Francesco De Sanctis
Una mostra e un
convegno per conoscere e per capire De Sanctis
Al termine del convegno sul De Sanctis, che
a sua volta chiudeva una mostra documentaria sul nostro grande
comprovinciale, ospitata nella Biblioteca Provinciale
di Avellino non possiamo, non parlarne anche noi. E ciò perché pensiamo, che
anche se se n'è parlato a livello nazionale, i nostri
lettori lontani debbano conoscere più di tutti, perché irpini,
ciò che è avvenuto ad Avellino.
Dobbiamo prima di tutto dire che queste
attività sul De Sanctis sono un doveroso atto di
riconoscimento che la nostra provincia ha tributato ad un uomo che, per troppo
tempo è stato messo da parte da una certa cultura, che pretendeva imporre dal
di fuori schemi ed indirizzi.
Pian piano Francesco De Sanctis si è fatto strada in un difficile cammino verso la conquista di
quegli ambienti che lo avevano ignorato o respinto o trattato con stizza. La
partecipazione al convegno di esimi studiosi
provenienti da tutta l'Italia - Attilio
Marinari, Luigi Firpo, Raffaele Colapietra, Amedeo
Quondam, il nostro concittadino Gennaro Savarese e poi ancora Fabiana Cacciapuoti, Carlo Muscetta,
Mario Scotti, Nino Borsellino - hanno dato alla due giornate un altissimo
livello culturale dimostrando la pienezza degli studi sul De Sanctis. Né sono mancate note
polemiche, reviviscenze di contrasti non ancora sopiti, come la giusta e dura
risposta di Carlo Muscetta, che ha fatto appello ai
suoi lunghi studi desanctisiani per rintuzzare
l'intervento di Luigi Firpo di Milano che aveva individuato in De Sanctis uno scarso senso del Risorgimento "essendo
vissuto lontano dal crogiuolo formativo risorgimentale". Dall'altezza
della sua autorità Muscetta è stato incisivo nel
respingere la chiara miopia firpiana sulla statura
politica del De Sanctis. Basti considerare le sue
scelte politiche, la sua visione di riforme amministrative ed economiche,
l'esigenza della formazione di una classe politica meridionale, la necessità di
una educazione nazionale, la sua coscienza dello Stato
libero dall'ingerenza della Chiesa per capire che De Sanctis
non solo si muove nella linea del Risorgimento, quanto lo supera per una realtà
aperta al futuro comprensiva di tutte le istanze che venivano dalla composita
realtà italiana.
Vogliamo raccontare ai nostri lettori l'interessantissima mostra che
permetteva, attraverso documenti, autografi, libri, di seguire lo sviluppo del
pensiero desanctisiano, dalla quale si usciva con una
più chiara conoscenza del morrese e non solo , ma anche di tutta la cultura napoletana di un intero
cinquantennio.
Dalla sua prima scuola, aristocratica, nel suo isolamento
intellettuale, al discorso ai giovani, che supera la
posizione precedente e profila l'impegno civile, che si realizza nei fatti del
'48, si giunge al ripensamento dell'esilio e all'attività giornalistica e
didattica di Torino e Zurigo.
Ma l'esposizione diventa interessante con i documenti, i giornali, i
manifesti del periodo politico del De Sanctis dalla
sua Dittatura subito dopo l'impresa di Garibaldi, al suo mandato ministeriale
che lo vede impegnato con piglio moderno in problemi nuovi, alla sua continua
partecipazione alla vita politica attraverso giornali, lettere, discorsi in cui
esprime idee nuove, per nuovi programmi, per uno Stato
nuovo.
.
Dalla stampa solofrana 1983 |
La riscossa di un grande irpino
Un irpino da rileggere e riscoprire:
Francesco De Sanctis. Non è mai troppo tardi rendere
il mal tolto, male, invece, non farlo una volta coscienti
dell'errore. È questo il caso del De Sanctis, il
nostro grande conterraneo a cui, per vari motivi, sono
stati fatti parecchi torti, non pochi sono coloro che l'hanno appena sfiorato
nei loro studi o considerato autore di secondo piano e per di più "sconosciuto
attraverso la "interpretazione" crociana o maxista. Comunque la cultura
ufficiale ha presentato sempre un De Sanctis monco,
visto solo attraverso una "parte della sua produzione e della sua attività
come se intere pagine della sua vita non avessero alcun significato”.
