La poesia di Ketty Daneo

 

 

Saggio di Mimma De Maio

 

Temi e motivi del percorso umano e poetico di Ketty Daneo

 

 

Le opere esaminate sono: Il cantico degli anni nostri, Sarzana, Carpena, 1958; Notturno sul Carso, ivi, 1959; Come un tiro di fionda, ivi, 1965; Un ragazzo e cento strade, L'ariete, Milano, 1966; La risiera di San Sabba, La Editoriale Libraria, Trieste, 1970; Trieste e un lager, Rebellato, Fossalta di Pieve, 1980; L'estasi dei ricordi, Il ventaglio, Roma, 1985; Magia di una sagra di nozze di estate, Edizioni del Leone, Venezia, 1989; La casa dei sambuchi, Laboratorio delle Arti, Trieste, 1988; La leggenda del lago Zamar. L’Ippogrifo, Trieste, 1988; Schizofrenia, La Provincia azzurra, Stresa, 1990. Le singole opere saranno di volta in volta richiamate con la sola indicazione della pagine.

 

Ketby Daneo è una poetessa triestina autrice anche di racconti, favole, leggende sceneggiate e di un dramma in tre atti, opere unite a quelle in versi da una unica cifra lirico-poetica che trova nel coagulo di una spiccata sensibilità, personali modalità di espressione. Un’artista dotata di un genuino senso della natura che le fornisce il registro più importante. Alla natura in tutte le sue manifestazioni, anche quella magica, ella infatti attinge a piene mani poiché solo la sua ricchezza riesce a nutrire il rigoglio della fantasia poetica. Specie la forma magica assurge a modulo dominante assolvendo un compito ben preciso.

I motivi tematici di tutta la sua produzione, la terra natia e l’amore, costituiscono il paradigma di una vicenda umana e poetica intimamente fusa che diviene nei momenti più intensi un tutto artistico.

 

Prorompe la poesia d’amore ne Il cantico degli anni nostri (1958), inno a questa schietta forza dell’uomo. Preceduto da un lungo interrogare la natura ("ascoltavo mormorare l’annoso / salice in cortile", 19, "chiedevo al lume degli astri / il tuo nome", 23) si manifesta l’amore come energia naturale e primigenia dell’uomo, come quel mare che "racconta in dolce melopea / la sua origine" (27); grida gioia ("Mi porto la gloria sul petto / aperta, urlante / come mazzo di papaveri ardenti", 23); e parla "con la voce di tutti gli uccelli" (11). Ma l’amore è forza buona perché conduce "con calzari di cielo per vie luminose", 15) e indica il domani "casto come la sosta di stasera" (25); tocca beneficamente l’animo. come quando "ciocche di nevischio" si tramutano "in trasparenza di narcisi", (17) o come, quando il prato verde "per me cresce improvvise gemme" (29); e rasserena "come lampada quieta" (17) o come "la pace della campagna / quando l’alba respira i gelsomini" (57); fino a condurre alla scoperta più propria dell'uomo: "l’inconscio anela all'eterno" (27).

Bello e già maturo canto a questo valore umano che riesce a rendere dolce persino la morte ("le so che la morte mi parlerà / con i tuoi calmi accenti / dentro il cuore per non impaurirmi", 67).

