Autori solofrani
Gabriele Fasano e Lo Tasso Napoletano
Succede che si conosca
più un’opera che il suo autore, perché è questa che si consegna alla posterità.
Se è vero però che l’incontro con un autore viene di riflesso rispetto
all’opera, è anche vero che l’opera, senza la conoscenza di chi l’ha prodotta e
dell’ambiente in cui è nata, è monca. Questo è accaduto a Lo Tasso
Napoletano di Gabriele Fasano - la prima più nota del secondo - , per cui
la quasi completa ignoranza di questo autore1 ha condizionato anche
la possibilità di cogliere l’humus di fondo della sua opera. In questo
studio si tenta pertanto di delineare la figura e l’ambiente di vita del Fasano,
e di ricostruire la genesi e certe modalità di fondo della sua traduzione.
1. Gabriele Fasano appartiene ad un ceppo, insediatosi a
Solofra alla fine del XIII secolo, che ebbe da Carlo I d’Angiò l’incartamento
su un fondo in territorio solofrano con privilegi economici goduti, fin da
questo periodo, anche dall’intera comunità2. Maggiore fama ebbe questa famiglia, lungo tutto il XIV
secolo, da tre medici - Riccardo, suo figlio Andrea e suo nipote Niccolò - che
fecero parte della corte angioina ricoprendo importanti ruoli e sostenendo quei
re nello sviluppo dello Studio Napoletano, specie quando si trattò - è il caso
di Riccardo - di trasferire da Salerno a Napoli gli studi di medicina3. A questo periodo risale l’impianto nella città partenopea
del casato solofrano4.
Fin dall’inizio del XVI
secolo questa famiglia, una tra le più rappresentative dell’economia locale e
distinta da una precisa tradizione medica5, si trova introdotta, con una serie di matrimoni,
nell’aristocrazia di Cava e della costiera amalfitana6; e, quando gli Orsini, signori di Solofra, le concessero il
governo dell’abbazia di S. Maria di Vietri7, fu definitivo il suo impianto nella valle metelliana8, che d’altra parte aveva antichi legami con Solofra per
motivi soprattutto economici9.
La famiglia Fasano, era
dunque ben insediata a Napoli10, ed
aveva Solofra e Cava-Vietri - centri del vivo hinterland napoletano -
come punti di riferimento e fonti della propria sussistenza. A questo triangolo
è legato Gabriele che nacque a Solofra il 7 luglio del 1645 da Alessandro e da
Livia Murena11, ma risiedette
essenzialmente a Napoli, e si definì "napolitano"12. Dopo i primi studi seguiti nella scuola locale che proprio
la sua famiglia gestiva, abbracciò lo stato clericale13, condizione che gli fece avere l’incombenza della cura
dell’Abbazia di S. Maria di Vietri e lo fece risiedere anche nella cittadina
metelliana, continuando ad avere con la famiglia di origine normali rapporti.
Di questi luoghi, si hanno chiare tracce nella sua opera, come si vedrà.
La costiera
amalfitano-sorrentina fu però il luogo più importante per la formazione di
questo autore, perché qui si determinò l’incontro col Tasso, un incontro nella
memoria di quelli che lo avevano conosciuto, e nelle cose ancora impregnate
della vicenda tassiana, come si coglie nelle pagine introduttive dell’opera
fasaniana, dove emerge un sapere e una partecipazione che va oltre l’interesse
dello studioso14. Gli eventi della
vita del poeta - nato a Sorrento da Bernardo e da Porzia, appartenente ad una
famiglia sorrentina, i de’ Rossi - , i suoi anni vissuti accanto alla madre e
alla sorella, l’esilio del padre, il distacco dagli affetti familiari, il
girovagare per l’Italia, i suoi ritorni a Napoli - tra cui quello avventuroso a
Sorrento nel 1592 - , l’essere accolto dall’aristocrazia sorrentino-napoletana,
che aveva abbracciato "nel suo seno la famiglia Tasso" e che si
sentiva orgogliosa e partecipe delle vicissitudini del poeta15, e, non ultimo, il grande amore dimostrato dallo stesso per
Napoli, tutti questi elementi avevano creato un’accesa atmosfera in cui la
vicenda letteraria riceveva un riflesso tutto particolare con strascichi che
erano senza dubbio vivi ai tempi del giovane Gabriele, cosa che bisogna tenere
presente per dare la giusta pregnanza alla sua operazione, anche da questo
punto di vista16.
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1. Dice Pietro Martorana nel 1874 (Notizie biografiche e
bibliografiche degli scrittori del dialetto napoletano, Napoli, pp.
189-190): "Di questo poeta, di Napoli, ignoriamo completamente la
vita".
2. Cfr. O. Beltrano, Breve descrittione del Regno di
Napoli, Napoli, 1640, p. 202 ; B. Candida Gonzaga, Memoria delle
Famiglie nobili delle Provincie meridionali, Napoli, 1875, v. V-VI, p. 85.
3. Riccardo Fasano fu reggente dello Studio napoletano fino
al 1313, poi come Protomedico del Regno completò la riforma napoletana della
professione medica (Reg. ang., n. 223, 3, 10 marzo 1319 e n. 217,
c 109, 8 giugno 1319), morì nel 1333, (cfr. M. Camera, Annali delle Due
Sicilie, Napoli, 1841-1860, II, p. 70; R. Caggese, Roberto d’Angiò,
Napoli, II, p. 414, n. 3; R. Trifone, L’Università degli studi di Napoli
dalla fondazione ai giorni nostri, Napoli, 1936, p. 19).
5. Dalla primitiva attività legata all’allevamento e al
commercio della lana, in questo periodo l’impegno economico del ceppo si
arricchisce col possesso di una conceria, di una "calcara" per la
produzione della calce, di una macina per la mortella e per il sommacco (tutti
prodotti conciari), di una "spezeria" (legata alla tradizione medica
e alla concia), e con un peso commerciale che comprendeva tutta la gamma della
produzione locale (A[rchivio di] S[tato di] A[vellino], N[otai], B6522 e
sgg.).
6. Cfr., ASA, N, B6522 f. 164r, B6532, f. 60 e B6545
(1573).
7. Cfr. ASA, B6540, ff. 216 e 221e B7093, ff. 13, 18 e 32. I
Fasano, nella seconda metà del XVI secolo ebbero dagli Orsini, esteso agli eredi,
l’usufrutto e la cura dei beni della chiesa col "conto privilegi" e
con l’obbligo di provvedere ai bisogni religiosi, dei quali si interessò, in
quel periodo, proprio un Gabriele Fasano. V. pure L’Abbazia di S. Maria de
Vetro in "Rassegna Storica Salernitana", V, 1-2, p. 88.
8. Salvatore Milano (Cavese l’autore de Lo Tasso
napoletano, "Rivista storica salernitana", 1993) ha dimostrato il
legame tra i Fasano cavesi e quelli napoletani senza approfondire il vincolo di
entrambi col ceppo solofrano cadendo nell’errore di confondere il Gabriele
Fasano solofrano con un suo omonimo cavese, nato per altro sette anni prima e
forse suo parente.
9. È ampiamente dimostrato il legame economico-mercantile
Solofra-Cava (ASA, B 6532 e sgg.), e quello artistico: cavesi furono i
costruttori di alcune chiese locali e del Palazzo Orsini.
10. Un legame importante, creato dalla famiglia Fasano, ed
utile per il discorso che qui si fa, fu intessuto con la famiglia dei
Laurenzano il cui ramo di Napoli fu protettore proprio di Gabriele.
11. Archivio della Collegiata di S. Michele Arcangelo, Libro
dei battezzati. Anno 1645. Dall’atto, che fu stipulato dallo zio Hortensio
Fasano, canonico della Collegiata, si apprende che al piccolo furono imposti i
nomi di "Gabriel Michael Angelus", e che fu "levato" da
Giovanna Positale. Il primo a parlare dei natali di Gabriele Fasano fu il
medico napoletano Salvatore De Renzi nel suo Elogio storico di Lionardo
Santoro (Napoli, 1853, p. 5 n. 1), un eminente medico solofrano-napoletano.
12. Nella sua opera si trova la definizione di
"napolitano", cosa che suscitò l’attenzione degli storici locali.
Antonio Giliberti dice: "Si vuole per errore, Napolitano, e non Solofrano,
secondo l’epigrafe posta a fronte dell’opera suddetta. Si: era Napoletano di domicilio,
non di nascita per essersi trasferito colà a stanziare" (Pantheon
Solophranum, Avellino, 1886, p. 50 n. 1), la medesima osservazione fa A. M.
Jannacchini (Topografia storica dell’Irpinia, Avellino, 1891, pp.
77-78).
13. Lo stato clericale del Fasano è menzionato dal Giliberti
e da Ottaviano Caputo (Sacerdoti salernitani, Edizioni della Curia
Arcivescovile, Salerno, 1981).
14. Cfr. G. Fasano, Lo Tasso napoletano, Napoli,
1689. L’opera ha un’introduzione Sio lettore mio de lo core, una
dissertazione sul Tasso e una dedica A tutta la nnobeltà nnapoletana
15. Porzia de’ Rossi era figlia di Giacomo, originario di
Pistoia, sua madre Lucrezia apparteneva ai marchesi di Celenza e Gambacorta, la
sorella Ippolita aveva sposato Onofrio Curiale dei conti di Terranova (cfr. G.
B. Manso, Vita di Torquato Tasso, Venezia, 1621). Vale la pena ricordare
che Bernardo Castiello, il curatore della edizione de Lo Tasso napoletano del
1720, nella dedica a Ignazio Barretta, duca di Casalicchio e marito di Ippolita
D’Ammone, parla esplicitamente dell’amore di Tasso per Sorrento facendo
emergere l’orgoglio della casa D’Ammone di considerarsi "familiare"
di Tasso, visto che la di lui sorella aveva sposato l’aristocratico sorrentino
Antonio Sersale, imparentato con la casa D’Ammone.
16. Nei citati testi introduttivi alla sua opera il Fasano
mostra di essere preso dai fatti legati alla nascita del poeta, la cui madre,
egli dice, si trovava a Sorrento, ospite della sorella, dove rimase col marito
per "spassarese" quattro giorni, e dove fu trattenuta fino all’11
marzo 1544, quando, "a mezzogiorno", nacque Torquato; in più punti
emerge, ancora, una profonda partecipazione alla vicenda umano-poetica del
Tasso, cui "anco doppo morto" è doveroso dargli "ricompensa di
honore e rendimento di grazie".
|
2. Gabriele Fasano, che fu un uomo colto ed erudito, attento
al problema della scabrosità dell’opera del Tasso17, è tutto legato a questo rapporto speciale col poeta
sorrentino, intorno al quale si cementò anche l’amicizia con Francesco
D’Andrea, che era nativo della costiera. Col giureconsulto napoletano, eminente
figura di uomo di cultura, amico di letterati e di filosofi, animatore e membro
dell’Accademia sorrentina e di quelle partenopee, il Fasano partecipò alla vita
culturale napoletana18. E proprio in
seno a queste accademie nacque l’opera fasaniana, innanzitutto dettata - dice
l’autore agli stessi "accademici" - dal "bisogno" di
mantenere "viva e chiara la memoria" del poeta, di dare "il
dovuto" "al merito", e di ricambiare le
"dimostrazioni" di "apprezzamento" che il poeta dette
"verso molti di voi e verso questa città, mentre in essa
dimorò", un dovere che è "più commendabile" "quanto non
essendo egli del numero vostro, non de la vostra patria" e
"sol per legame di virtù congiunto"; e conclude: "Questa
considerazione, Accademici, destò in voi desiderio, che fusse celebrato
Torquato Tasso"19. E poi dice,
rivolgendosi al poeta, nella stanza di chiusa dell’intera traduzione:
Tasso,
lo granne e sbresciolato ammore che
te portaie da ch’era gioveniello, ma
ppegliato pe ppietto a ffa st’arrore de
t’havè fatto st’autro vestetiello. Si
lo ppanno paesano è dde valore, lo
ssaie. Ma ddove vao co lo cerviello? Ca
no mmorcato d’oro fatto a pposta, puro
è ppe tte, ssaietta de |
sottolineando
significativamente il debito di riconoscenza dovutogli dai luoghi che lo videro
giovane, e che lui amò.
