La poesia di Ketty
Daneo
Saggio di Mimma De Maio
Temi e motivi del percorso umano e
poetico di Ketty Daneo
Le opere esaminate
sono: Il cantico degli anni nostri, Sarzana,
Carpena, 1958; Notturno sul Carso,
ivi, 1959; Come un tiro di fionda, ivi, 1965; Un ragazzo e cento
strade, L'ariete, Milano, 1966; La risiera di San Sabba, |
Ketby Daneo è una poetessa triestina autrice anche di racconti,
favole, leggende sceneggiate e di un dramma in tre atti, opere unite a quelle
in versi da una unica cifra lirico-poetica
che trova nel coagulo di una spiccata sensibilità, personali modalità di
espressione. Un’artista dotata di un genuino senso della
natura che le fornisce il registro più importante. Alla natura in tutte
le sue manifestazioni, anche quella magica, ella
infatti attinge a piene mani poiché solo la sua ricchezza riesce a nutrire il
rigoglio della fantasia poetica. Specie la forma magica assurge a modulo
dominante assolvendo un compito ben preciso.
I motivi tematici di tutta
la sua produzione, la terra natia e l’amore, costituiscono il paradigma di una
vicenda umana e poetica intimamente fusa che diviene nei momenti più intensi un
tutto artistico.
Prorompe la poesia d’amore ne
Il cantico degli anni nostri (1958), inno a questa schietta forza
dell’uomo. Preceduto da un lungo interrogare la natura
("ascoltavo mormorare l’annoso / salice in cortile", 19,
"chiedevo al lume degli astri / il tuo nome", 23) si manifesta
l’amore come energia naturale e primigenia dell’uomo, come quel mare che
"racconta in dolce melopea / la sua origine" (27); grida gioia
("Mi porto la gloria sul petto / aperta, urlante / come mazzo di papaveri
ardenti", 23); e parla "con la voce di tutti gli uccelli" (11).
Ma l’amore è forza buona perché conduce "con
calzari di cielo per vie luminose", 15) e indica il domani "casto
come la sosta di stasera" (25); tocca beneficamente l’animo. come quando "ciocche di nevischio" si tramutano
"in trasparenza di narcisi", (17) o come, quando il prato verde
"per me cresce improvvise gemme" (29); e rasserena "come lampada
quieta" (17) o come "la pace della campagna / quando l’alba respira i
gelsomini" (57); fino a condurre alla scoperta più propria dell'uomo:
"l’inconscio anela all'eterno" (27).
Bello e già maturo canto a questo valore
umano che riesce a rendere dolce persino la morte ("le so che la morte mi
parlerà / con i tuoi calmi accenti / dentro il cuore per non impaurirmi",
67).
Amore e morte, le due realtà dell’uomo, sono presenti in Notturno sul Carso
del 1959 ove la tragedia di due giovani divisi dalle assurde barriere degli
uomini, sostanziata del loro sogno di una terra "senza asprezze"
(15), dei loro sguardi "fra i reticolati" "non da
stranieri" (17) e del dono di sé all’altro ("prendi questo mio caldo
sangue / e versalo nelle tue vene" , 35), si stempera nella corale ed
intensa partecipazione di tutto il Carso. Qui i temi
prediletti della Daneo si fondono per
cui quella dei due giovani diventa la stessa tragedia di questa terra
dilacerata da un confine. Al Carso però tocca,
attraverso gli elementi della sua natura, un più gravoso compito poiché oltre a
lenire il dolore del giovane ("Di me, amore, ti parlerà il bosco / il
vento ti dirà, che un graniciaro / m’ha
spezzato i sogni col fucile", 21) e a commiserare la morte della giovane
uccisa dai colpi dei nemici ("Misericordia di me ha il vento / mi rotola
fra sasso e sasso, / come lepre afferrato / dal risucchio delle tagliuole", 33) ne conserverà la memoria ("forse
domani ancora / la brezza porterà alla rupe / l’odoroso fresco del biancospino
/ dai tuoi capelli disciolti", 39) per tramandarla ("il nome tuo /
fiorirà dalla rossa dolina del Carso, / così la tua
storia malinconica / narrerà alle genti di quassù la bora" , 27) perché il
ricordo non abbia a morire. Per sempre le sue membra ne resteranno scolpite.
Questa terra conosce ancora altre facce del male:
quello della sofferta lirica Come un tiro di fionda che dà il titolo ad
una silloge del 1965. È la sventura del bimbo travolto sull’asfalto, nell’ora -
si noti il contrasto - in cui "il sole del Carso"
umilia le azzurre cime dei pini" e "l’indolenza del tramonto incanta
nella quiete le case" (13). Anche qui il Carso è trafitto dal "suono" "che
d’improvviso / spaccò l’aria" e "risalì come bestia selvaggia / lungo
i bordi dei campi" (14).
