prodotti.

[28]Et die noctuque....ecclesie villanas: uno degli obblighi derivanti dall’ufficio plebano era quello di assicurare la regolarità dell’officiatura liturgica. Adelferio sottolinea il compito della chiesa rurale che era punto di asilo e di ritrovo religioso per le popolazioni sparse nelle campagne. Dalla formula die noctuque si deduce che nella pieve c’era regolarità del servizio religioso, che la chiesa accoglieva i chierici delle cappelle sparse nel distretto pievano per l’officiatura durante le feste rituali più importanti.

[29]Et omnes offertas....eius sit potestatis: è concesso a Truppoaldo il godimento delle offerte e di ogni altra entrata della chiesa.

[30]Scepta sepoltura....inde sivi aberre: si considerano qui i redditi che Truppoaldo dovrà dividere con Adelferio e cioè i tributi per le sepolture, i doni fatti per voto e le entrate per i fitti. Adelferio rivendica la metà dei diritti di pertinenza della chiesa.

[31]Tantum si ibi....salbum faciendum: da notare la ripetizione del godimento a vita dei beni della chiesa e la sottolineatura che essi debbano essere conservati integri. Tra questi c’è il patrimonio pastorale della chiesa che indica la realtà agro-pastorale del luogo. C’erano ovini, bovini, suini, equini, pollame e api. 

[32]Sicut ipsa....vitas planctare: la sottolineatura degli obblighi di Truppoaldo nella conduzione dei campi è espressione della cura che si aveva nell’assicurare la buona fruttificazione di essi, la messa a coltura di nuove piante, la necessità che non si scadesse nell’incolto.

[33]Et sicut per annum.... non disperead: si fa qui accenno alle consuetudini del luogo cui Truppoaldo deve attenersi. Ciò fa emergere l’abituale e periodico ripetersi di attività, che nel tempo sono diventate proprie del posto, il quale è chiaro che ha già acquisito una sua identità.

[34]Et omnes vinum....dum vibus fuerit: la conferma del godimento dei prodotti dei campi non solo da parte di Truppoaldo ma anche degli uomini che li lavorano, qui fatta da Adelferio, fa parte della politica agraria medievale che vuole il godimento dei beni da parte di chi è sul fondo affinché questo possa rendere bene.

[35] Et pro censum....parium de pulli: gli obblighi pecuniari e in natura di Truppoaldo nei riguardi dell’arcivescovo e di Adelferio hanno delle scadenze nel corso dell’anno e cioè in occasione delle due feste celebrate nella chiesa locale  - quella di S. Angelo del mese di maggio (la ricorrenza di S. Michele dell’8 maggio è dunque documentata fin da questo periodo) e quella di S. Maria del mese di agosto -  e delle feste dell’anno liturgico e cioè Pasqua (Sanctum Iobis è il giovedì santo) e Natale. Da notare la rigorosa precisazione con cui vengono stabilite le proporzioni in base alle quali saranno divisi i proventi delle terre tra la chiesa di Salerno e Truppoaldo. I termini con cui viene stabilita la corresponsione dei censi sono: “dare nobis”, “dare nobis vel dirigano” essi indicano che Truppoaldo deve inviare, tramite messi, il dovuto a  Salerno. Qui si evidenzia il rapporto con Salerno reso obbligatorio dall’imposizione dei tributi, che avveniva più volte in un anno e che si traduceva anche in un rapporto commerciale in quanto coloro che portavano i tributi a Salerno partecipavano ai mercati che si tenevano nella città in occasione di tutte le festività religiose. Da considerare inoltre che di solito erano i missi dei proprietari a giungere nei fondi per raccogliere i tributi ai quali il conduttore doveva dare ospitalità. Qui invece sono uomini di Truppoaldo che vanno a Salerno, il che conferma l’esistenza del commercio dei prodotti locali.

[36]Et stetit....partibus: l’accenno alla tradizione che lega la chiesa di Salerno alla pieve del locum Solofre conferma tutto quanto si è detto intorno a questa istituzione.

[37]Ad ovitum.... causa mobiles: l’estensione della concessione fatta da Truppoaldo agli eredi, che però avevano la facoltà di romperla, serviva a legare gli uomini al fondo.

[38]Et potestatem....decopertas et conciatas: ricade sul detentore del beneficio l’obbligo di vigilare sulla buona conduzione della terra, di mantenere in buono stato la chiesa, le case, le celle. Col termine “cella” si indicavano i magazzini per raccogliere e conservare i frutti della terra, il che rispondeva all’uso dei tempi di unire in luoghi comuni i prodotti della terra per meglio difenderli e richiama una delle funzioni della pieve. Da considerare come la chiesa offra asilo e sia punto di ritrovo e di riferimento, prima ancora dei castelli, per la gente isolata negli ampi ed insicuri spazi di allora. 

[39]Unde in eo ordine....inlegitimo: è la clausola di garanzia che pone Truppoaldo come garante del patto e determina, in caso di inadempienza per lui stesso e per i suoi eredi, la pena pecuniaria di 30 costantini d’oro da versare ad Adelferio, il quale a sua volta si impegna di far rispettare i patti. Sono citati in questo patto due istituti longobardi (guadia) l’uno indicato dal sintagma per combenienza che è il patto di garanzia, l’altro dall’espressione ad pignerandum che è l’atto legale di accettazione del pegno. 

[40]Hoc memoramus....meruerit: è la formula che dopo aver riassunto il canone di base da versare in occasione della festa di S. Angelo di maggio, attesta l’investitura di Truppoaldo del crisma e dell’olio sacro che gli permetteva di battezzare e seppellire i morti. La corresponsione dell’annuo censo dimostra che il prete accetta il magistero disciplinare e si sottopone alla volontà del vescovo. Più del crisma è la possibilità di conservare e tramandare la memoria dei morti che fa del distretto pievano il centro ed il cuore della comunità umana che vi abita, la quale poi con la chiesa entra a far parte della società dei credenti e tramite essa può impetrare la protezione divina. Da considerare che tutto questo avviene a Solofra prima che si giunga alla sua autonomia territoriale ed amministrativa.

[41]Scrive e firma il contratto il notaio Mirando che fu anche avvocato di S. Massimo e come tale controllava la gestione del patrimonio della chiesa. 

[42] Romualdo e Ademaro sono i testimoni di cui si è detto alla n. 9. Erano persone del posto ed erano libere.