Tramite il D’Andrea il Fasano
conobbe - a Napoli o a Firenze - Lorenzo Magalotti e Francesco Redi21 e con questi amici affrontò il problema del rapporto tra la
lingua fiorentina e la parlata napoletana, dibattuto negli ambienti delle
accademie napoletane. Forte era la polemica condotta a Napoli contro
l’Accademia della Crusca la cui operazione - il Vocabolario che aveva tolto
dignità di lingua ai dialetti - era contestata perché poggiava sulla
considerazione che lingua italiana era solo quella prodotta dagli autori
toscani escludendo tutti gli altri autori e tutte le altre parlate. La
controversia, che alimentò i rapporti letterari e culturali tra Napoli e
Firenze di cui furono corifei sia il Magalotti e il Redi che il D’Andrea,
contribuì ad aprire gli orizzonti di quel Vocabolario, la cui edizione del 1791
- tra i redattori vi sarà anche il D’Andrea - attinse pure ad autori di altre
parti d’Italia, compreso il Tasso22.
In questa disputa trova
la motivazione più definita la traduzione della Gerusalemme liberata in
dialetto napoletano, fatta da Gabriele Fasano, che - lo si è visto nell’ottava
citata sopra - sottolineò il "valore" del dialetto, e, nella stanza
di dedica alla nobiltà napoletana (I, 4), finanziatrice della stampa23, definì il napoletano lingua "de tresoro", capace
di qualità espressive che non si trovano nella lingua della Crusca, e chiamò la
nobiltà, che portava avanti questa contesa, "altera" nella coscienza
della propria valenza24.
__________
17. Nella nota al Tasso, in piena Controriforma, il Fasano
dice: "I furiosi sdegni di Rinaldo e i folli amori di Tancredi e degli
altri guerrieri non ci saranno esempio di errore, poiché come viziosi ci sono
raccontati, né saranno incitamento al male se non a colui, che disposto per se
stesso al male operare, i contraveleni in veleni rivolge"; e ancora
afferma che "le frodi di Armida" sono narrate non per
"imitazione", ma per "avvertimento" mentre il poema è pieno
di "belle immagini di virtù".
18. Cfr. N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano
del Seicento. Francesco D’Andrea., Napoli, 1923
20 Ibidem, p. 410. Poiché questa ottava è opera del
Fasano non è numerata. Le altre indicazioni, relative alle ottave fasaniane,
saranno poste accanto al testo e corredate del numero romano per il canto e di
quello arabo per la strofa. Nella trascrizione dei versi fasaniani sono stati
accentati i monosillabi, distribuite le maiuscole e ritoccata la punteggiatura
secondo l’uso moderno, e sciolti i raddoppiamenti
21. Benedetto Croce (Noterelle ed appunti di storia civile
e letteraria napoletana del Seicento, in ASPN, 1925 e Nuovi saggi sulla
Letteratura italiana del Seicento, Bari, 1931, pp. 89 e sgg.) dice che il
Fasano conobbe il Redi "in un viaggio che fece a Firenze", che
potrebbe essere quello compiuto col D’Andrea tra il dicembre 1671 e il gennaio
1672, il Nicolini (F. Galiani, Il dialetto napoletano, Napoli, 1923) che
a presentare il Fasano e il D’Andrea al Redi fu il Magalotti, il Marotta (Dizionario
biografico degli italiani, Roma, 1994, s. v.) che l’incontro avvenne nella
casa napoletana del fratello del Magalotti, Alessandro.
22. Cfr. M. Vitale,
23. Tra i nobili che sostennero l’opera fasaniana ci fu il Duca
di Laurenzana (IX, 27), imparentato, come si è detto, con i Fasano di Solofra.
24. Dice l’ottava, che sostituisce quella del Tasso dedicata
ad Alfonso II d’Este: "Autera Nobeltà napoletana, / a te sti vierze mieie
porto mpresiento; / mente sto Ttasseiare a la paesana / t’ha gratia: perché
ssaie c’ha fonnamiento. / Tenimmoce lo nuosto, e stia ’n Toscana /
__________
Legata ai rapporti con i
due principali intellettuali della corte medicea, sotto la regia del D’Andrea e
in sintonia con la intellettualità napoletana, il Fasano fece, dunque, una vera
e propria operazione linguistica dimostrativa. Naturalmente del vernacolo non
ignorava le peculiarità che sono anche i suoi tratti caratteristici ma che non
gli permettevano di tenere dietro a tutto il Tasso, cosa che dice ai suoi
stessi committenti con argomentazioni che mostrano lo spirito con cui la traduzione
veniva affrontata e condotta ("Io haggio fatto lo Tasso, comme s’haverria
potuto fare a llengua nosta; e ssi quarche bota songo juto fora via, è stato pe
ppeglià no poco de decrìo, ed è stato, perché cquarche cchelleta nò me la
poteva votà co ggrazia a llengua mia")25.
Si individuano qui i
motivi per cui il Redi e il Magalotti, che comprendevano a pieno il progetto
fasaniano che condivisero, seguirono e apprezzarono, e che erano esperti e
interessati a problemi linguistici, avranno intensi rapporti col Fasano. Di
questi è testimonianza un importante carteggio - espressione "dei vivaci
scambi culturali e letterari fra Firenze e Napoli nel secondo seicento"
ricostruiti dal Dardi26 - attraverso
il quale si ha la possibilità di precisare il sostegno che i letterati
fiorentini, dettero al poeta solofrano-napoletano ed insieme di definire un
momento ricco della sua attività culturale.
L’amicizia tra i quattro
andò al di là del lavoro che il Fasano portava avanti, e si incrociò con
rapporti più amicali; fu, per esempio, il Magalotti, a chiedere al Redi che il
loro amico napoletano venisse incluso nel Bacco in Toscana, e il
poeta aretino abbozzò dei versi, inizialmente rimasti incompleti27, limitandosi, in un primo momento, ad una breve citazione
accanto a quella del D’Andrea. Infatti il Redi, là dove, biasimando il vino
d’Aversa, "acido asprino / che non so s’è agresto, o vino", aveva
detto che invece "Ciccio d’Andrea / con amabile fierezza / con terribile
dolcezza [...] innalzare un dì volea", aggiunse che "Egli a Napoli
sel bea / del superbo Fasano in compagnia"; e nelle annotazioni riferì un
episodio che esprime la familiarità di questa amicizia. Racconta infatti il
Redi che il Fasano, "leggendo un giorno il Ditirambo, e fingendo d’essere
in collera, perché in esso non si lodavano i generosi vini di Napoli, rivoltosi
con gentilezza ad un Cavaliere comune amico, ebbe a dire: Voglio fa venì
Bacco a Posileco, e le voglio fa vedè, che differenza ’nc’ è tra li vini
nuosti, e li Pisciazzelle de Toscana"28.
Il Redi, dunque, quando
pubblicò il Ditirambo (1685), sapeva che il Fasano aveva intenzione di
intessere con lui un confronto letterario scrivendo un Bacco a Posileco.
In verità il Fasano, che aveva saputo della citazione rediana da Tommaso
Strozzi - un gesuita napoletano e predicatore in Toscana, e molto probabilmente
il "comune amico" di cui parla il Redi - , aveva detto allo stesso di
essere "onorato" e di gradire "i favori d’ambedue [del Redi e
del Magalotti]"; e gli aveva confidato l’intenzione di scrivere un
"giusto poema in lingua napoletana, che, ad imitazione del Ditirambo",
voleva intitolare "Bacco a Posileco", dove meditava di
"parlar de’ vini, ed antichi, e moderni del Regno, e ficcarvi dentro
quant’ha di buono la boccolica in questi paesi", di fare in esso
"menzione degna del Sig. Redi", da cui dire "d’aver preso il
titolo", e persino di invitarlo "a Mergoglino"29.
Qualche mese dopo, anche
il D’Andrea comunicò all’amico la notizia di essere stato citato dal Redi, e
forse gli diede anche una copia del Bacco, infatti gli propose di
tradurlo "in lingua napoletana, trasportandolo a’ vini di Napoli, come fe’
l’Ongaro dell’Aminta". Il Fasano però non se la sentì, infatti il D’Andrea
dirà al Redi, comunicandogli il diniego, che non aveva "egli [il Fasano]
genio se non nelle ottave, dove riesce mirabile". In questa occasione il
Fasano confidò al D’Andrea di aver cominciato "un poema in ottava
rima", ma ne fu dissuaso ("non mi curai ch’il proseguisse, perché non
era quello che io desiderava")30;
e fu probabilmente questo il motivo per cui il progetto fasaniano del Bacco
a Posileco non fu completato.
Nel gennaio del 1686 il
Fasano mandò la traduzione del XVI canto della Gerusalemme al Magalotti
e, suo tramite al Redi, a cui inviò anche una lettera "in lingua napoletana"31 - per la prima volta pubblicata dal Dardi - , indirizzata a
"Sio carfetta felosofe e Poete mio Padrone"32. Essa contiene un divertito riferimento alla diatriba
Redi-Fasano sui vini ("l’aggio ditto e lo ttorno a dicere ca ssi vine
vuoste songo pesciazzelle e pesciazzelle e meze"), una "energica e
scherzosa difesa dei vini meridionali", con la sottolineatura che è il
sole del sud a rendere le viti
"amabele co na docezza iusta" e che
lo stesso terreno è inzuppato di vino, "un vivace ricordo del ‘segaligno e
freddoloso Redi’", i "ringraziamenti e la preghiera di giudicare
severamente il canto"33.
Alla fine di gennaio di
quell’anno, in una lettera al Magalotti, il Redi dice di aver letto il canto
del Fasano, sottolinea di aver compreso "tante cose del dialetto
napoletano", che nell’opera vi è "vivezza, naturalezza di lingua, e
proprietà"34; poi, nel rispedirlo, dopo pochi giorni, al
Magalotti si propone di scrivere al Fasano una lettera35, della
quale però non si sa nulla, né si sa se l’aretino gli mandò una
"critica" a quel canto come l’amico napoletano gli aveva chiesto.
In questo stesso periodo
il Fasano scrisse una seconda lettera al Redi dove, tra italiano e napoletano,
lo ringraziò di persona di averlo menzionato nel Ditirambo, e gli mandò
in omaggio un suo sonetto di argomento enologico36; poi ricambiò la
cortesia citando il Redi nel canto XIV della sua opera37. Anche se
nel carteggio rediano non ci sono, oltre questa data, altri accenni al Fasano,
l’amicizia tra i due rimase se il Redi nella edizione definitiva della sua
opera aggiunse altri versi che parlano del Fasano, presentandolo come suo
sfidante "che con lingua profana osò di dire, / Che del buon Vino al par
di me s’intende" e suo contendente nel lodare i vini di Posillipo e
del napoletano, dove c’è il chiaro riferimento alla lettera del Fasano appena
citata, al suo progetto del Bacco a Posilleco, e in genere alla diatriba
sui vini che univa i due amici napoletani all’aretino38.