Terra dolente, dunque, "rude di
doline" che trattiene "nel petto / l’ala dell’angoscia" e trema
"come nel freddo viluppo della bora", che soffre il dolore di ancora
altre tragedie come quella della bimba impigliata / nelle azzurre oscillarie del fiume" (31) o quella di Meri dal
"volto magro trafitto di tristezza" (43).
Ma il Carso soprattutto conosce il dramma del lager di San Sabba,
la tristemente famosa risiera, da cui "calano sulla città urla tese / di
martirio" e "fiamme dai figli morti / s’alzano come ali / d’angeli
superstiti" (La risiera di San Sabba). Anche
qui una ferita e ancora una volta un monito e un ricordo perenne: sono affidati
ai versi della Daneo sulla lapide della
risiera.
Alla tragedia del lager e al suo ampio dolore
("C’è più dolore dentro il
dannato recinto / del lager di quanto se ne potrà riscattare / con secoli di
penitenza", 17) la poetessa dedica una intera
raccolta di liriche scritte tra il 1945 e il 1975 (Trieste e un lager)
in cui quel dramma è disegnato e seguito ancora una volta da una natura amica e
partecipe ("la caligine della notte addensa il cielo", 16) "dove
senti l’erba piangere" (14), dove non c’è traccia di uccelli e di
fiori" (25) e la notte è "senza Lattea né altre stelle"
"dietro le macerie delle case" 38), di contro il Carso
e i suoi profumi diventano "un’evasione pazza" per chi ha "il
cuore di quarzo / e le mani risicchiate dalla calce
viva delle fosse" (26-27).
Terra dolente e pietosa per questo
terra ancora più amata ("Carso odoroso dì
pinete e bora / e sottobosco marcio, io ti amo" (43), testimone di momenti
felici (Casa sotto il bosco, 48), richiamo per chi vi è nato (Una
stella ambigua, 45), magica affatturazione (Luna
a Iselsberg, 52) e col Carso
c’è Trieste, "porto di mare, mia città aggredita / da venti d’impeto
spesso maligno, da burrasche di vita / e dolori che ricordano morte, porto di
mare amato" (53).
La voce poetica non è sterile dinanzi al dolore, dal
dramma non può nascere per il poeta che una forza positiva
ed ecco la "parca confidenza di Dio" (13), ecco lo sbocco: "Ora
premono le strutture dello spirito, / straripano sciolgono il sapore di sangue
/ nella bocca mi aiutano a diventare uomo / umile e unica aspirazione
dell’esistere" (21).
Ed ecco la
fantasia poetica andare alla ricerca di nuove risposte. La soluzione della Daneo è data dall’irrompere della fiaba che non è il
fuggire dalla lotta ma il cercarla dopo aver attinto alle ragioni ultime della iniquità.
Nella lunga fiaba Un ragazzo e cento strade
la poetessa affronta, il tema della umana malvagità,
quella perversa dell’uomo contro l’uomo, e della vittoria del bene. Diamir, l’innocente fanciulla che
soccombe ad un sortilegio ordito dalla invidia di "Cruda", è soccorsa
da Bet, un ragazzo "ricco di intelligenza, di
bontà e di fede" (21) che supera per lei mille ostacoli col nascosto
sostegno delle forze buone: la purezza, il coraggio, la costanza. La
liberazione della fanciulla, pagata a prezzo della
morte del giovane, trasformano Diamir in quella forza
ideale che deve guidare la condotta dell’uomo, e l’operato di Bet in un tragitto esemplare.
Bellissima, fiaba prodotta dal rigurgito della
fantasia sulla umana iniquità dove l’esuberanza delle
immagini non impedisce di cogliere il discorso di fondo e dove la dovizia di
elementi naturali, espressioni, in una possente tregenda, delle forze del bene
e del male, essi stessi personaggi della vicenda, non ne celano il pregnante
senso simbolico. Anzi è proprio questa corale partecipazione della natura a dirci che il bene e il male sono energie assolutamente
naturali sulle quali però si erge l’uomo anch’esso prodotto della natura come Bet, cioè Betulla, figlio del bosco, il quale può imboccare
la strada (le cento strade sono le cento possibilità dell’uomo, questa
struttura aperta a tante attualizzazioni) che gli
permetterà di condurre a termine il suo compito gravoso ed esaltante. Il
compito, cioè, doveroso e possibile ad ogni uomo, di
raggiungere i più alti traguardi della realizzazione umana.
