La poesia di Ketty
Daneo
Analisi
di opere letterarie
.
Schizofrenia (Stresa, La provincia azzurra, 1990) |
Schizofrenia, che sigilla un prezioso trittico di Ketty
Daneo, non è la semplice trasposizione all'intera opera
del titolo della prima raccolta ma la cifra interpretativa della seconda, Carso "Duemila", e un quasi
invisibile solido filo che lega insieme le due autonome parti di questa
silloge. Schizofrenia,
disintegrazione, rottura, pazzia. Ma quale? Quella dell'uomo
epidermico regolare uniformato? Oppure quella di
chi, abbattuta l'esterna difesa, penetra nel proteiforme magma che gorgoglia
nel fondo di ognuno? Chi sente doloroso lo stridio del contrasto? Chi avverte
la "desolante tristezza" della solitudine o il "martirio"
del "tempo che gira" su di lui? Ecco il tormentoso stato dell'uomo
delineato nella prima raccolta (Schizofrenia), umana epifania che si
dispiega, nelle tre stupende figurazioni femminili delle uniche tre liriche,
in un crescendo di intensa drammaticità e poesia. La "ragazza con i fiori secchi" della prima
lirica (Ragazza con i fiori secchi nel prato mentale),
"euforica" e "muta" nell'esteriore "riso" che
"si tramuta in una smorfia circolare" perché "nasconde in gola
la bocca del dolore", rappresenta il primo momento di questa condizione
umana che è schizofrenia nei riguardi di quella considerata normale. "Figlia di una Dea greca",
di quella poesia che per prima avvertì il dramma dell'uomo profondo, ella procede nelle scansioni della giornata col suo io
esteriore, "la cagnetta nera di pezza che abbaia forte e che ha molta
fame", e chiede alle ragazze del bar di non deridere quell'altro
suo io balzato fuori dalla sua consistenza primordiale. Sofferta condizione,
privilegio crudele di chi ode "gli accordi del mare" o di chi
oltrepassa "le nuvole per ottenere un pezzo di cielo" e sente
"scorrere il fiume del [...] cuore
che spinge l'acqua fin dentro la testa" dove non può strappare nemmeno
con le unghie i fiori secchi" sradicati dai prati del cuore dal gelido
vento del "prato mentale". Soltanto quando la "sera appare
dietro gli occhi" e la cagnetta dorme, la ragazza "folle come
salamandra" "se ne va" ma "non
si sa dove". L'angoscia
del vivere di questa prima lirica si risolve nel "martirio"
anch'esso "folle" del "rogo clandestino di bosco" di Maddalena
risorta "per miracolo" perché approdata negli
"occhi sconfinati" "d'Uomo vivo" del Cristo. Prosegue
dunque la parabola umana e la donna, circondata da cose umili e vere - la
"baita nel bosco profondo", la "cella" "buia",
la "chiesetta rustica", la "ciotola di acqua
santa" (tutte espressioni di uno stato interiore particolare) - ,
giunge, percorrendo " Schizofrenia
è dunque la voce "delle grandi leggi", è quello "sguardo
d'azzurro smaltato" per il quale l'uomo combatte nella vita divenendo
"un albero stroncato dalla tempesta". E' il supremo nascosto
martirio dell'uomo che segue la via indicata da Cristo In un'adesione di puro
amore senza "gli scarti dei pensieri"; è la sofferenza del bisogno
d'infinito, il richiamo di superiori realizzazioni
che bruciano i sensi e distruggono le fredde "tenebre del
cervello". Questa
donna, che non è sgomentata dal lungo sofferto cammino verso l'Uomo vivo,
approda nella terza lirica (Angeli dall'anima umana) alla suprema
conquista della "ragazza dissennata come i gabbiani" - uccelli che
hanno a che fare con le altezze dei cieli - con sul
cappello "fiori rossi" (e non più secchi) "colti dal sangue
del suo cuore". Solitaria come l'altra donna, quest'ultima,
sull'estremo lido della vita "non disturba i passeggeri" e
"mormora parole stralunate / che solo i gabbiani percepiscono". Là
attende un pezzo d'Uomo vivo, il "ragazzo drogato" che è "un
angelo più bianco del fiore di sambuco", "figlio di Dio più d'ogni
altro". Entrambi, lei "ragazza incosciente e cosciente", lui
"celeste compagno", "angelo flagellato come il mare di Serse", entrambi sono
"angeli dall'anima umana" che "giacciono sulla riva del
molo" dinanzi all'"acqua verdastra del mare" dove
"galleggiano i pezzi rotti dei loro sogni". Per entrambi gli
ideali sono "dispersi lungo le strade / come i sassolini dell'antica
fiaba" e finalmente per entrambi non ci saranno più "parole ma una immensa voce di silenzio e di luce". Nella
seconda raccolta, Carso
"Duemila", accanto ad una schizofrenia della natura disgregata,
distrutta, anch'essa alienata e a quella dell'uomo che soffre per tutta
questa decadenza naturale c'è la vera pazzia
dell'uomo "con blocchi di cemento" che tramuta il dolce Carso in "denso mare di calcestruzzo",
"l'armonia delle frondi verdi" in
"silenzio di calce" e il "merletto azzurro" in
"cielo di caligine"; ma si scoprono anche le risposte risolutive
dell'uomo. Ed ecco nella prima lirica, in dicotomica
opposizione alle devastazioni accennate, le lontane immagini dolcemente
accarezzate e rassicuranti di una natura intatta e vitale che si fonde con la
poetessa, novella Dafne, ("È la forza del Carso?
/ Mi mutava in tronco d'abete / spingeva il sangue mio / nelle vene nude
delle doline"); ecco il voto risolutorio della
densa figurazione di poesia e d'amore dell'epilogo ("Non è alienazione
se penso / che vorrei morire in questi boschi amati / abbracciata al mio uomo
in una notte calda / quando i grilli assaltano il
cielo"). E nella seconda (Tavole sinottiche),
dinanzi alla costernazione dei "vecchi contadini" sradicati in
una natura che cambia secondo leggi ingiuste, dove "brughiera"
diventa "l'altipiano di grano saraceno", i "filari di
viti" si tramutano in "fossili d'un tempo conosciuto", e
"la terra che ha scienza del verde" si trasforma in zolla senza
vita, ecco quell'angoscia scemare nell'attesa di un
"segno" sia pur anco un
"prodigio". Il trittico termina (Bosco di cento verdi) nell'immagine
di un Carso avvolto in un magico incantamento di
perfetta bellezza e ancestrale melodia che rende
solenne, come terribile anatema, l'intensa invocazione Enale
"non si tramuti oggi l'anima del Carso in
veleno di 'civiltà', in verbo di cemento". Duplice
schizofrenia è dunque quella dell'io che soffre lo
sradicamento a contatto con la vera follia dell'uomo e del suo progresso, ma
situazione esistenziale che non è accettazione né rassegnazione bensì
condanna e speranza. Su questa linea le due composizioni artistiche della prima e della quarta di copertina sono metafore, l'Arlecchino - quadro ad olio di Renato Daneo - della situazione umana delineata, la lirica A Renato Daneo - dall'autrice dedicata al marito - della sua risoluzione nell'approdo alle regioni del cuore seguendo quella forza cosmica, capace, una volta diventata nell'uomo sentimento vero, di trasformare un prodotto terreno in prodotto di cielo, "celeste dono / che si scioglie nel quieto vivere / anche di poco". |
In
"Riscontri", n. 2 (aprile-giugno) 1991, pp. 122-124. |
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