Anche al Magalotti il
Fasano chiese consigli sulla sua traduzione quando inviò il canto XVI della Gerusalemme
al Redi, infatti si ha di lui una lettera (Al Signor Gabriello Fasano sopra
il canto XVI del Tasso tradotto da lui in Lingua Napoletana), pubblicata
dal Dardi, che è "un vero e proprio commento" ai versi fasaniani,
oltre a dare la possibilità, confrontando i versi riferiti dal Magalotti col
testo fasaniano definitivamente consegnato alla stampa, di "gettare
un’occhiata sul lavoro di elaborazione del Fasano e sulla cura scrupolosa con
cui seguì le osservazioni del mentore toscano"39. Ci sono,
nella critica magalottiana, osservazioni "puramente informative"
circa il "grado di intelligibilità per uno straniero del testo
dialettale", accompagnate da consigli40; un’analisi "più
sottilmente interpretativa delle sfumature del testo tassesco perdute o
fraintese dal traduttore"41; considerazioni circa l’"unità
strutturale del testo dialettale"42. Soprattutto il Magalotti
dette al Fasano la libertà dalla "traduzione servile"; egli, che era
un grande ammiratore del Tasso, non ebbe alcuna "schifiltosità
classicistica" verso questa traduzione, anzi c’è nella sua
"critica" una "cordiale adesione alla energia e alla
‘naturalezza’ del dettato dialettale", che chiama "naturalezza da far
impazzire" e che "ben s’iscrive nel suo atteggiamento di sempre
vigile attenzione per tutti gli aspetti del linguaggio"43.
___________
25. Introduzione: "A ttutta la nobeltà
nnapoletana", cit., p. 2.
26. Cfr. A. Dardi, Fra Napoli e Firenze: Magalotti e Redi
consulenti di Gabriele Fasano. L’autore di questo notevole contributo usa
documenti inediti conservati nelle biblioteche e negli archivi fiorentini.
27. Ibidem, p. 67-68 e n.
29. Cfr. A. Dardi, op. cit., p. 68 e nn. 21 e 22
(corsivo aggiunto). Il virgolettato fa parte di un biglietto dello Strozzi al
Magalotti che ne dette informazione al Redi (giugno 1685).
30. Cfr. G. Tellini, Tre corrispondenti di Francesco Redi.
Lettere inedite di G. Montanari, F, D’Andrea, P. Boccone, in
"Filologia e critica, I, 1976, p. 429. Lo studioso pubblica una lettera
del D’Andrea al Redi del 17 luglio 1685 che fornisce questi preziosi
particolari. V. anche A. Dardi, op. cit., p. 68 n. 22.
31. Cfr. F. Redi, Opere, cit., V, p. 143. Francesco
Redi così dice al Magalotti: "Mentre sto per terminare questa, mi
comparisce l’altra lettera di V. S. Illustrissima che mi porta la lettera del
Signor Gabbriello Fasano da Napoli in lingua napoletana. Questo poeta mi fa
troppo di onore, e gli resto obbligatissimo. Quando V. S. Illustrissima mi
manderà il decimosesto canto del Tasso da esso ridotto nella materna lingua di
Napoli, lo leggerò volentieri. Circa poi la critica, che esso Fasano da me
desidera non saprei che mi rispondere. Videbimus et
cogitabimus...".
32. "Filosofo, poeta e mio padrone" sono le
attribuzioni riferite dal Fasano al Redi nella citazione che di lui fa ne Lo
Tasso napoletano, e "carfetta", cioè "tormentatore", si
riferisce scherzosamente alla critica che il Redi aveva fatto al Fasano circa
il suo giudizio sui vini.
33. Cfr. A. Dardi, op. cit., pp. 68-69. La lettera,
"non sempre di agevole lettura", si trova nel manoscritto Laurenziano
Rediano (218, c 99r-v) ed è datata 1 gennaio 1686: "... Ca si li vine
vuoste havessero calore no’ n sarisse lo commessario de lo friddo, lo mperatore
de li cova focolare, e la mamma de le ggatte cennerentole, ca si te venisse na
meza de ricco de Somma o de chello de
34. La lettera del 25 gennaio del 1686 (datata per errore da
Croce nei Nuovi saggi..., cit., p. 252 e n. 2, 1 settembre 1684), dice:
"Ho letto il XVI canto del Tasso fatto Napolitano dal Sig. Fasano. Ho
avuto fortuna d’intenderlo, e mi piace molto e molto. Forse, anzi senza forse,
non sarò arrivato alla profonda cognizione di molte finezze, e proprietà;
nulladimeno torno a dire che mi pare una bella cosa: e se dovessi accompagnarlo
con qualche paragone, mi varrei dell’Eneide travestita; ma nel Tasso vi è più
vivezza, naturalezza di lingua, e proprietà. Mi sa mill’anni di vederlo tutto
stampato. Debbo io rimandare a V. S. Illustrissima l’Originale? Me ne dia
qualche avviso" (F. Redi, Opere, cit., VII, pp. 181-182).
35. Cfr. F. Redi, Opere, cit., VII, pp. 182-183. La
lettera dice: "Rimando a V. S. Illustrissima il Canto 16 del Tasso del
Sig. Fasano. Io questa istessa sera scrivo ad esso Sig. Fasano...".
36. Anche di questa lettera, che si trova nel citato
manoscritto Laurenziano Rediano (218, cc. 100r-101v), il Dardi (op. cit.,
p. 68 e n. 25) fornisce degli stralci che qui si riportano: "Non [...]
poterono le mie preghiere al suddetto Padre [lo Strozzi] che in vostro nome me
ne fè consapevole esser bastanti a far sì che la sua cortesia havesse desistito
a non nominarci [...]. Io resto obbligatissimo alla sua gentilezza, che si è
degnata valersi del mio nome oscuro nella luminosissima sua e divina
composizione ditirambica [...] diaschence sto pparlà toscano mme schiatta
ncuorpo [...] te manno no zonetto che m’è scito caudo caudo senza cagnare na
parola...".
37. Alla strofa 31 dice "Chisto è no Rede nquanto a lo
sapere / e ne parlaiemo assaie de sto viaggio / na vota nziemme" chiarendo
in nota: "si allude all’eruditissimo e gran filosofo signor Francesco
Redi, mio parzialissimo padrone, patrizio aretino e compatriota di Francesco
Petrarca, di cui basta solamente accennare il nome già che la chiara fama da
lui tutta la terra ingombra".
38. Cfr. F. Redi, Opere, cit., vv. 114-139, pp. 4-5. I
versi così continuano: "Ed empio ormai bestemmiator pretende / Delle tigri
Nisee sul carro aurato / gire in trionfo al bel Sebeto intorno; / Ed a quei
Lauri, ond’ave il crine adorno, / Anco intralciar la pampinosa vigna, / che
lieta alligna in Posillipo, e in Ischia; E più avanti s’inoltra, e in fin
s’arrischia / Brandire il Tirso, e minacciarmi altero: / Ma con esso azzuffarmi
ora non chero; / Perocchè lui dal mio furor preserva / Febo, e Minerva. / Forse
avverrà, che sul Sebeto io voglia / Alzar un giorno di delizie un trono: /
Allor vedrollo umiliato, e in dono / Offrirmi devoto / Di Pisillippo, e
d’Ischia il nobil Greco; / E forse allor rappattumarmi seco / non fia ch’io
sdegni, e beveremo in tresca / All’usanza Tedesca; / E tra l’anfore vaste, e
l’inguistare / Sarà di nostre gare / Giudice illustre, e spettator ben lieto /
Il Marchese gentil dell’Oliveto".
40. Ibidem, pp. 70 e 71-
41. Ibidem. Questo avviene in due casi al v. 1
dell’ottava VI e al v. 7 dell’ottava IX.
42. Ibidem. È il caso in cui sottolinea un verso
uguale in dialetto e in lingua, cioè "anfibio", che produce una
frattura per i toscani "disgustevolissima" e che il Fasano eliminerà.
43. Ibidem. Altre espressioni di approvazione usate
dal Magalotti: "tutte cose che fanno arricciare i capelli di gusto e di
meraviglia", "naturalezza inarrivabile", "oh che cara e
graziosa idea di naturalezza", "oh che bella cosa!",
"strano, anzi divino entusiasmo di fantasia da capo a piede, e se ’l Tasso
risuscitasse rifarebbe la sua su questo modello, e si terrebbe a onore",
"questa è la proprietà di maggior forza che io abbia inteso in alcuna di
quelle poche lingue delle quali ho cognizione e V. S. se n’è servito per
divinità", "si trova a bastanza di che impazzare in legger quest’ottava
dal gusto e dall’ammirazione", "tutto inarrivabile"; e poi
aggiunge: "Ma se io volessi reparare tutte le cose belle bisognerebbe
copiar tutto: mi protesto però che mi do per vinto, e di qui avanti osserverò
solamente per dir male", ma poi: "Questa [ottava] m’obbliga a romper
subito il proposito, e dire: viva il Signor Gabriello", e: "tutte
cose che fanno rompere il proposito di non fermarsi a far maraviglie",
infine: "mio Signor Gabriello, io vo in visibilio da servitore".
______________
Ci furono altre persone,
che, al di là di una generale attesa, seguirono l’opera del Fasano,
direttamente44, e prima della stampa, quando brani de Lo Tasso
napoletano erano letti nelle case dell’aristocrazia letteraria napoletana,
come avvenne - si è nel 1682, e l’opera era appena finita dopo due anni di
lavoro - nella casa del principe di Ottaviano, dove ne sentirono degli
"stralci" sia il Magalotti che il Valletta, che ne parlarono,
entusiasticamente e separatamente, in due lettere45.
Tutti questi consulenti
affrontarono col Fasano un altro problema, quello della scrittura di questa
lingua. Problema spinoso e controverso che accompagnò l’intera stesura
dell’opera e che fu affrontato con scrupolo puntiglioso, fu dibattuto tra gli
amici, anche forestieri e fiorentini, come emerge dalla sua introduzione. Qui
infatti il Fasano afferma che se la lingua napoletana è "dolce e graziosa
a sentirla parlare", è "ammara e sgraziata a ssaperla scrivere e
lleggere", e parla di una diatriba incorsa con chi voleva che il suo dialetto
fosse scritto come "l’antico", mentre egli ha preferito scriverlo
"come si parla", esclamando: "Bella cosa che io havesse da
scrivere non voglio quanno dico non mmoglio". Ancora dice che "i
forestieri trovano scritte le cose [napoletane] mezze toscane e restano"
poi "meravigliati quando sentono parlare un napoletano" e di aver
fatto la prova costatando che il forestiero legge il napoletano "come lo
trova scritto"; che ha capito i problemi di scrittura di questo vernacolo
sentendo leggere un "vertoluso forestiero"; che mentre traduceva ha
osservato che, dopo la e verbo o congiunzione, "sempre bisogna
raddoppiare", così pure per la a, per cui ha dovuto aggiustare il
tiro e ha fatto dei cambi; che tutto ciò lo ha portato alla decisione di
scrivere "come si parla", tanto che le note sono legate proprio a
"questo problema": affinché il dialetto si legga "comme lo
pparlammo". Emerge qui chiaramente un lungo lavoro di lima, di prove e di
riprove, che è un vero e proprio studio della ortografia della lingua napoletana,
ed appare chiaro che sono precisi problemi di pronuncia, caratteristici di
questo vernacolo, a determinare l’ortografia fasaniana46
Questa lunga gestazione
e soprattutto il citato carteggio con gli intellettuali fiorentini, ancora il
fatto che lo stesso Fasano fu consulente di operazioni letterarie dialettali47,
lo mostrano come un accademico impegnato in polemiche e problemi linguistici e
letterari, in grado di disporre di molto tempo da dedicare alla sua opera, alle
sue amicizie e alla vita del letterato gaudente, cosa che concorda benissimo
anche col suo stato clericale48.
_____________________
44. Il Fasano dice nell’introduzione: "Vecco a lo rretro
stampato lo Tasso napoletano. Vecco scomputa chella museca: ’e cquanno
l’havimmo, a cche stammo, a cquale Canto simmo; bella fremma ched haie; e
ccomme sì lluongo; tu nce vuoie fa morì co la semmenta ncuorpo, comm’a le
ccocozze; co mill’autre ntrellocatorie spertecate".