Amore e morte, le due realtà dell’uomo, sono presenti in Notturno sul Carso del 1959 ove la tragedia di due giovani divisi dalle assurde barriere degli uomini, sostanziata del loro sogno di una terra "senza asprezze" (15), dei loro sguardi "fra i reticolati" "non da stranieri" (17) e del dono di sé all’altro ("prendi questo mio caldo sangue / e versalo nelle tue vene" , 35), si stempera nella corale ed intensa partecipazione di tutto il Carso. Qui i temi prediletti della Daneo si fondono per cui quella dei due giovani diventa la stessa tragedia di questa terra dilacerata da un confine. Al Carso però tocca, attraverso gli elementi della sua natura, un più gravoso compito poiché oltre a lenire il dolore del giovane ("Di me, amore, ti parlerà il bosco / il vento ti dirà, che un graniciaro / m’ha spezzato i sogni col fucile", 21) e a commiserare la morte della giovane uccisa dai colpi dei nemici ("Misericordia di me ha il vento / mi rotola fra sasso e sasso, / come lepre afferrato / dal risucchio delle tagliuole", 33) ne conserverà la memoria ("forse domani ancora / la brezza porterà alla rupe / l’odoroso fresco del biancospino / dai tuoi capelli disciolti", 39) per tramandarla ("il nome tuo / fiorirà dalla rossa dolina del Carso, / così la tua storia malinconica / narrerà alle genti di quassù la bora" , 27) perché il ricordo non abbia a morire. Per sempre le sue membra ne resteranno scolpite.

Questa terra conosce ancora altre facce del male: quello della sofferta lirica Come un tiro di fionda che dà il titolo ad una silloge del 1965. È la sventura del bimbo travolto sull’asfalto, nell’ora - si noti il contrasto - in cui "il sole del Carso" umilia le azzurre cime dei pini" e "l’indolenza del tramonto incanta nella quiete le case" (13). Anche qui il Carso è trafitto dal "suono" "che d’improvviso / spaccò l’aria" e "risalì come bestia selvaggia / lungo i bordi dei campi" (14).

Terra dolente, dunque, "rude di doline" che trattiene "nel petto / l’ala dell’angoscia" e trema "come nel freddo viluppo della bora", che soffre il dolore di ancora altre tragedie come quella della bimba impigliata / nelle azzurre oscillarie del fiume" (31) o quella di Meri dal "volto magro trafitto di tristezza" (43).

Ma il Carso soprattutto conosce il dramma del lager di San Sabba, la tristemente famosa risiera, da cui "calano sulla città urla tese / di martirio" e "fiamme dai figli morti / s’alzano come ali / d’angeli superstiti" (La risiera di San Sabba). Anche qui una ferita e ancora una volta un monito e un ricordo perenne: sono affidati ai versi della Daneo sulla lapide della risiera. 

Alla tragedia del lager e al suo ampio dolore ("C’è più     dolore dentro il dannato recinto / del lager di quanto se ne potrà riscattare / con secoli di penitenza", 17) la poetessa dedica una intera raccolta di liriche scritte tra il 1945 e il 1975 (Trieste e un lager) in cui quel dramma è disegnato e seguito ancora una volta da una natura amica e partecipe ("la caligine della notte addensa il cielo", 16) "dove senti l’erba piangere" (14), dove non c’è traccia di uccelli e di fiori" (25) e la notte è "senza Lattea né altre stelle" "dietro le macerie delle case" 38), di contro il Carso e i suoi profumi diventano "un’evasione pazza" per chi ha "il cuore di quarzo / e le mani risicchiate dalla calce viva delle fosse" (26-27).

Terra dolente e pietosa per questo terra ancora più amata ("Carso odoroso dì pinete e bora / e sottobosco marcio, io ti amo" (43), testimone di momenti felici (Casa sotto il bosco, 48), richiamo per chi vi è nato (Una stella ambigua, 45), magica affatturazione (Luna a Iselsberg, 52) e col Carso c’è Trieste, "porto di mare, mia città aggredita / da venti d’impeto spesso maligno, da burrasche di vita / e dolori che ricordano morte, porto di mare amato" (53).

La voce poetica non è sterile dinanzi al dolore, dal dramma non può nascere per il poeta che una forza positiva ed ecco la "parca confidenza di Dio" (13), ecco lo sbocco: "Ora premono le strutture dello spirito, / straripano sciolgono il sapore di sangue / nella bocca mi aiutano a diventare uomo / umile e unica aspirazione dell’esistere" (21).

Ed ecco la fantasia poetica andare alla ricerca di nuove risposte. La soluzione della Daneo è data dall’irrompere della fiaba che non è il fuggire dalla lotta ma il cercarla dopo aver attinto alle ragioni ultime della iniquità.