Con queste opere si chiude un primo tratto della
vicenda poetica della Daneo nella quale la vita entra
e ne ha delle risposte, come abbiamo visto. In questo terreno
già cosi fertile la vicenda personale, duramente segnata dagli eventi,
scava solchi ancora più profondi. Nelle opere seguenti
infatti gli stessi motivi precedentemente individuati sono filtrati da
un senso più profondo e denso delle cose e della vita. Tutto si risolve in uno
sbocco umano e poetico.
La prima opera dopo la tragedia che
priva la scrittrice dell’uomo amato. L’estasi dei ricordi,
una silloge poetica di grande vigore, è un coraggioso
andare sull'onda dei ricordi per attingere nella memoria la necessaria forza.
Le liriche snodano, in accordi quasi narrati e severi, la storia intensa di quell’amore terreno che "come onda di marea superava
gli scogli / della nostra esistenza" e "feconda.,
/ ci portava verso vie d’ideali chiari / senza difficoltà del vivere, senza
sconfitte" (9). Trasudano i versi il caldo dolore per il martirio
dell’altro che solo Cristo può conoscere ("Queste lacrime che bucano gli
occhi mostrano solo al Cristo / l’altro volto del patimento", 10), al
quale la poetessa chiede pietosa di "trovare parole che non tradiscano,
12). Emerge una sofferenza simile a quella che risuona nei libri sacri (13) pur
essendo promessa di cieli futuri ("Il tempo scandisce un cielo / attorno il tuo martirio", 13). Esperienza suprema che
porta a cogliere dalle ceneri del corpo qualcosa di nuovo (Nessuno mi può
dire) perché l’animo di poeta, pur sferzato dal vento del dubbio
("fammi entrare, ti prego, / nella tua fede del ’dopo’",
27), pur incerto dinanzi al domani (28), può giungere ad una messe diversa (Tu
sei la grandine).
Su questo nuovo piano alla poetessa è possibile
iniziare un "amoroso quieto colloquio", far parlare ancora la natura
come nella bella lirica Nella valle di Arat (30) o in Sosta nell'isola slava (33) o in Viaggio
astrale (39). Qui i ricordi diventano azzurre scogliere riemerse dal mare
(35), fecondano e illuminano l’oggi ("Ora sei la stella che veglia
sommessa / sulla mia vita che pian piano si spegne", 39)
mentre l’animo è volto al giorno divino della perfetta gioia"
("In qualche giorno portentoso, divino, / con passi incerti, ma in
perfetta gioia / toccherò il sole accanto a te", 40).
All’immersione nei ricordi succede un salutare tuffo
nell’infanzia con Nell’orto delle acacie
- è la lirica di chiusura dell’opera con la dedica: A mia madre, dove
"si sfoglia un prodigio dolcissimo": "da quella ricca pianta
raccolgo frutti generosi, mi crescono / nell’anima favole chiusa nel cielo
caldo / delle tue braccia" (46). Versi di intenso
valore per l’iter spirituale che stiamo individuando.
L’opera appena analizzata ha disegnato
un primo tratto del tragitto possibile all’uomo perché la sofferenza non
diventi un cieco pozzo senza fine. Un altro momento di questo
percorso è costituito da La casa dei
sambuchi dove è ancora il ricordo a costruire. Un lungo racconto, condotto
sul filo della memoria da Scolastica (Ketty), si
snoda nel deserto di un carcere dove un simbolico delitto l’ha relegata. In
forma narrativa troviamo la medesima vicenda autobiografica nella quale opera
un personaggio negativo, una donna-strega, la sorte che si accanisce contro i
due giovani, e che Scolastica ucciderà in un supremo atto liberatorio. Il
racconto trasforma le altre recluse e trasfigura la cella che diventa il luogo
di un rito in cui si realizza l’atto catartico-purificatorio
del ricordo-confessione per la fine del sortilegio. Nell’atto finale del rito,
di cui la giovane si rivela sacerdotessa, una immagine
propria del vocabolario poetico della Daneo, quel
sole che sbuca "tra i sambuchi" e dà al bosco un’atmosfera bianca,
incredibilmente assurda", diventa un "tramite di tristezza pieno di
significato" quasi uno specchio magico che proietta in un altro luogo il
profilo di "un’altra casa con altri sambuchi in fiore" (100).