45. Cfr. A. Dardi, op. cit. pp. 66-67 e n. 12. Il
Magalotti così disse al Valletta, l’undici agosto dello stesso anno: "Viva
V. S. Illustrissima mille anni per la buona nuova che mi porta di aver presto a
godere del bellissimo poema del Tasso trasportato, del quale il mio Sig.
principe d’Ottaiano, ebbe la bontà di farmi sentire alcuni squarci, la mattina,
che mi favorì in sua Casa", mentre il Valletta ne aveva parlato al
Magliabechi il 28 luglio: "Qui è comparso un Poema napoletano trasportando
quello del Tasso, ed è mirabilmente riuscito, e fu composto dall’Autore in due
anni, e già s’incomincierà la stampa fra breve e credo inviarnele più d’un
esemplare".
46. Cfr. Introduzione: A ttutta la nnobeltà..., cit.
Alla dizione è ancora è legato il raddoppio iniziale e la s impura (di
"spertosare"), che deve essere pronunciata con un fruscio come se ci
fosse dopo una c (cosa che non potendo essere indicata graficamente,
viene dall’autore sottolineata nelle note introduttive. Circa le critiche che
il Fasano subì per questa sua ortografia v. ultra.
47. Antonio Parrino nella prefazione della traduzione
dell’Eneide in dialetto napoletano dello Stigliola dice che l’autore ne aveva
fatte vedere alcune ottave a "Gabriele Fasano di eterna ed immortale
memoria" (cfr. M. G. Marotta, op. cit., p. 213).
48. Meno aderente gli è la figura del mercante di seta, notizia
riportata dal Marotta (op. cit.), che giustifica così i suoi viaggi, e
dal Milano (op. cit.) che, come si è detto, lo confonde con un suo
omonimo mercante cavese. Va detto però che, poiché il Fasano realmente stette a
Vietri-Cava, potrebbe essere stato impegnato in questa attività, visto che la
produzione della seta era molto diffusa in questo centro, e vista la probabile
parentela col suo omonimo.
|
3. L’opera, curata dallo stesso Fasano con tre note
introduttive e stampata nel 1689 per i tipi del Raillard49, si
qualifica come un’edizione di lusso, illustrata da venti figure, una per ogni
canto, incise in rame, che si riferiscono al tema in ciascuno trattato, più una
di introduzione, l’antiporta, illustrate da Giacomo del Po50.
Quest’ultima rappresenta, in primo piano e seduto su di una spiaggia, il
Sebeto, con alle spalle il cavallo, emblema di Napoli, al centro, una Sirena e
dei delfini emergenti dal mare con sullo sfondo un pittoresco scorcio della
collina di Posillipo, in alto, la fama che suona una tromba e regge un lungo
nastro dove è scritto il titolo del libro e il nome dell’autore. La prima
pagina di ogni canto è ornata di ghirigori che incorniciano anche l’ottava
dell’argomento del canto, pure essa traslata in napoletano. La traduzione ha il
testo tassiano a fronte ed è illustrata da preziose note esplicative51.
L’opera ebbe l’imprimatur
col duplice giudizio del revisore ecclesiastico, il canonico Antonio
Celano, che sottolinea: "stili candorem, et vim nostrae vulgaris
Neapolitanae Locutionis", e di quello regio, Giuseppe Valletta, che dice:
"ne ho ammirato ancora l’ingegno; e gran lode, e obligo se li deve in
haver fatto anche felicemente parlar in tal lingua il Tasso"52.
Gabriele Fasano, che fu
anche autore di sonetti in napoletano come quello inviato al Redi53,
forse di altre traduzioni54, e che potrebbe aver avuto anche un
imitatore55, morì a Vietri nella frazion e Dragonea, a cui
apparteneva la chiesa di S. Maria di Vietri, nel
Nel 1706 Lo Tasso
napoletano ebbe una seconda edizione, a cura di Michele Luigi Muzio,
dedicata alla duchessa di Laurenzano, Aurora Sanseverino, senza il testo
italiano e con semplificazione della ortografia e di due ottave e senza la
spiegazione delle voci57. Nel 1720 ci fu un’altra edizione, simile
alla prima, stampata da Francesco Ricciardi, di cui si è detto58.
Una nuova edizione si ebbe nel 1786 ad opera del Porcelli nei volumi XIII e XIV
della sua raccolta di autori napoletani59, e nel 1835
Queste edizioni dicono la
fortuna del Fasano, che è legata in parte alla citazione del Redi, ed
essenzialmente all’importante contributo linguistico. Del Fasano parlò per
prima il Celano - aveva espresso il giudizio per l’imprimatur - nel
1692, quando disse: "erudito [...] delizia ed amore degli amici, che con
rara giocosissima industria volse nel festevole nostro dialetto
____________
49. Il titolo completo dell’opera è Lo Tasso napoletano:
zoè
50. Di questa editio princeps dice il Galiani
"fu il primo libro del nostro dialetto che comparisse non villanamente stampato"
(F. Galiani, op. cit., Roma, 1970, p. 146). V. pure F. Fusco, La
"legislazione" sulla stampa nella Napoli del Seicento in Civiltà
del Seicento a Napoli, Napoli, 1984, pp. 472-473.
51. Le note contengono il significato e l’origine di molti
termini, anche di recente coniazione, e di vocaboli spagnoli entrati nella
lingua napoletana o napoletanizzati, la spiegazione dei detti e dei proverbi
usati nella traduzione, l’illustrazione dei luoghi o dei personaggi napoletani
citati. V. ultra.
52. Op. cit. Il Celano, che conobbe il Fasano, lo
chiamò: "eruditissimo", il Valletta invece reputò il lavoro
"degnissimo di esser dato alle stampe" (ivi). Dice il Celano: “Magna
cum animi iucunditate, et attenzione perlegi librum, censura mihi commissum,
cuius titulus Tasso Napoletano: autore eruditissimo Gabriele Fasano in hoc
compositionis genere hac tempestate nemini secondo, et in eo, non solum nihil
quod Fidei puritati, vel bonis moribus resistat, inveni, sed styli candorem, et
vim nostrae vulgaris Neapolitanae locutionis”. Il Valletta invece dice: “Non
solo non ho trovato cosa ripugnante alla Regal Giurisdizione, ma ne ho ammirato
ancora l’ingegno, e gran lode ed obbligo se li deve in haver fatto anche
felicemente parlar in tal lingua il Tasso in quel sublime e gran Poema tradotto
in tante e diverse lingue, e però lo reputo degnissimo di essere dato alle
stampe”.
53. V. supra. Il Martorana (op. cit., p. 434)
ne cita uno dedicato in lode di Giovanni Battista Palo pubblicato dallo stesso
nella Descrizione della terra di Palo (Napoli, 1681).
54. Antonio Giliberti, solerte ricercatore delle opere dei
suoi conterranei, parla di "altre sue poetiche traduzioni" (op.
cit., p. 50 n. 1). Anche Mario Sansone parla di un’altra sua traduzione,
l’Aminta (Relazione fra la letteratura italiana e le letterature dialettali in
Letterature comparate, Milano, 1948, p. 297, n. 40).
55. Tale può considerarsi la tragicommedia sacra (il Fasano
era intenditore di teatro) in dialetto napoletano,
56. Archivio Parrocchiale di S. Pietro a Dragonea, Libro
dei morti, s. a. In questo archivio ci sono due atti di morte a nome
Gabriele Fasano, che corrispondono ai due Gabriele contemporanei, in uno
infatti è annotato: "iste est qui composuit Tassi lingua
neapolitana" (corsivo aggiunto per sottolineare come lo scrivente abbia
voluto fare una distinzione). Questo atto fu sicuramente letto dal Giliberti,
che per primo dette il luogo di morte del Fasano.
57. L’edizione ha incisioni in legno e sul frontespizio
interno due amorini che sostengono lo stemma della famiglia Sanseverino e
avanti Ercole che uccide l’Idra.
58. L’edizione ha un’aggiunta "co lle figure de lo
azzellente segnò Bernardo Castiello. Corrietto e restampato pe seconnà lo gusto
de lli vertoluse". Di questa edizione dice il Martorana: "non
conosciuta né dal Galiani, né dall’Altobelli, né dal Porcelli" (op. cit.).
59. L’editore afferma di aver fatto "comparire alla
luce" un’opera "della quale già si era perduta la memoria", non
trovandone copia "della bellissima edizione", e della ortografia
dice: "forse così si usava a quei tempi".
60. Cfr. P. Martorana, op. cit.
61. L’opera è stata pubblicata in due volumi a Roma nelle
Edizioni di G. e M. Benincasa.
62. L’opera del Celano (cit.) ebbe una stampa nel 1859 con note
del Chiarini.
63. Cfr. F. Oliva, Grammatica della lingua napoletana
(manoscritto presso
66. Il Galiani dice del Fasano: "Nella sua magnifica
edizione del Tasso entrò in un impegno strano di esprimere coll’ortografia
tutte, anche le più insensibili forze date alle consonanti, tutte le elisioni
delle vocali, tutti i raddolcimenti o suoni incerti di sillabe che l’uomo più
grossolano del volgo nostro avrebbe fatti, se fosse stato obbligato a
pronunciare quei suoi versi. Ne risultò un così spaventevole accozzamento di
consonanti raddoppiate, di apostrofe, di accenti circonflessi e di lettere
sovrabbondanti che quasi non restò parola che paresse italiana" (cfr. Del
dialetto napoletano, a c. di E. Malato, cit., pp. 42 e sgg.; altre
edizioni: Napoli, 1779,
67. Cfr. D. Scafoglio, Nazione e popolo nella questione
del dialetto a Napoli nel secondo settecento in L. Serio, Risposta al
Dialetto Nnapoletano dell’Abate Galiani, Napoli, 1982, pp. 26-28.
___________
Nel secolo scorso Pietro
Martorana fornì una prima disanima delle edizioni dell’opera fasaniana senza
dare dati biografici69, che invece furono forniti per la prima volta
da uno studioso solofrano, il latinista canonico Antonio Giliberti70,
mentre ne parlarono il Capasso71, l’Imbert72 e il Fermi, che citò per la prima volta il giudizio del
Magalotti sulla traduzione del canto XVI73 .
Nella prima metà di
questo secolo Benedetto Croce, nei suoi studi sulla letteratura del Seicento,
sottolineò l’operazione dialettale del Fasano e nelle note alla edizione da lui
curata del Cunto de li cunti del Basile più volte citò le scelte
lessicali fasaniane, e si mostrò interessato per le notizie "di persone e
cose di quel tempo" di cui sono ricche le note fasaniane74.
Inoltre questo autore fu introdotto in storie letterarie di questo periodo, per
esempio quelle del Torraca e del Belloni, che lo menzionarono tra i traduttori75,
mentre l’Enciclopedia Treccani ne parlò, ad opera del Nicolini, alla voce Napoli
circa quella letteratura dialettale76.
Più recentemente il
Fasano è stato incluso in vari studi sul Seicento e sulla poesia dialettale
napoletana ad opera del Sansone che, ponendolo tra i traduttori - tra le
"più note traduzioni" - , sottolinea il tentativo di questi autori di
"trasportare i più alti fastigi della letteratura nazionale" nella
lingua e nella cultura locale e lo "sforzo di innalzamento e di
ripulimento linguistico"77; del Malato, che inquadra la
versione del Fasano nella "migliore produzione letteraria colta",
sottolineando il "tono dignitoso talvolta persino elevato"78;
del Nigro che collega l’opera del Fasano a quella dello Stigliola e individua
"un capovolgimento della operazione letteraria del Cortese", e cioè,
non "riconquistare alla tradizione letteraria il mondo popolare",
bensì "calare la tradizione letteraria in un provincialistico
riadattamento dialettale a metà tra volgarizzamento e parodia"79.
Inoltre il Fasano è citato negli studi sul Redi, sul D’Andrea e sul Magalotti,
fino all’importante recupero del Dardi.
Tra gli studi locali, ci
sono ancora quelli del solofrano Giuseppe Di Donato80, del salernitano Giovanni De Crescenzo81 e c’è la recente Storia Illustrata di Avellino e
dell’Irpinia82.