Nella lunga fiaba Un ragazzo e cento strade la poetessa affronta, il tema della umana malvagità, quella perversa dell’uomo contro l’uomo, e della vittoria del bene. Diamir, l’innocente fanciulla che soccombe ad un sortilegio ordito dalla invidia di "Cruda", è soccorsa da Bet, un ragazzo "ricco di intelligenza, di bontà e di fede" (21) che supera per lei mille ostacoli col nascosto sostegno delle forze buone: la purezza, il coraggio, la costanza. La liberazione della fanciulla, pagata a prezzo della morte del giovane, trasformano Diamir in quella forza ideale che deve guidare la condotta dell’uomo, e l’operato di Bet in un tragitto esemplare.

Bellissima, fiaba prodotta dal rigurgito della fantasia sulla umana iniquità dove l’esuberanza delle immagini non impedisce di cogliere il discorso di fondo e dove la dovizia di elementi naturali, espressioni, in una possente tregenda, delle forze del bene e del male, essi stessi personaggi della vicenda, non ne celano il pregnante senso simbolico. Anzi è proprio questa corale partecipazione della natura a dirci che il bene e il male sono energie assolutamente naturali sulle quali però si erge l’uomo anch’esso prodotto della natura come Bet, cioè Betulla, figlio del bosco, il quale può imboccare la strada (le cento strade sono le cento possibilità dell’uomo, questa struttura aperta a tante attualizzazioni) che gli permetterà di condurre a termine il suo compito gravoso ed esaltante. Il compito, cioè, doveroso e possibile ad ogni uomo, di raggiungere i più alti traguardi della realizzazione umana.

Con queste opere si chiude un primo tratto della vicenda poetica della Daneo nella quale la vita entra e ne ha delle risposte, come abbiamo visto. In questo terreno già cosi fertile la vicenda personale, duramente segnata dagli eventi, scava solchi ancora più profondi. Nelle opere seguenti infatti gli stessi motivi precedentemente individuati sono filtrati da un senso più profondo e denso delle cose e della vita. Tutto si risolve in uno sbocco umano e poetico.

La prima opera dopo la tragedia che priva la scrittrice dell’uomo amato. L’estasi dei ricordi, una silloge poetica di grande vigore, è un coraggioso andare sull'onda dei ricordi per attingere nella memoria la necessaria forza. Le liriche snodano, in accordi quasi narrati e severi, la storia intensa di quell’amore terreno che "come onda di marea superava gli scogli / della nostra esistenza" e "feconda., / ci portava verso vie d’ideali chiari / senza difficoltà del vivere, senza sconfitte" (9). Trasudano i versi il caldo dolore per il martirio dell’altro che solo Cristo può conoscere ("Queste lacrime che bucano gli occhi mostrano solo al Cristo / l’altro volto del patimento", 10), al quale la poetessa chiede pietosa di "trovare parole che non tradiscano, 12). Emerge una sofferenza simile a quella che risuona nei libri sacri (13) pur essendo promessa di cieli futuri ("Il tempo scandisce un cielo / attorno il tuo martirio", 13). Esperienza suprema che porta a cogliere dalle ceneri del corpo qualcosa di nuovo (Nessuno mi può dire) perché l’animo di poeta, pur sferzato dal vento del dubbio ("fammi entrare, ti prego, / nella tua fede deldopo’", 27), pur incerto dinanzi al domani (28), può giungere ad una messe diversa (Tu sei la grandine). 

Su questo nuovo piano alla poetessa è possibile iniziare un "amoroso quieto colloquio", far parlare ancora la natura come nella bella lirica Nella valle di Arat (30) o in Sosta nell'isola slava (33) o in Viaggio astrale (39). Qui i ricordi diventano azzurre scogliere riemerse dal mare (35), fecondano e illuminano l’oggi ("Ora sei la stella che veglia sommessa / sulla mia vita che pian piano si spegne", 39) mentre l’animo è volto al giorno divino della perfetta gioia" ("In qualche giorno portentoso, divino, / con passi incerti, ma in perfetta gioia / toccherò il sole accanto a te", 40).