Sembra, invece, ora che si stia vivendo un periodo favorevole agli
studi desanctisiani a cui le celebrazioni del
centenario hanno dato un ulteriore spinta. Le cose
migliori, come è giusto, stanno venendo dalla sua
terra. Ultima in ordine di tempo il pregevole numero doppio or ora pubblicato
della rivista "Riscontri" dal titolo: Francesco De Sanctis tra etica e cultura, che è anche, secondo noi,
un'indicazione, della via da seguire nella riscoperta del Nostro.
Il volume si inscrive nel discorso
culturale che la rivista irpina conduce in modo
coraggioso e valido e permette di percorrere quasi per intero l'itinerario desanctisiano con il contributo di valenti studiosi.
Ad insistere su una rilettura del De Sanctis
in modo più autentico e genuino è lo stesso direttore di "Riscontri" quando afferma che "un ritorno" a
De Sanctis è ancora oggi proponibile e potrebbe
segnare la fine della sua "sfortuna" perché tentato "in una
situazione culturale più favorevole, potrebbe costituire un approccio più
sereno e leale e potrebbe, quindi, risultare davvero illuminante per De Sanctis e per noi".
A noi sembra che la riscoperta-conoscenza del grande
morrese debba avvenire sul piano etico, del suo
impegno sociale e politico. Questo piano di lettura darà e tutta la sua opera
una luce nuova poiché le "due pagine della sua
vita" non sono staccate e sovrapponibili, bensì si integrano a vicenda e
si fondono nella personalità dell'autore.
Ci sono scritti di De Sanctis quali La
giovinezza, il Viaggio elettorale, e ancora l'epistolario, i
discorsi politici, ma anche le stesse grandi opere più conosciute, dai quali
prepotentemente emerge l'ethos della sua
"personalità", "la sua carica ideale", la sua profonda
esigenza morale.
Emerge da esse un uomo integro dalla morale
forte, sensibile alla nobiltà e grandezza dei sentimenti che non ricusa
l'azione e rigetta il compromesso.
Appare un politico seriamente interessato ai problemi dell'Italia postrisorgimentale alle prese con una destra che ormai aveva fatto il suo tempo e con un trasformismo che non
accettava, perché espressione di corruttela politica, sottogoverno, intrighi; proponitore di una "sinistra giovane", aperta a
tutte le istanze che portino a moderati mutamenti strutturali alla società";
sostenitore di ogni iniziativa intelligente, democratica; nemico di ogni
demagogia. Un laico che lotta per l'indipendenza della coscienza politica da
quella religiosa.
Egli si muoveva in un sud in difficoltà
con i Borboni che lottavano per affermare la
legittimità del loro governo, con il clericalismo che come una melma
precludeva ogni azione, legava le braccia, imbavagliava la bocca, bendava gli
occhi, con le giuste aspirazioni dei contadini - la maggioranza della
popolazione del sud - che non potevano vedere dove c'era il giusto. Conscio
che l'Italia tutta non era ancora libera, né popolo,
né governo. Nei suoi giudizi sulla partecipazione delle masse popolari alla
politica si vede tanto di ciò che ancora oggi esiste o potrebbe essere
valido. "Noi attendiamo tutto dal governo, vogliamo la legge rispettata
dal governo e noi siamo poco inclini a rispettarla.