Infine bisogna dire che
il Fasano è menzionato in diversi dizionari napoletani - dei quali è afferente
- come scrittore aulico insieme al Cortese, al Basile, al Capasso83, nella guida di Gino D’Oria84 e nel Dizionario biografico degli italiani ad opera
del citato Marotta.
_______
69. V. op. cit. Si parla del Fasano alle pagine
189-191, 412 e 434.
70. Nella citata opera il Giliberti, che in versi latini con
traduzione a fronte parla delle glorie locali, dice del Fasano: "Est
Gabriel coram facie ridente Fasanus. / Non semel aonio deduxit carmina ritu, /
Consule digna. Redus justis hunc laudibus effert / Ipse
satis. Bacchi devolvens ludrica Thusci, / Invenies vatem quanti fecisset
amicus. / Carmina Torquati famosa, Neapolis iste / Vertens in dialectum,
exornnat sponte lepore / Cantus festivo, sic ut mirantur ubique". E poi trasporta in
lingua il testo "Veggo il Fasano Gabriel di contro / In un contegno di
leggiadro riso. / Carmi sovente armonizzava anch’Egli / Degni de’ fasci
consolari. A cielo / Redi medesmo ben lo leva. Il ludrico / Bacco in Toscana di
Costui, se leggi / Quanto apprezzasse il suo Fasan vedrai. / Ei gl’immortali di
Torquato canti / In veste, che lor diè, partenopea, / Mostra conditi di lepor
festivo, / Spontaneo, e franco, sì che ogni uom stupisce" (pp. 50-51).
71. Sulla poesia popolare in Napoli, in ASPN, VIII,
1883, pp. 316-331.
72. Bacco in Toscana di F. Redi e la poesia ditirambica, Città di
Castello, 1890, pp. 33 sgg., 87, 113.
73. S. Fermi, Lorenzo Magalotti scienziato e letterato,
Piacenza, 1903, p. 175.
74. Cfr. B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del
Seicento, Bari, 1911, p. 89 e Nuovi saggi..., cit., pp. 251-253.
Delle note del Fasano il Croce ricorda quelle che citano banditi o briganti del
tempo (Santillo d’Abruzzo, Marzocca, i tre Marcanciani del Cilento), militari
napoletani (Emanuele Carafa, Ottavio Caaracciolo, Geronimo della Croce),
personaggi curiosi (l’abate Ascanio da Salerno, Muzio Fionda); mostra
inoltre di apprezzare quelle che spiegano l’origine di alcune parole
("streverio") o espressioni ("novella di Barletta",
"spara Santillo") del dialetto napoletano. Lo studioso napoletano
inoltre sottolinea che J. E. Taylor nel tradurre il Pentamerone del
Basile si servì delle note fasaniane (Saggi..., cit., p. 85).
75. Cfr. Torraca, Manuale della letteratura italiana,
III, Firenze, 1926, p. 156; A. Belloni, Storia letteraria d’Italia. Il
Seicento, Milano, 1929, p. 246.
76. Op. cit., XXIV, p. 253.
78.E. Malato, La poesia dialettale napoletana, Napoli,
1960. “Con Gabriele Fasano la musa dialettale napoletana riesce finalmente ad
esprimersi in tono dignitoso talvolta persino elevato, anche in opere non
originali quali la versione in vernacolo della migliore produzione della
letteratura culta”.
79. S. Nigro, Dalla lingua al dialetto. La letteratura
popolaresca in, La Letteratura italiana. Storia e testi. Il seicento,
V, II, Bari-Roma, 1974, p. 472.
80. Cfr. G. Didonato, Solofra nella storia, Messina,
1923, pp. 127-128.
83. Cfr. F. Cherubini, Vocabolario patronimico italiano,
Milano, 1860; R. D’Ambra, Vocabolario napolitano-toscano, Napoli, 1873 e
A. Altamura, Dizionario dialettale napoletano, Napoli, 1956.
84. Cfr. Le Strade di Napoli, Napoli, 1965, pp. 14,
236, 407 (è citato un verso del Fasano), 442 e 510.
|
4. Lo Tasso napoletano fa parte di quella letteratura dialettale
che il Croce chiama "riflessa o d’arte", perché prodotta da eruditi e
letterati85; e che ebbe particolare rilievo proprio nel Seicento,
perché in questo secolo si sentì una forte "disposizione aristocratica nei
confronti del dialetto", che portò ad un "crescente interesse per
un’analisi delle condizioni linguistiche popolari", e che, per il
napoletano, si colorò di una contrapposizione verso la lingua toscana86.
Si è infatti anche visto che l’operazione fasaniana, entrando pienamente in
tale clima, fu una dimostrazione delle possibilità del vernacolo napoletano
proprio contro quella la lingua. In effetti si avvertiva un contrasto tra i due
idiomi, determinato dalla pronuncia, dalle inflessioni, dall’ortografia, dai
termini, dalla napoletanità, elementi che fecero affermare, in quel tempo al
Bouchard "que le française ou l’espanol ont plus ou moins autant de
conformité avec elle [il napoletano]" che la lingua toscana87.
Questa letteratura fu
però caratterizzata, dice ancora Croce, dalla "lieta accoglienza"
nelle altre regioni d’Italia e fu priva, contrariamente a quanto potrebbe
sembrare, di qualsiasi disposizione rancorosa88. Questo fu lo
spirito - aperto al mondo non napoletano e in leale competizione proprio con
dei toscani - con cui il Fasano affrontò la traduzione, nella quale fu attento
alla comprensibilità del suo vernacolo, per esempio quando si pose il problema
delle "schiarefecaziune" [chiarificazioni], di cui arricchì l’opera,
"pe cchiù ntellegenzia de li frostiere"89.
Soprattutto l’autore non
ebbe alcuno spirito di opposizione verso la letteratura nazionale. Come ha ben
detto il Sansone, le letterature volgari vissero in stretti rapporti con la
grande letteratura nazionale, la sottintesero, nacquero da essa, furono
"il frutto non dell’autonomo sviluppo di una cultura locale", bensì
del "trapiantarsi di quella nella vita spirituale della regione",
"ricevendo assai più che dando", arricchendosi in un competere che è
senz’altro fecondo per il vernacolo il quale dalle esperienze delle traduzioni
uscì rinvigorito90. E questo è avvenuto nell’opera fasaniana, dove
l’atteggiamento colto dell’autore valorizza la ricchezza e l’adattabilità del
vernacolo napoletano, e dove non c’è né distacco nè accademismo, ma trasporto e
adesione completa al testo tassiano.
________________
85. B. Croce, Nuovi saggi..., cit., pp. 241-245
86. Cfr. A. Quondam, Dal manierismo al barocco in Storia
di Napoli, Napoli, 1970, V, pp. 351 e sgg.. V. pure M. Sansone, op. cit.,
pp. 261 e sgg.
87. Cfr. B. Croce, Nuovi saggi..., cit., pp. 241-245.
88. Cfr. B. Croce, op. cit.
90. Cfr. M. Sansone, op. cit.,
pp. 279-287.
______________
Lo Tasso napoletano è esattamente quello che dice il titolo: un’interpretazione
napoletana della Gerusalemme, un "vestire" Tasso di
napoletanità ("de t’havè fatto st’autro vestetiello"), che è riscatto
e rivalutazione della cultura popolare. Il risultato è tutto a favore del dialetto,
perché lo scrupolo stilistico, favorito dal contendere col grande poeta, gli
dona un suggello di dignità, come se il tuffo del Tasso nella popolanità
napoletana divenga scoperta e rispetto del patrimonio linguistico di questa
cultura. Scoperta di un vernacolo che si mostra capace di esprimere non solo la
realtà quotidiana, ma, con la pregnanza delle sue forme narrative e delle sue
figure retoriche, tutta l’originalità dello spirito napoletano. Inoltre la sua
caratteristica fortemente sentenziosa ma di aperta aderenza alla vita, la sua
genuina semplicità pur nelle espressioni profonde, la sua forza, capace di far
scaturire brio e spensieratezza dalla rappresentazione della realtà, creano una
schietta atmosfera partenopea che dimostra che non è avvenuto alcun
appiattimento della materia popolana su quella aulica.
All’uso partecipato e
ricco del dialetto - (i "toscani inchiostri" di Tasso diventano
affettivamente "sti vierze mieie de carne e ffoglia" del Fasano) - si
aggiunge il fatto che la vicenda è introdotta tutta nel napoletano - molti
luoghi e diversi personaggi sono quelli dell’ambiente di vita dell’autore91
- che costituisce un denso habitat. E il Fasano, mettendo il testo
tassiano a fronte, aiuta a seguire questa trasformazione, facendo nello stesso
tempo scoprire un altro motivo che guida la traduzione, "giocosa"
dice, cioè determinata da un bisogno di celia, quel "decrìo", di cui
il Fasano quasi si scusa. E che invece è espansività cordiale, soleggiata e
festosa, intinta spesso di maliziosa ironia, e una gara piena di gusto
napoletano; è la "galanteria spiritosissima" di cui parla il Redi ed
è il "lepor festivo" indicato dal Giliberti; è tutto questo insieme e
dà ragione delle affermazioni di "godimento" espresse dal Magalotti.
Se si tiene presente a
questo punto che il citato Bouchard, che studiò questo dialetto proprio
all’epoca del Fasano, ebbe a dire che gli scrittori in questa lingua non
saprebbero scrivere tre righi senza usare qualche parola da taverna e da
bordello, e che essa si riduce a trattare una materia bassa e oscena92,
si ha la possibilità di aggiungere un altro dato all’opera fasaniana.
Si osservi la
trasposizione della prima ottava, che non si distacca dal testo, e dove
l’innesto prettamente dialettale non ha alcuna volgarità:
Canto
l’arme pietose e ’l capitano, che
’l gran sepolcro liberò di Cristo: molto
egli oprò co ’l senno e con la mano, molto
soffrì nel glorioso acquisto: e in
van l’Inferno vi s’oppose, s’armò
d’Asia e di Libia il popol misto; il Ciel
gli diè favore, e sotto a i santi segni
ridusse i suoi compagni erranti. |
Canto
la santa mpresa, e la piatate, c’happe
chillo gran homo de valore, che
ttanto fece pe la libbertate de
lo sebburco de nosto Segnore. e in
vano Nò nce potte lo Nfierno, e tant’armate canaglie
nò le dettero terrore; ca
l’ajotaie lo Cielo e de carrera l’ammice
spierte accouze a la bannera. (I, 1). |
In questa altra stanza
il sintagma del linguaggio aulico ("spera stellata") o il riferimento
letterario, reso in dialetto ("Pruto"), donano una nota di garbata
simpatia al termine plebeo ("pesciazzosa"), sottolineata
dall’atteggiamento di Dio, pieno di gustosa plasticità:
E
’l fine omai di quel piovoso inverno, che
fea l’armi cessar, lunge non era; quando
da l’alto soglio il Padre eterno, ch’è
nella parte più del Ciel sincera, e
quanto è da le stelle al basso inferno, tanto
è più in su de la stellata spera; gli
occhi in giù volse e in un sol punto, vista
mirò ciò ch’in sé il mondo aduna. |
La
pesciazzosa e pessema mmernata scompea,
che ll’armezare havea mpeduto, quanno
fece Dio Patre na mmirata da
ncoppa ncoppa addove sta seduto, tanto
cchiù ad auto a quanto
stace da chesta abbascio Pruto. Nne
nattemo vedette e nnuna vista ogne
ncosa a sto munno e bona e trista. (I, 7). |
Si veda ancora la
descrizione di Armida in compagnia di Rinaldo ("Tutta vruoccole e cciance,
e la faccella / parea nfra lo sodore cchiù abbampata. / Havea no riso a
ll’uocchie, la scrofella, che la lossuria nce tenea adacquata"), dove il termine
"scrofella", ingentilito dal vezzeggiativo, non stona nella
"sensualità elegante" dei versi tassiani93. Altrettanto avviene nel biasimo di Goffredo verso gli
infedeli ("Zappature schefienze e cca bottate a cauce nculo e cco na funa
ncanna") (XX, 16), dove le parole sconce acquistano nettezza nel rilievo
dei rozzi contadinotti mandati alla guerra a calci e legati, quali asini, con
la fune al collo.