All’immersione nei ricordi succede un salutare tuffo nell’infanzia con Nell’orto delle acacie - è la lirica di chiusura dell’opera con la dedica: A mia madre, dove "si sfoglia un prodigio dolcissimo": "da quella ricca pianta raccolgo frutti generosi, mi crescono / nell’anima favole chiusa nel cielo caldo / delle tue braccia" (46). Versi di intenso valore per l’iter spirituale che stiamo individuando.

L’opera appena analizzata ha disegnato un primo tratto del tragitto possibile all’uomo perché la sofferenza non diventi un cieco pozzo senza fine. Un altro momento di questo percorso è costituito da La casa dei sambuchi dove è ancora il ricordo a costruire. Un lungo racconto, condotto sul filo della memoria da Scolastica (Ketty), si snoda nel deserto di un carcere dove un simbolico delitto l’ha relegata. In forma narrativa troviamo la medesima vicenda autobiografica nella quale opera un personaggio negativo, una donna-strega, la sorte che si accanisce contro i due giovani, e che Scolastica ucciderà in un supremo atto liberatorio. Il racconto trasforma le altre recluse e trasfigura la cella che diventa il luogo di un rito in cui si realizza l’atto catartico-purificatorio del ricordo-confessione per la fine del sortilegio. Nell’atto finale del rito, di cui la giovane si rivela sacerdotessa, una immagine propria del vocabolario poetico della Daneo, quel sole che sbuca "tra i sambuchi" e dà al bosco un’atmosfera bianca, incredibilmente assurda", diventa un "tramite di tristezza pieno di significato" quasi uno specchio magico che proietta in un altro luogo il profilo di "un’altra casa con altri sambuchi in fiore" (100).

Come dopo un penitenziale ci avviamo verso la trasfigurazione spirituale che la Daneo affida alla fiaba, quella che abbiamo visto crescere nell’anima nella quale avviene l'approdo alla vita dello spirito.

Ne La leggenda del lago Zama la vicenda autobiografica si sdoppia in due una nascente dall’altra. La prima di Astrea-Renir, ossia Ketty-Renato, produce, in una sorta di emanazione metastorica, la seconda, quella di Mitilena-Dalidor, che della prima vicenda è chiaramente il prodotto spirituale. Tutta la leggenda è avvolta in un’aura di esorcismo nel senso che permette all'autrice, operando una specie di trasposizione, il salvataggio della vicenda terrena, il suo scioglimento dai legami del reale, per trasformarla in una realtà dove una sola forza si rivela più forte, l’amore. Mitilena, frutto dell’amore di Astrea-Renir, divenuta vergine principessa di un mondo non terreno, può operare ed incidere in esso con la forza dell’amore fino ad accedere al supremo dono che si rinnova ogni notte di luna, in eterno. La favola ci dice che dolore ed amore, quando riescono ad essere offerta diventano due forze possenti a disposizione dell’uono per costruire, come Mitilena e Dalidor, la pura gioia. Nella leggenda c’è la lotta dell’essere nell’esistere per una vittoria fuori dell’esistenza caduca. Anche qui, dunque, un tragitto esemplare.

Con questa opera si precisa il percorso spirituale della Daneo per la quale la fiaba si pone come denso espressivo tramite.

Si innesta nella stessa tematica anche l’opera successiva, un dramma in tre atti, Magia in una sagra di nozze d'estate, con una variante sostanziale che ha una precisa valenza. Qui la protagonista Darinka, ossia Ketty, agisce in dispregio a ciò che era scritto nel magico chiarore della luna, rifiuta l’amore di Renci, quasi una fuga dalla propria nicchia. La donna non uccide come Scolastica, si ribella. Pur se il tentativo fallisce, perché non è possibile, per la Daneo, derogare più di tanto dal dettato della sorte ("In fondo la vita è in se stessa tutta una magia, e maghi e streghe e fate ne regolano il corso e le vicende, pur rimanendo invisibili, come Dio", Darinka infatti non si unirà a Renci, che muore, divisi entrambi ancora una volta "da una potenza magica" (75), questa opera serve a librare la poetessa, quasi un esorcismo (ma esorcismo psicologico questa volta) verso i cieli della poesia dove non giunge il grido di sangue diventato canto di cielo. 