Mentre gridiamo contro i favoritismi e gli intrighi mettiamo
le nostre speranze nell'uso delle raccomandazioni e degli intrighi". Una
lettura del mondo sociale e politico di allora fatta con acutezza,
ma pregna di rammarico per una situazione di depravazione sociale e
politica grave che certo non poteva essere amica del progresso sociale e
della democrazia, nemica del popolo e che favoriva solo i politicanti, i
mestieranti della politica. Quanto di quello che denunzia De Sanctis è ancora nel comportamento di tanti di noi? Le
sue invettive contro il sottogoverno non sono valide
ancora oggi? In quanti governi, specie locali e specie nel
sud, "non sono i ministri (o gli assessori) a governare, ma gli amici,
gli aderenti, i protettori, i compari?" Allora non esistevano i partiti
politici come oggi con programmi precisi, statuti e un'organizzazione
gerarchica e capillare, perciò fu possibile il trasformismo. La
corruttela, il sottogoverno, gli intrighi di gruppi personali e regionali, la
triste storia di gruppi e persone che passavano da uno schieramento all'altro erano piaghe vistose e deprimenti. Né si faceva
qualcosa per eliminarle, poiché scarsa era la volontà di realizzare un
programma di i rinnovamento, e le capacità per
farlo. |
Spicca soprattutto la figura di un educatore che vede nella cultura
l'unica strada che senza scosse avrebbe potuto portare il nostro popolo, e non
solo quello del sud, alla conquista della coscienza nazionale. La sua attività
pedagogica, nuova, proficua, ricca di spunti, valida, il suo concetto di
scuola, di cultura, di scienza mirano, infatti, a
riempire di contenuto la libertà per formare intelligenza e volontà, per la
crescita intellettuale, civile e morale del popolo che deve diventare nazione.
Il
popolo non è libero, diceva, se appartiene al confessore, al notaio,
all'avvocato, se cioè non sa gestirsi, se non ha
indipendenza di giudizio. Così nella educazione egli
vedeva il solo modo di risolvere il "problema del serio rapporto con la
vita reale" con i problemi concreti del vivere civile, di ammodernamento
dell'Italia, affinché si mettesse al passo con le nazioni. C'era un grande
stacco tra la realtà dell'Italia finalmente nazione e il popolo che non lo era ancora era l'Italia come una nazione vuota, priva
del suo popolo. Il rinnovamento del paese però per il De Sanctis
non "poteva non venire che attraverso un progetto culturale, in senso
etico. Ecco che la cultura viene ad avere una grande
responsabilità, quella che le viene dal fatto che sola può dare un contenuto
alla libertà di cui deve godere un popolo che non è libero se non è istruito.
L'istruzione crea libere le coscienze, forma le volontà, corrobora
l'intelletto. Qui c'è la soluzione della crisi della società. A Napoli dove
il De Sanctis operò l'insegnamento era distaccato e
retrogrado, le scuole pubbliche erano tenute in abbandono perché re
Ferdinando per grettezza o per calcolo politico, tenuto conto
dell'irrequietezza della borghesia napoletana manifestata durante la
rivoluzione napoletana del 1799 durante i moti del ’21 soleva
dire: "Più asini sono loro già dotto sono io". A
Napoli nel primo momento del suo insegnamento egli soffri
solo "la problematica dell'insegnante che vuole entrare in contatto con
gli allievi", creare quell'atmosfera che,
unica, produce. L'insegnamento napoletano è nuovo poiché
vede insegnanti ed allievi insieme a leggere e commentare i testi e non
l'insegnante che trasmette agli allievi il suo sapere. Lo stesso De Sanctis sarà alunno di questa scuola dal Puoti, sarà alunno e maestro per i meno bravi o i più
piccoli, ma egli rinnoverà e Napoli l'insegnamento
del Puoti quando sarà costretto a fare scuola. Il
contatto con gli alunni diventa ancora più genuino e fruttuoso poiché voluto
degli stessi, sostenuto dall'interesse, corroborato del piacere. Dopo
l'esperienza delle barricate del '48, dopo l'esperienza del carcere e
dell'esilio calabrese, dopo la prima esperienza politica egli cala nell'educazione, nella scuola il progetto politico.