________
91. Tra i numerosissimi esempi, che si possono cogliere anche
nelle pagine seguenti, qui si cita il fatto che i "latini" tassiani
sono sempre detti dal Fasano "napoletani" (lo stesso Tancredi afferma
io "non son di quelli, sò nnapoletano" XIII, 34), che le streghe sono
quelle di Benevento (XIII, 4), che il Po diventa il Sarno (XIII, 59) e, una per
tutti, al posto della tassiana "alta foresta densa di alberi" c’è la
napoletana selva "de santo Martino" (XX, 29).
92. B. Croce, Nuovi saggi..., cit., pp. 241-245.
94. T. Tasso,
________
Il risultato più
evidente di questa nobilitazione è che persino le espressioni forti e crasse,
di cui è pieno l’idioma napoletano e che il Fasano usa, non sono mai volgari,
perché non è tale lo spirito. Il vernacolo fasaniano, infatti, è privo di
sguaiatezza gratuita, di indugio lascivo, è invece una lingua genuina e
"di valore", che si motiva anche quando usa l’allusione e la
canzonatura, pure ingiuriosa.
Basti considerare le
invettive, che sono una modalità ineliminabile della lingua parlata per
l’immediatezza e il forte impatto espressivo, e che favoriscono una densa
salacità: la parola dispregiativa fasaniana, nell’atmosfera rarefatta e
leggermente canzonatoria che fa da filtro, perde qualsiasi carica negativa. Ciò
avviene persino con le espressioni più basse, quelle per esempio pronunciate da
Rinaldo che incita i suoi a far vendetta di Dudone ucciso da Argante
("Facimmo che nce tenga proprio nc... sso spaccone, ssa bestia
mmaledetta") (III, 50), oppure quelle che, nella contesa tra onore ed
amore, il primo dice ad Erminia:
Donca tu nò nce fai cchiù ddefferenzia da na femmena bona a na pottana e buoie de notte a cchillo ghi mpresenzia azzò te dia battaglio a ssa campana? E ppe cchesto te dica: ‘sciù schefienzia, farria cchiù ppeo de te na cortesciana?’ Scria da ccà, guitta senza cellerviello, tu nò nsi cchella cchiù, va’ a lo vordiello". (VI, 72). |
che si pongono, le
prime, nell’atmosfera di "straziante durezza" e "di
ferocia", determinata dalla indifferenza guerriera di Agante e, le
seconde, nello spirito di decisa sollecitazione che lo stesso Tasso crea.
Si vedano invece due
invettive di Armida contro Rinaldo che sono solo una protesta, aspra
Zeffonna
nfammo, e ppuozze stà contento comme mme lasse, scria facce de mpiso Nò
nne sperà d’havere maie cchiù abbiento, e
tte nn’hai da pentì de n’havè ntiso" (XIV, 58). |
o più gustosa
Cano
partiste e ccano e mmiezo tuorne. Ma
che buoie cchiù nnegrone de negrone? [...]
nfammo forfantone? Be
ssaccio quanto pise") (XX, 131), |
e si consideri quest’altra decisamente sarcastica
ah, zzellose mmardette, che
mmettite co no chiantillo ll’huommene a la corda. |
Le invettive facilmente
diventano epiteti, allora il termine ricorrente è "cane" o qualche
suo sinonimo come "perro", allora gli infedeli sono detti "ladri
ubriaconi", "caca cauzuni", "gradassi",
"cornuti", "diavoloni", "zannuottoli", e tanti
altri sono chiamati "coppoloni". Se a questo punto si considera che
gli appellativi "smargiasso", "guappo" e
"squarcione" sono propri del gentiluomo vanitoso napoletano e in
genere esprimono quella caratteristica benevolmente istrionica che usa il gesto
esagerato e sussiegoso, e se si tiene presente che questi attributi vengono
dati agli eroi e ai guerrieri; se ancora si confronta l’epiteto attribuito ai
fiorentini, "chaha faggioli" che, insieme a quello rivolto ai
napoletani, "caca foglie" o "mangiafoglie", unisce senza
alcuna acredine, in una comune definizione, due popolazioni a quell’epoca fieramente
nemiche; se si considera tutto ciò si coglie lo spirito con cui il Fasano fece
la sua operazione, la naturalezza di cui parla il Magalotti, che è spontaneità
affettiva ed è sfuriata piena di benevola simpatia.
In questa atmosfera si
collocano le imprecazioni, efficacemente pungenti: "chillo canna de
chiaveca d’Argante (XI, 60), "mannaggia ll’arma de li muorte tuoje"
(XX, 110), "jate a la forca malantrine" (XX, 108), "chille
puorce nchiuse" (VI,1), "Dio mme nne scanza da sto vetoperio"
(VI, 10), e si pone l’improperio, non meno intenso, di "brutto
traditore", detto a Ormundo che, travestito da cristiano, sta per uccidere
Goffredo (XX, 44), o quest’altro allegramente significativo: "crepa mo si
staie sotta e nò mparlare" (I, 51).
L’epiteto fasaniano è
spesso canzonatorio, nella definizione di una caratteristica o nella
sottolineatura di un difetto, stilema saliente della napoletanità. Così gli
infedeli sono definiti "guapparia de lo Levante" (XX, 109) e i
Crociati dispregiativamente "sta mmarcata" (I, 29); così "la
gente rivale" è detta "arraggiosa" (XX, 62), i principi, che non
s’affrettano a prendere Gerusalemme, "nzallanuti", il tiranno, che
freme, "na cana fegliata" (II, 25); così ai preti burlescamente è
attribuito il termine di "scolacarafelle", sottolineando, quasi come
vizio, il bersi il vino che resta nelle ampollette della messa; così alla
"gente candida e bionda che tra i Francesi e i Germani e il mare
giace" tocca una sfilza di proverbiali improperi: "razza [...] de
pescature, / cape de stoppa e facce de vammace" (I, 43). Nelle arguzie
fasaniane non c’è differenza tra fedeli e infedeli, infatti se Argante è
"lo guappone, lo gradasso" (III, 44), "guappone" è anche
Rinaldo che, "nfra mille guittarie, ncoccagna / de la fede crestiana"
(XV, 44), se ne sta prigioniero di Armida, detta graziosamente
"chiappina".
Per terminare l’arco
dell’apostrofazione fasaniana bisogna dire che, come membri di un’allegra
brigata, i compagni di guerra sono detti "compagnoni", che seriosamente
il messo divino è detto "gioia celeste", e Dio "lo gran
patrone", mentre gli attributi al femminile "vaiassa" o
"pottana" non si allontanano molto dal senso delle più giocose
"cocozza pazza mia", "bella mariola", "smargiassa
bella", o della più gentile "gioia bella".
Un’altra caratteristica
del dialetto napoletano, che aiuta molto la giocosità, è la deminutio,
che permette di degradare il carro di guerra a "carretta", il corno a
"cornetta", di trasformare il petto trafitto in "lo pietto
fellato [...] che no mosaico antico te pareva" (I, 53), la
"menzogna" in una "papocchia", la "disfatta" in
"sconquasso"; di mutare allegramente la guerra in un
"ballo", l’arsura in una "boglia de sciosciare" (VI, 109);
di ridurre uno stuolo di soldati a "na morra", persino di raffigurare
realisticamente un ferito che cade, in uno che va "arretecando";
mentre il "fer circasso", che "a guisa di leon quando si
posa" sta con il re dei Turchi e i cavalieri, diventa un gallo in un
gallinaio ("stea de viso amaro / pocc’isso gallejava ogne ggallina / e mmo
sò dduie dinto no gallenaro") (X, 56) e Clorinda, una "pollanca
apparze mmiezo a mille galle" (III, 21).
In questa dimensione
piena di cordiale derisione la schiera di Stefano di Amboise "fa na gran
parapiglia a primma botta, / ma priesto torna co la capo rotta" (I, 62);
l’immagine "bella e guerriera" di Clorinda, che Tancredi "serbò
nel cor", in modo molto meno elevato ma senz’altro divertito, "pe
ll’uocchie a lo core se nfeccaie" (I, 48); il "licor", che
Ismeno sparge sulle ferite di Solimano, si trasforma in: "n’uoglio pe
l’addolcì chillo nce mena / zoffritto a la locerna, creo, co aruta" (X,
14); e Tancredi, "magnanimo eroe" che "appresta alla fiera
tenzon l’arme e l’ardire", diventa un tarantolato ("Venne a Tancrede
po la tarantella / e l’arraggia da ll’ogna de li piede, / e sghizza comm’a
ccecere da sella") (VII, 37).
Se i "modi
dolcissimi" con cui Rinaldo risponde alle parole amare di Armida sono rese
con "nzuccherate chiacchiarelle" (XX, 134), che contrasta col dramma
che si vive; se "il vago desio" di amore diventa culinariamente:
"mmocca pe cchella fa la spotazzella"; se Argante, desideroso di
gettarsi nella mischia, "ll’ermo ncapo se schiaffa" (XX, 74); se
Tancredi, che arriva al castello di Armida, si sente dire "comme te fece
mammata te spoglia" (che traduce il tassiano "or l’arme
spoglia") (VII, 32); se la battaglia è un "fare fracasso" (I,
70) o un "fare na sferrazata"; se al Tasso che dice: "pugnar dee
col cavalier d’Egitto", Fasano risponde: "s’have Argante da levà da
tuorno" (VII, 26), e al tassiano: "è questa destra a far di te
vendetta", corrisponde il fasaniano: "e dda mo, fatte cunte ca sì
ghiuto" (VII, 34); se si usano espressioni come: "lo pover’hommo vede
la frettata" (XX,70), "a la primma nfornata", "s’addona
ch’era miezojuorno" (XIV, 20), si comprende come l’operazione di
traduzione in dialetto fu anche un divertimento - per l’autore e per i suoi
committenti - , che dà piena valenza a quel "decrìo" di cui parla,
come si è detto, lo stesso Fasano, senza nulla togliere alla serietà della
operazione. Il mondo eroico è divenuto vita quotidiana, plebea, però di
immediata simpatia, e di spontanea e franca giovialità.
Un benevolo scherno c’è
in questi interrogativi sul cadavere di Rinaldo creduto morto sottolineato
dallo scherzo ortografico che unisce "imbroglione" con
"Buglione" e "babbuino" con "Baldovino":
Oh
Dio, povero cavaliero, e
mmanco l’atterraieno, o canetate! Vorrissevo
saperenne lo vero chi
fu? Nò lo sapite? E addove state? Chi
nò nsa a sso Mmroglione, e Babbovino quanto
le caccia ll’uocchie no Latino?". (VIII, 67). |
In questa stessa
dimensione c’è chi arriva "a rrumpe cuollo", chi "senza scarpe e
cauzette se cammina" (III, 7), chi cade "comm’a no sacco de
craune" (VI, 32), chi "la capo se raspava" (VII, 14), chi
"ncapo arravogliaise doie mappine" (VII, 17), chi "pe n’essere
schiavo o vero mpiso / fellà se fece comm’a ssaucecciuone, chi "va
cercanno arraggiato p’ogne lluoco chi lo fece ghi nterra tunno tunno (XX, 87),
chi vuole "schiaffà ncanna a te ste ppaparotte (II, 29), chi
comanda di "scornare ssi frabutte" (XIV, 23).