Come dopo un penitenziale ci avviamo
verso la trasfigurazione spirituale che
Ne La leggenda
del lago Zama la vicenda autobiografica si sdoppia
in due una nascente dall’altra. La prima di Astrea-Renir, ossia Ketty-Renato,
produce, in una sorta di emanazione metastorica, la
seconda, quella di Mitilena-Dalidor, che della prima
vicenda è chiaramente il prodotto spirituale. Tutta la leggenda è avvolta in
un’aura di esorcismo nel senso che permette
all'autrice, operando una specie di trasposizione, il salvataggio della vicenda
terrena, il suo scioglimento dai legami del reale, per trasformarla in una
realtà dove una sola forza si rivela più forte, l’amore. Mitilena,
frutto dell’amore di Astrea-Renir,
divenuta vergine principessa di un mondo non terreno, può operare ed incidere
in esso con la forza dell’amore fino ad accedere al supremo dono che si rinnova
ogni notte di luna, in eterno. La favola ci dice che
dolore ed amore, quando riescono ad essere offerta diventano due forze possenti
a disposizione dell’uono per costruire, come Mitilena e Dalidor, la pura
gioia. Nella leggenda c’è la lotta dell’essere nell’esistere per una vittoria
fuori dell’esistenza caduca. Anche qui, dunque, un
tragitto esemplare.
Con questa opera si precisa
il percorso spirituale della Daneo per la quale la
fiaba si pone come denso espressivo tramite.
Si innesta nella
stessa tematica anche l’opera successiva, un dramma in tre atti, Magia in
una sagra di nozze d'estate, con una variante sostanziale che ha una
precisa valenza. Qui la protagonista Darinka, ossia Ketty, agisce in dispregio a ciò che era scritto nel magico
chiarore della luna, rifiuta l’amore di Renci, quasi
una fuga dalla propria nicchia. La donna non uccide come
Scolastica, si ribella. Pur se il tentativo fallisce, perché non è
possibile, per
Con questa trasformazione siamo a Schizofrena1,
l'opera che unisce i due filoni tematici - trattati
autonomamente in due parti ben distinte - da noi individuati nella produzione daneiana: la vicenda del Carso e
la vicenda personale.
1. Nell'analisi
di questa opera ci riferiamo alla nostra recensione
apparsa su "Riscontri" (XIII, 1991, 2, pp. 122-124) della quale si
riporta qualche passo.
Dalle altezze a cui il tragitto spirituale l’ha
portata la scrittrice triestina può guardare con
distaccata partecipazione e delineare una situazione umana - descritta nella
prima parte dell'opera - e un comportamento dell’uomo - oggetto della seconda
parte - per cui "schizofrenia" non è, come potrebbe apparire, lo
stato dell’uomo nella disintegrata realtà post-industriale né è la distruzione
della natura che ha perduto la compattezza originaria.
Nella prima parte è infatti
rappresentata, attraverso tre figure femminili, la crescita spirituale
possibile all’uomo se non si ferma nelle gore della vita. Tre liriche, tre
tappe umane: dalla Ragazza con i fiori secchi nel prato mentale che ha il privilegio di avvertire "gli accordi del mare"
(13); alla Maddalena risorta che approdata negli "occhi
sconfinati" "d’Uomo vivo" (17) - il Cristo - vive il nascosto
martirio e prova l’alta tensione del richiamo di superiori realizzazioni che
bruciano i sensi e distruggono le "fredde tenebre del cervello"
(17-19); fino alla "ragazza dissennata" "come i gabbiani"
che è la suprema conquista degli Angeli dall’anima umana in attesa di
godere l’immensa voce di silenzio e di luce" (21-23).
L’altro stato schizofrenico - descritto dalle
liriche della seconda parte - è quello dell’uomo che "con blocchi di
cemento" distrugge il dolce Carso tramutandolo
in "denso mare di calcestruzzo". Ma la natura intatta e vitale del Carso vive ora dentro di lei e nella sua poesia per cui il voto risolutorio della
lirica Carso Duemila ("Non è
alienazione se penso / che vorrei morire in questi boschi amati / abbracciata
al mio uomo in una notte calda / quando i grilli assaltano il cielo", 30)
somiglia all’atto finale di un rito perché dalla morte nasca la vita. Per
l’incisiva atmosfera di queste liriche l’intensa
invocazione finale che cade sul Carso avvolto in un
magico incantamento di perfetta bellezza e ancestrale melodia: "non si
tramuti oggi l’anima del Carso / in veleno di
"civiltà / in verbo di cemento! (30), diventa una
terribile condanna.
Questa opera, che può considerarsi per i temi e gli
esiti poetici una Summa, è racchiusa, come uno
scrigno, da due composizioni artistiche: in prima di copertina l’Arlecchino
(un quadro di Renato Daneo) e in quarta di copertina A
Renato Daneo (una lirica della stessa poetessa)
che sono metafore, il primo, della situazione delineata nell’opera e testé
descritta, la seconda, della sua risoluzione nell’approdo alle regioni del
cuore dove solo l’amore vince: "E perché amore non avesse mai a finire /
l’azzurro dei tuoi occhi è diventato / in cima al cielo, un celeste dono / che
si scioglie nel mio quieto vivere / anche di poco".
Ci sembra che questa sia l’essenza della poesia di Ketty Daneo.
.
In "Il rinnovamento", 1993, nn. 214-215. |
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