Scuola e politica si uniscono poiché tendono ad un
unico scopo: la crescita intellettuale civile e morale del popolo che deve
diventare nazione. Ecco che il ministro ed il politico si interessa
all'istruzione popolare. Solo la scuola per lui è il vero luogo di civiltà
nazionale, di costruzione delle coscienze. Rinnovare
la società significa rinnovare anche l'arte ecco il
critico diventare politico, ecco le due pagine integrarsi. Ecco
il significato della sua Storia della Letteratura italiana che è un romanzo
socio-storico, un'epica collettiva, la descrizione del procedere di un popolo
attraverso i suoi mutamenti popolari. In quella storia egli elimina
tutto ciò che non serve "alla pianta-uomo", che non serve per ricostruire l'Italia. Il De Sanctis
si può benissimo ad avvicinare al Cavour che capì il
valore del suo ministro. Cavour ha fatto l'Italia egli si
adopera per fare gli italiani. Tutta la sua azione è impostata sul suo impegno sociale, che è impegno politico ed impegno
letterario. I suoi scritti sono disseminati di aforismi,
espressioni di un pensiero filosofico, ma egli non si è mai preoccupato di
ordinare i suoi pensieri in un compiuto sistema filosofico, ne uscirebbe una
filosofia morale della vita, che potrebbe dire molte cose perché De Sanctis è soprattutto un autore libero, il suo pensiero
non è condizionato. |
In una Italia che "doveva fare gli
italiani", il nostro grande morrese dà un
esempio di come operare, un contributo valido ed essenziale, ma non utilizzato
per la pochezza dei suoi contemporanei che non riuscirono a capirlo.
Non è difficile accorgersi oggi che quella è stata la direzione
giusta, al di là delle varie "deviazioni",
che ha portato alla coscienza civica di oggi.
Oggi che fasce sempre più ampie della società partecipano alla
gestione del potere e la vita si fa più intensamente ed empiamente vissuta, l'ethos
desanctisiano, la sua visione politica, il suo
progetto culturale e persino il suo concetto della scienza potranno
essere di valido sostegno alle nuove generazioni sia che si debba operare
semplicemente nella vita o in politica o nella cultura o nella scienza.
Ritorno a De Sanctis, dunque, per trarre
forte alimento, stimolo giusto, valide indicazioni, essenziale coraggio per
affrontare nel giusto senso la crisi in atto nella nostra società che è crisi
di crescita e quindi di cambiamento, di identificazione,
di valori. Proprio perché ampia ed urgente è l'esigenza di un qualcosa di
valore cui riferirsi, sono auspicabili e necessari più
profondi e seri studi sul De Sanctis.
È giusto che dal meridione giunga la sua rivalutazione egli che fu
un meridionale scomodo, presto messo da parte, facilmente usato per altri
scopi.
.
Dalla
stampa irpina, 1983. |
La situazione della provincia irpina all'indomani dell'Unità d'Italia
Il Viaggio elettorale
Nell'opera scritta nel 1875 De Sanctis
racconta il viaggio fatto nel collegio di Lacedonia di
cui faceva parte Morra Irpina, il suo paese natale.
Nella elezione del novembre del 1874 era stato candidato in
due collegi, quello di S. Severo in Puglia e quello di Lacedonia
confinante con il primo. In quest'ultimo, il suo
collegio natale, il De Sanctis aveva riportato un
numero di voti superiori a quello del suo competitore. Però neanche questi
aveva attenuto la metà dei voti degli elettori iscritti per
cui, secondo la legge elettorale di quei tempi, non poteva risultare
eletto. La votazione, quindi fu ripetuta una settimana dopo con un ballottaggio
tra De Sanctis e il suo avversario. Al De Sanctis andarono i voti di un altro candidato escluso da
questa seconda competizione. Ma
Il De Sanctis, pur essendo riuscito
vincitore nel collegio di Sansevero, per una
questione di dignità e prestigio decise di intraprendere un viaggio elettorale
nel cuore dell'Irpinia.
Egli, dopo il viaggio, scrive che "una rete di menzogne era
distesa nel collegio di Lacedonia" ordita da
interessi particolari di piccoli gruppi poi aggiunge "se non potei disfare un blocco così compatto formato con tre anni di
lavoro ci feci dei grossi buchi e guadagnai tutti gli uomini di buona
fede".