Con questa trasformazione siamo a Schizofrena1, l'opera che unisce i due filoni tematici - trattati autonomamente in due parti ben distinte - da noi individuati nella produzione daneiana: la vicenda del Carso e la vicenda personale.

 

1. Nell'analisi di questa opera ci riferiamo alla nostra recensione apparsa su "Riscontri" (XIII, 1991, 2, pp. 122-124) della quale si riporta qualche passo.

 

Dalle altezze a cui il tragitto spirituale l’ha portata la scrittrice triestina può guardare con distaccata partecipazione e delineare una situazione umana - descritta nella prima parte dell'opera - e un comportamento dell’uomo - oggetto della seconda parte - per cui "schizofrenia" non è, come potrebbe apparire, lo stato dell’uomo nella disintegrata realtà post-industriale né è la distruzione della natura che ha perduto la compattezza originaria. La Daneo descrive, invece, da una parte lo stato di disorientamento dell’uomo profondo che "avverte il doloroso contrasto con ciò che gli ruota intorno" e con la superficialità dell’uomo epidermico, e dall’altra la pazzia di questo uomo moderno nel distruggere la natura.

Nella prima parte è infatti rappresentata, attraverso tre figure femminili, la crescita spirituale possibile all’uomo se non si ferma nelle gore della vita. Tre liriche, tre tappe umane: dalla Ragazza con i fiori secchi nel prato mentale che ha il privilegio di avvertire "gli accordi del mare" (13); alla Maddalena risorta che approdata negli "occhi sconfinati" "d’Uomo vivo" (17) - il Cristo - vive il nascosto martirio e prova l’alta tensione del richiamo di superiori realizzazioni che bruciano i sensi e distruggono le "fredde tenebre del cervello" (17-19); fino alla "ragazza dissennata" "come i gabbiani" che è la suprema conquista degli Angeli dall’anima umana in attesa di godere l’immensa voce di silenzio e di luce" (21-23).

L’altro stato schizofrenico - descritto dalle liriche della seconda parte - è quello dell’uomo che "con blocchi di cemento" distrugge il dolce Carso tramutandolo in "denso mare di calcestruzzo". Ma la natura intatta e vitale del Carso vive ora dentro di lei e nella sua poesia per cui il voto risolutorio della lirica Carso Duemila ("Non è alienazione se penso / che vorrei morire in questi boschi amati / abbracciata al mio uomo in una notte calda / quando i grilli assaltano il cielo", 30) somiglia all’atto finale di un rito perché dalla morte nasca la vita. Per l’incisiva atmosfera di queste liriche l’intensa invocazione finale che cade sul Carso avvolto in un magico incantamento di perfetta bellezza e ancestrale melodia: "non si tramuti oggi l’anima del Carso / in veleno di "civiltà / in verbo di cemento! (30), diventa una terribile condanna.

Questa opera, che può considerarsi per i temi e gli esiti poetici una Summa, è racchiusa, come uno scrigno, da due composizioni artistiche: in prima di copertina l’Arlecchino (un quadro di Renato Daneo) e in quarta di copertina A Renato Daneo (una lirica della stessa poetessa) che sono metafore, il primo, della situazione delineata nell’opera e testé descritta, la seconda, della sua risoluzione nell’approdo alle regioni del cuore dove solo l’amore vince: "E perché amore non avesse mai a finire / l’azzurro dei tuoi occhi è diventato / in cima al cielo, un celeste dono / che si scioglie nel mio quieto vivere / anche di poco".

Ci sembra che questa sia l’essenza della poesia di Ketty Daneo.

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In "Il rinnovamento", 1993, nn. 214-215.

 

 

 

  

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