Poi dice che "gli Italiani fanno i più
le elezioni da cospiratori". E continua "Io
ho voluto fare la mia elezione all'inglese e anche se ho combattuto aspramente
sono andato io là, ho discorso, ho lottato e ho visto".
Dal Viaggio abbiamo preso dei passi come il seguente del
primo capitolo che è una lettera ad una sua allieva. Dice: "Vidi
contestata la mia elezione nel collegio nativo, gittai
un occhio fuggitivo sui verbali e fiutai molte brutture; avevo caro che
[...] "
[...] Tornai molto commosso. Avevo nella mia mente tutta una storia
pregna di grandi dolori e di grandi gioie, ricca di osservazioni
interessanti; avevo imparato più in quei paeselli che in molti libri. E dissi questa non è storia mia, è storia di tutti, s'impara
tante cose. È il mondo studiato dal vero e dal vivo... Abbiamo
tanto mondo intorno, vivo, palpabile, parlante, plastico... e vogliamo ancora
l'arte nei cimiteri.
E pensavo pure: qui non c'è politica, o piuttosto politica c'è, ma è
nome senza sostanza pretesto di altri interessi e di
altre passioni...
Qui è un mondo, un mondo quasi ancora
primitivo, il mondo meridionale che si apriva alla partecipazione politica al
nuovo Regno d'Italia, un mondo rozzo e plebeo, pure illuminato da nobili
caratteri e da gente semplice.
Io sono andato in quel mondo a riconquistare la mia patria.
Il viaggio toccò Rocchetta S. Antonio che egli chiamò "la
poetica" a cui dirà: "Bravi miei elettori che travagliati da un lungo
ed ostinato lavoro di parecchi candidati avevate
all'ultima ora improvvisata la mia candidatura e avete intorno al mio nome
inalberata la bandiera della moralità. E possa questa
bandiera essere il principio di nuova vita! Voi mi avete dato una maggioranza
notevole. La vittoria ci fu e mi parve una sconfitta. Non mi sapevo dar ragione
di tanto accanimento, del gran numero di voti contrari e di certe proteste
vergognose che gittavano il disonore su questo
sfortunato collegio [...] Era in questione l'onor mio
e l'amore dei miei elettori. Ed io dissi: finora sono
stato in Napoli spettatore quasi indifferente di
quella lotta. Non debbo io fare qualcosa per questi
elettori? Non mi conoscono, sono involti in una rete di menzogne e di equivoci. Io ho pure il debito di illuminarli di dire la verità, di togliere ogni scusa agli uomini di malafede.
Ed eccomi qui in mezzo a voi. Ed
ecco la verità. Il collegio è diviso in due partiti che lottano accanitamente,
comuni contro comuni, cittadini contro cittadini, ed
io non sono qui che il prestanome delle vostre collere e delle vostre
divisioni. È così che volete rendere la patria a Francesco De Sanctis? no, io non potrei mai
essere il deputato di un partito per schiacciare un altro partito; non posso
essere lo scudo degli uni per ed il flagello degli altri; io voglio essere il
deputato di tutti, voglio lasciare nella mia patria una memoria, benedetta da
tutti. Mi volete davvero? [...] Stringete le vostre destre, sia il mio nome
simbolo della vostra unione. Ed io sarò vostro per
tutta la vita".
A Lacedonia assistette ad un battibecco
dice: "Da quel vivo scambio di parole veniva fuori come un lampo di una
storia segreta di interessi, di passioni ordite da
intelligenti artefici per un par d'anni e che io con molta semplicità credevo
di poter dissipare in mezz'ora a furia di parole".
Nel discorsi in quel paese disse: "Dopo
14 anni di esilio l'esule viene a chiedervi la patria. Io voglio la patria mia,
ma non voglio un pezzo di patria, voglio la patria
intera. Se debbo essere qui l'amico degli uni contro
gli altri meglio l'esilio, confermate il mio esilio. Tutti dite
di amarmi, di stimarmi; bella stima in verità! Posto in me dei luoghi più
elevati presso la pubblica opinione, i miei concittadini hanno voluto darmi una
promozione e fanno di me un alfiere. [...] Io qui non porto la guerra, non
voglio essere il flagello della mia patria; se debbo
consacrare a voi gli ultimi miei anni voglio essere il padre e il benefattore
di tutti i miei concittadini. Io non porto bandiere altrui; sono io la mia
bandiera e la mia bandiera si chiama concordia"
[...] "Non dico già che le lotte non ci abbiano ad essere. Senza lotta non
c'è vita. Lottate pure. Ma ricordatevi che se uomini civili siete,
qualche cosa nelle vostre lotte vi deve pure unire Che cosa è questa Casa
Comunale (parlava nella sala comunale) se non un primo legame tra voi? Comune
vuol dire unione. Siete divisi, ma siete tutti figli di Lacedonia.
E se taluno dicesse male di Lacedonia
voi vi sentirete tutti offesi, tutti come una sola persona? E
se l'Italia vi chiama alle armi, non vi sentirete voi tutti Italiani, non
correste voi tutti alle armi? Ebbene aggiungete a
questi legami anche il mio nome, e non lo profanate mescolandolo alle vostre
lotte".
Lasciando Lacedonia: "Non mi facevo
illusioni. Mi lasciavo dietro un lavoro seriamente ordito, e rimasto intatto.
Molti interessi, molte passioni erano abilmente mescolati
in quel lavoro".
Va a Bisaccia che egli chiama "la gentile", poi a Calitri, "la nebbiosa". Qui cercò di investigare
le condizioni morali del paese. "Frizzi, sarcasmi, ironie s'incrociavano
dei presenti contro gli assenti ; c'era lì del guelfo
e del ghibellino, lotta di famiglie, lotta di interessi, passioni vive e dense
col nuovo alimento che viene dai piccoli centri, dove non si pensa che a quello
solo".
Agli elettori riuniti in un salotto dice: "Se tutta intera la
mia vita spesa a illustrare la patria non vale dare al
mio nome tale autorità che stia fuori delle vostre passioni locali, a che giova
il mio nome? Gettatelo nell'Ofanto,
dimenticatemi per sempre".
I ragazzi delle scuole di Calitri gli
avevano detto: "Siate per noi l'angiolo della Pace". Egli commenta:
"E non voglia Dio che un dì si abbia a dire che
qui i fanciulli mi compresero meglio dei padri loro co'
capelli bianchi. Del resto questo è il progresso, i giovani
saranno migliori dei padri".
Dopo l'elezione ad Avellino dice: "Nella mia provincia io non veggo partiti, veggo amici e
concittadini in tutte le file e se vi è caro il mio nome datemi il modo ch'io possa unire tutte le forze pel pubblico bene. Abbiamo
una provincia derelitta e se vogliamo beccarci tra noi, imiteremo le galline di
Renzo. I mali di Avellino sono grandi e i bisogni
della provincia grandissimi. Un'opera concorde e assidua può ispirare coraggio
negli animi e scuotere quella inerzia che è figlia
della sfiducia. Che guadagno s'ha da queste lotte,
altro che la vergogna aggiunta al danno? E quando la lotta
prende aspetto selvatico e rompe i legami delle famiglie e dell'amicizia una
città simile diviene scandalo d'Italia. Sono severo ma i miei capelli
bianchi e l'affetto mio alla provincia mi danno questo
diritto. Alziamo, dunque, la bandiera della concordia e valgano
la nostra attività ai progressi agricoli ed industriali. L'ozio è il padre di
tutte le piccolezze e di tutti i pettegolezzi. Diamo
alla nostra attività uno scopo nobile e benefico, operiamo tutti come buoni
amici e buoni comprovinciali
e saremo rispettati più e la provincia ci benedirà.
Al sindaco di Lacedonia dice in un
telegramma: "Eccomi vostro deputato. Ricordatevi che la mia bandiera nel
collegio e nella provincia si chiama concordia. Ignoro vinti e vincitori. Tutti
miei concittadini".
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