Gustoso è lo sfilare
degli eroi cristiani sotto lo sguardo di Dio dove tutti, da Goffredo, che
spende i suoi averi per cacciare da Gerusalemme i pagani, a Baldovino, tutto
preso dal suo status, a Tancredi, occupato nelle svenevolezze amorose, a
Boemondo con i suoi crucci religiosi, a Rinaldo, che sembra preso da un
irrefrenabile moto convulso, tutti questi eroi hanno comportamenti e
atteggiamenti molto più vicini agli uomini della quotidianità del Seicento
napoletano che ai personaggi del Tasso:
Vede
Goffredo, che caccià vorria da
la santa Cetà chille gran cane, co
na fede e n’affetto tanto granne, che
quant’have, pe cchesto spenne e spanne. Ma
vede a Bardovino nteressato, che
dde lo grado suio stace scontento. Tancrede
pe na Mora spantecato, che,
ccomm’a Giorgio, va malecontento. E
bede Boemunno affaccennato pe
Anteochia soja, e stare attiento, che
li fegliule meza la semmana dican
E nchiochia
se nne va co sto pensiero, che
dd’autro niente cchiù le puoie parlare: Vede
Rinardo, ch’è gran cavaliero, c’ha
li vierme a le mmano e nò mpò stare. Nò
mmò domminie, vo spata e brocchiero, e a tutte quante cerca d’appassare. (I, 9-10). |
|
Tra questi Tancredi è la
figura che solletica di più l’estro del Fasano. Eccolo tra i condottieri che
Goffredo passa in rassegna:
Viene
Tancrede e allegrance lo core, lo cchiù,
fora Rinardo, vencelante, bravo de
mano e buono dinto e fore, bello,
aggarbato, ammoruso e galante. Fece la
mmira a ste gran chelle Ammore, e lo vorze
vassallo e fece amante. Ceca,
voccole, cano, e quanto vide ! de lagreme
te campe, e ngrasse e ride. (I, 45). |
Ed ecco il racconto del suo incontro con Clorinda:
Diceno ca
fu ppropio nchillo juorno, che e le fu
rutto l’uno e l’altro cuorno. Tancrede,
stracquo a darele la caccia, jea
trovann’acqua pe cchillo contuorno ca la
prezzava assaie cchiù de guarnaccia. E male
p’isso asciaie n’acqua a no luoco acqua che
sempe le facette fuoco. Percchè
llà nc’arrevaie na giovenella scoperta
d’ermo ma de l’autro armata ed era
torca, ma parea na stella, e se volea
fa puro na sciacquata. Quann’isso
la vedette tanto bella, se
sentette a lo core na lanzata. O
grannissemo figlio de pottana, nò ntanto
sguiglie, e saie cardà la lana! (1, 46-47). |
Tra i nemici c’è al sapida figura di Solimano, re
sconfitto e pieno del solo sentimento della vendetta, che guida i suoi - una
"arraggiata mmorra" - "comm’a ttanta caparruni", e che,
nella sua ultima giornata dinanzi ai due eserciti schierati, perde l’alone di
nobiltà che il Tasso gli aveva dato con una bella metafora fasaniana: "e
le venne golio nchillo pejatto / mettere de lo ppepe suio no poco" (XX,
74).
Si consideri la scena grandiosa dei Crociati che
all’alba si muovono verso Gerusalemme, consapevoli dell’alto dovere che stanno
per compiere, e profondamente commossi in vista della città, e che invece
sembrano una massa incomposta che strilla incitando a marciare, mentre alle
trombette è affidato il maggior rumore:
Ma va
tiene, si puoi, cchiù sti sordate. Strillano:
’Su a l’allegra, a la bon’hora, a
l’allegra ammarciammo’. E le ttrommette fecero
appriesso po cose mmardette". (III, 1). |
In questa ottica di familiarità divertita si
pongono i paragoni che servono al Fasano anche per superare talune difficoltà
di traduzione. Lo sdegno che cresce è "comm’a na ntorcia a biento
scotolata" (V, 23); la spada di Aladino "cchiù ppeo de n’orca face,
arrasso sia, / che se magna le ggente a mille a mmille" (XX, 79); Armida
inquieta "comme cotta d’ardiche la vediste. / Ma che cotta? Parea la
quarta Furia"; Tancredi e Clorinda si "vatteano comm’a dui
matarazzare" (XII, 55); la spada di Solimano, che ha perduto l’uso suo
proprio, "taglia comm’ a li diente de vavone" ( XX, 97); e gli
infedeli in Gerusalemme stanno "ngaiola, dinto a ste mmura comm’a
papppagalle" (VI, 3).
Ecco due esempi con l’esito risolutivo dell’uso del
paragone:
Con questi
detti le smarrite menti consola,
e con sereno e lieto aspetto; ma
preme mille cure egre e dolenti altamente
riposte in mezzo al petto. Percosso,
il cavalier non ripercote. |
La
facce sazia e la parlata bella tornaie
lo sciato ncuorpo a cchill’affritte; ma
la capo le va comm’argatella, ca
nò mmedea le ccose ghi deritte. (V, 92). Comm’a
purpo lo vatte ed isso zitto. (III, 24). |
La gesticolarità,
caratteristica del napoletano, dà al Fasano la possibilità di creare talune
immagini, come quella del "giovinetto" il cui "cor s’appaga e
gode" per la lode ricevuta, che è reso nell’atteggiamento di chi si
inorgoglisce del proprio valore, rappresentato dal cappello messo di traverso
("le grelleaie lo sango e se ntosciaie, / e lo cappiello ncapo se
smerzaie) (V, 13); come il girarsi indietro di Armida che abbandona la patria,
che è fermato nella figurazione della donna che "ogne ntanto facea na
votata. / [...]e cchiù de ciento vote ntroppecaie" (IV, 54); o come l’immagine
del destriero, che nella battaglia finale "morde e pesta" chi si
salva dalla spada nemica ("l’afferra / a mmuorze e ppo nne fa na pizza
nterra") (XX, 38); mentre "le anime pie", che morendo si
stringono tra loro, sono così descritte: "Ll’uno nziemme co ll’autro se
nzeccava, / spirano nziemme e ll’arme nzecoloro / vanno abbracciate a Dio,
veate lloro" (XX, 100), dove l’esclamazione del traduttore ne riduce tutta
la tragicità.
Ma il napoletano è anche
grazia, tutta usata nella delicata e quasi civettuola figura dell’angelo che
scende a portare il volere di Dio ai cristiani:
Certe
ascelle se fece janche e belle, d’oro
a le pponte, e leggie leggie, e leste; e
spacca viente e nuvole auto nchelle pparte,
e de terra e mare mo co ccheste. Cossì
galante a portà ste nnovelle venne
ccà bbascio la gioia celeste. E a
lo Libbano nnaiero se fremmaje, e le smoppete penne s’acconciaje". (I, 14). |
Non manca tutta la gamma
del parlare diretto, che il Fasano introduce autonomamente dando la prova di
una immediata partecipazione, che è anche dovuta e attenta distanza. Si va da
domande come: "che malanno hai ?", dal napoletanissimo:
"sient tu" di Armida a Rinaldo, o dal vivace: "E mbè che d’è, mo
nò ncanusce Ogone?", alle esclamazioni: "buon tiempo, frate mio, mo
ca ve tocca", alle esortazioni: "che cchiù non faccia simmele
frettate", fino agli epifonemi finali, che spesso concludono le stanze,
come: "Che ddeaschence cchiù nc’haggio da fare, si co le bone perdo, e cco
le ttrite?".
Anche quando si
trasporta il parlare diretto del Tasso gli accenti dialettali risultano intrisi
di confidente affabilità, come quelli rivolti alla Musa: "Musa, nuie che
ffacimmo? Na sferrata / mo serve, azzò nò sia no nzemprecone. / Orsù viene
arraggiata e accomenzammo./ E si lloro frosciaieno e nuie frosciammo" (VI,
39); come le parole dell’eremita a Rinaldo: "Figlio haie sferrate uh
quanta male punte. / Fa no poco co mmico mo li cunte", e poi:
"Figlio, perzò confessate co mmico, / e cchiagne e pprega ch’isso sia co
ttico" (XVIII, 7 e 8); o come il comando deciso di Armida a Tancredi
prigioniero: "O sio chiafeo, / stà zitto lloco, si nò mmuo havè peo"
(VII, 47); persino l’esortazione di Dio a Goffredo, tramite l’arcangelo
Gabriele, è un benevolo ma gustoso richiamo: "ched è mo sta gran tardanza?
/ Fuorze lo peleare è cosa nova? / Gierosalemme ha moppeta st’addanza. / Che
cchiamme tutte a fa la retro prova, / mente: stà tutta a chesta la
mportanza" (I, 12) .
Qui Fasano traduce
un’esortazione tassiana con un comando in cui il risultato è completamente
diverso:
Qui
fa prova de l’arte, e le saette tingi
nel sangue del ladron francese. |
Bene
mio, gioia mia, hommo valente, Spertosame
sso sgubbia de franzese. (VII, 101). |
Anche le parole dell’Arcangelo
Michele ai demoni sono un’aspra rampogna, ma molto più incisiva e gradevole del
discorso lungo e pieno di amplificazioni del Tasso:
O
canaglia, o mmarditte nzempeterno, sapite
Dio da llà si comme trona? Schefenzie,
che la pena v’è ccompagna, e
sempre la soperbia cchiù ve magna. Vuie
potite crepà comme volite ca
la croce ha da stare a ssa moraglia. (IX, 63-64). |
Pur
voi dovreste omai saper con quale folgore
orrendo il Re del mondo tuona o,
nel disprezzo e ne’ tormenti acerbi de l’estrema
miseria, anco superbi. Fisso
è nel Ciel, ch’ al venerabil segno chini
le mura, aspra Sion le porte. |
Qui c’è un gustoso
dialogo che trasforma in rappresentazione istrionesca il racconto tassiano con
l’uso di un detto napoletano di recente conio:
Ogne
llanza, ogne spata esce smargiassa: essa
co ll’arco addesa lo spertosa. Lo
sdigno le dicea "Spara Santillo". Ammore:
" Eilà, che ffaie ? Conservatillo". . Scette
ncampagna contra sdigno ammore. Ammore
viecchio nò nse scorda maje. Tre bote
iette pe sparà e lo core tre
bote le decìe: "Che mmalan’haie?" Ma
che! Rrestaie lo sdigno vencetore, e la
frezza pe ll’aiero nne volaje. Volaie
ma nche lo vuolo fu llontano, diss’essa:
"Oh che mme cioncano ste mmano". (XX, 62-63). |
Chi
il ferro stringe in lui, chi l’asta abbassa; ella
stessa in su l’arco ha già lo strale; spingea
le mani, e incrudelìa lo sdegno: ma
le placava e n’era amor ritegno. Sorse
amor contra l’ira, e fe’ palese che
vive il foco suo ch’ascoso tenne. La
man tre volte a saettar distese, tre
volte essa inchinolla, e si ritenne. Pur
vinse al fin lo sdegno; e l’arco tese, e
fe’ volar del suo quadrel le penne. Lo
stral volò; ma con lo strale un voto subito
uscì, che vada il colpo a voto. |
Ecco l’invito colorito e
arricchito dal detto proverbiale della Sirena ai giovani a vivere accettando
ciò che viene e come viene, che è una vivace traduzione dello fatalismo
partenopeo:
Giovenielle,
mente tale site, ch’ancora
nò v’è sciuto mostacciello, perché
appriesso a la guerra nce perdite, e a
stodeare, e ccuorpo e ccerllevriello? Dateve
mo buon tiempo, che ppotite. E
cch’aspettate, ch’esca lo scartiello? Schialate,
e nò mpenzate a nniente maje, ca
la natura chesto ve mmezzaje. Tornano,
o pazze, ll’anne fuorze arreto ch’accossì
a lo spreposeto jettate? Si
gguappo, si ddottore, si ppoeto, tira
ca vince co ste banetate. […] Coccateve
co bona paglia sotta, pegliateve
lo tiempo ccomme vene: coscia
ccà e ccoscia llà, che s’enchia e abbotta la
trippa, e mmaie pe nniente haggiate pene. Si
trona, e buie dicite: ’Oh, bella botta!’ S’apre
lo Cielo? Secotate: ’Oh, bene’. Chisto
è balore ed è ssapere amabele: si
nò ntinnite, jate a li Ncorabbele". (XIV, 62-64). |
O
giovinetti, mentre aprile e maggio v’ammantan
di fiorite e verdi spoglie, di
gloria o di virtù fallace raggio la
tenerella mente ah non v’invoglie! Solo
chi segue ciò che piace è saggio, e in
sua stagion degli anni il frutto coglie. Questo
grida natura. Or dunque voi indurarete
l’alma a i detti suoi? Folli,
perché gettate il caro dono, che
breve è sì, di vostra età novella? Nome,
e senza soggetto idoli sono ciò
che pregio e valore il mondo appella. Goda
il corpo securo, e in lieti oggetti l’alma
tranquilla appaghi i sensi frali: oblii
le noie andate e non affretti le
sue miserie in aspettando i mali. Nulla
curi se il ciel tuoni o saetti: minacci
egli a sua voglia, e infiammi strali; questo
è saver, questa è felice vita: sì
l’insegna natura e sì l’addita". |
E si osservi questa stanza, definita dal Magalotti "meravigliosa"94, dove l’interrogativo risolutivo del Fasano è un suo modo di usare il parlare diretto per risolvere le difficoltà della traduzione, oltre a mostrare l’atteggiamento dell’autore:
Vezzosi
augelli infra le verdi fronde temprano
a prova lascivette note; Mormora
l’aura, e fra le foglie e l’onde garrir,
che variamente ella percote. Quando
taccion gli augelli alto risponde: quando
cantan gli augei, più lieve scote; sia
caso od arte, or accompagna, ed ora alterna
i versi lor la music’ora. |
Che
nzo nzo nc’è ccà dde resegnuole, che
cconzierte de lecore e cardille. Spira
Franconio e accompagnare vole, co
ffreccecà ll’acqua e le ffrunne a cchille. Scioscia
isso si nò ncantano li stuole d’aucielle
e cquanno si vascia li trille. Nzomma
che buie sapè? Porzì li viente De
la museca bella so strommiente. (XVI, 12). |
Nel passo appena
prodotto, accanto alla riuscita musicale della traduzione, si può osservare
l’uso dell’onomatopea, che ci dà un’altra caratteristica della lingua popolare,
ricca di un corredo sonoro essenziale accompagnato dal gesto, elemento che non
manca al dialetto fasaniano. Si va da "no zu zu zu pe
_______
94. Cfr.
A. Dardi, op. cit., p. 73.
________
Spesso il traduttore si
abbandona alla verbosità spiritosa del napoletano che rende facile la battuta
gustosa, a volte pungente, e che esprime il piacere che serpeggia in tutta
l’opera. Lo si coglie nelle parole dell’angelo: "Nò nte corà s’hai ditto
doie scarole"; nelle espressioni rivolte ai crociati che litigano:
"Vuie site state comme cane e gatte"; o in quelle riferite a Dio:
"che ppe ddà a la vrachetta troppo gusto, / fuorze lo Munno le scappaie da
mano" (XX,118). Divertimento che diventa malinconica osservazione ("e
si de botta ncielo t’ha pportato / chi sa che pprecepizio t’ha stipato")
(II, 70), arguta deduzione ("si vonno ca nce pigliano a pretate"); che
trasforma la fama, apportatrice "dei veraci rumori e dei bugiardi",
in "mamma de pallumi / e de la verità tant’autro ammica" che "te
mpapocchia chille coppolune" (I, 81); che infine può portare a questa
conclusione: "Nzomma ghìe pe ncappare e fu ncappato e ssenza ncante nnce
restaie incantata" (XIV, 66).
L’ironia fasaniana entra
nella operazione di riduzione, di cui si è detto, come nel caso di Tancredi e
di Argante, che, dopo il duello:
nullo
cchiù de sti due valea trecalle e
ffuorze ca la morte era la fine ma
la morte spartette sti duie galle che ppizzeche se dero nzina fina" (VI, 50). |
Né mancano descrizioni
divertite, come quella del campo cristiano:
Vecco
lo campo lesto oh che bellezza mmedè
tanta bannere ghi e benire a lo
viento che scioscia e a la cchiù granne nc’è no crocione luongo quatto canne". |
Molto spesso il Fasano
ricorre al proverbio, che non è solo una modalità del parlare popolare ma una
fonte della significazione, espressione della ricchezza sapienzale plebea. I proverbi
e i detti sono così tanti che la traduzione fasaniana può senz’altro
qualificarsi anche come una raccolta di proverbi, di modi di dire e di fare, di
situazioni, di locuzioni napoletane, di antico pensare, che il Fasano in nota
non solo indica ma spesso spiega, dando un contributo non indifferente alla
conoscenza di modalità comportamentali e di pensiero dell’epoca.
Si consideri questa nota sentenziale tassiana, resa
con un detto che si richiama ad un uso quotidiano:
Ben
gioco è di fortuna audace e stolto, por
contra il poco e incerto il certo e ’l molto |
chillo
votaie la lampa, saie lo mbruoglio, e pe
no poco perze tutto ll’uoglio. (II, 67). |
|
|
Si è avuto fin qui modo di avere vari saggi di come
il Fasano risolve le difficoltà di traduzione, spesso dando libero sfogo al
diletto, al gioco dialettale, per ritornare subito al modello, tanto che il
testo a fronte sembra quasi che gli serva da binario. Senz’altro la struttura
della stanza tassiana lo aiuta, perché se la sua chiusa gli permette di
spaziare nella napoletanità, la stessa realtà conclusa dell’ottava gli rende
facile, in quella successiva, il ritorno al modello. Per entrare nella
operazione della traduzione fasaniana si confrontino queste ottave che
descrivono il campo dopo lo scontro finale tra l’esercito pagano e quello
cristiano:
Così
si combatteva; e ’n dubbia lance col
timor le speranze eran sospese. Pien
tutto il campo è di spezzate lance, di
rotti scudi, e di troncato arnese: di
spade a i petti, a le squarciate pance altre
confitte, altre per terra stese; di
corpi, altri supini, altri co’ volti, quasi
mordendo il suolo, al suol rivolti. Giace
il cavallo al suo signore appresso; giace
il compagno appo il compagno estinto; giace
il nemico appo il nemico; su
’l morto il vivo, il vincitor su ’l vinto. Non
v’è silenzio, e non v’è grido espresso; ma
odi un non so che roco, e indistinto; fremiti
di furor, mormori d’ira, gemiti
di chi langue, e di chi spira. L’arme,
che già sì liete in vista foro, Faceano
or mostra spaventosa, e mesta; perduti
ha i lampi il ferro, i raggi l’oro; nulla
vaghezza a i bei color più resta. Quanto
apparia d’adorno, e di decoro nei
cimieri, e ne’ fregi, or si calpesta; la
polve ingombra ciò ch’al sangue avanza: tanto
i campi mutata havean sembianza. |
Cossì
se commatteva, e sse campava nfra
la speranza nziemme, e lo spaviento. Ne
autro bene llà cchiu sse trovava, che
dd’arme rotte lo sfracassamento: chi
co na spata mpietto spasemava, n’autro
ll’ha pe li scianche, e n’have abbiento; chi
a la sopina, e cchi de facce nterra, sparpetajeva,
e ll’arma po le sferra. Stiso
stà lo cavallo, e lo patrone, e
ccammarate rente a ccammarate; e
spesso li nnemice a nnemmice, e ncrosione e binte,
e benceture ammontonate. Li
strille fanno na confoseone, comme
quanno so rrotte mareggiate. Ne
nfra tanto delluvio puoie sapere, s’uno
jastemma, o dica miserere. Ll’arme,
che accosì belle a bedè foro, darriano
mo malinconie, e ppaure. Poco
luce lo ffierro, e mmanco ll’oro: va
te le rova cchiù tanta colure. Li
ricche sfuorgie, e arrobbe de tresoro so
ffango, e scarpesate a le cchianure. E la
porva è ppe ghionta a lo zeffunno. Comme
le scene soie vota lo Munno! (XX, 50-52). |
Nella prima stanza la tendenza
ad unificare (il termine "arme" e l’aggettivo "rotte"), le
sottolineature uditiva e motoria insieme ("sfracassamento",
"spasimava", "n’have abbiento" e "sparpetajeva"),
l’intervento finale hanno un forte sapore napoletanesco. Nella stanza seguente
il ricorso al termine più generico ("ammontonate") ma di forte
efficacia e la scelta sintagmatica ("li strilli"), più forte di
quella tassiana ("non so che di rauco"), preparano la trasformazione
dei "mormorii d’ira", dei "fremiti di furore" e dei
"gemiti" in "bestemmie" e "miserere", che sono un
vero parlare popolare. Nell’ultima strofa, accanto ad un dialetto ingentilito,
ci sono espressioni propriamente napoletane, che non si possono rendere in
italiano se non perdendo la loro vivacità ("va te le trova cchiù tanta
colori"), ci sono i napoletanissimi "scarpesate" e "a lo
zeffunno", e infine la sapienza popolare finale che sentenzia
malinconicamente.
E ancora:
Tal
rabbellisce le smarrite foglie a i
mattutini geli arido fiore; e tal
di vaga gioventù ritorna lieto
il serpente e di nov’or s’adorna. |
Accossì
ssciore muscio va peglianno bellezza
la matina a la rosata; e
accossì llustra e rriccia la chiommera sponta
ad uno quann’esce de galera. (XVIII, 16). |
Qui, alla costruzione diretta
dei primi due versi, succede un’immagine completamente diversa dal serpente
tassiano: colui che esce di galera cui spunta una capigliatura copiosa. Se il
primo paragone del fiore, che alla rugiada del mattino si rinnova, è aderente
alla situazione di Rinaldo, il secondo, come dice il Momigliano
"stride", per cui il Fasano si sente libero di spaziare con una sua
immagine, che pure attiene alla situazione dell’eroe appena uscito dalla
prigionia di Armida.
A volte sembra che il Fasano gareggi col suo modello
con versi non men vivi di quelli tassiani:
.
Ogni
cavallo in guerra anco s’appresta; gli
odi e ’l furor del suo signor seconda raspa,
batte, nitrisce e si raggira, gonfia
le nari e fumo e foco spira. Lor
s’offrì di lontano oscuro un monte che tra
le nubi nascondea la fronte Ma
s’a l’honor mi chiami e che lo stimi debito
a me non ci verrò restio. Già
fera zuffa è ne le corna e innanti spingonsi
già con lor battaglia i fanti |
Ogne
ncavallo nculo have chiappino e cchiù
dde li patrune so arraggiate uno
sbruffa, uno gira, uno ciampeja, N’autro
se mpenna e n’autro scaucereia. (XX, 28). Scoprettero
nna grossa montagnnaccia, che
dde nuvole havea na cappa nfaccia. (XV, 33) Ma
si a sto nore mm’apre la portella che
mme toccasse, traso volentiero. (V, 12) e
inanti Già s’è azzoffata la cavallaria e
sse fa nnante mo la nfantaria. (XX, 31). |
Si esamini la diversa soluzione finale fasaniana di
questi prelievi:
Replica
il re: "Se ben l’ire e la spada dovresti
riserbare a miglior uso che
tu sfidi però se ciò t’aggrada, alcun
guerrier nemico io lo ricuso". Al
fin colà fermossi ove le prime e
più nobili squadre erano accolte e
cominciò da loco assai sublime parlare
ond’è rapito ogn’uom ch’ascolte. Come
in torrenti da l’alpestre cime soglion
giù derivar le nevi sciolte così
correan volubili e veloci da
la sua bocca le canore voci. |
Lebbrecaile
lo rre: buono farrisse pe
n’autro ppoco de te stare a spasso ma
si te dico nò tu te darrisse nnanema
e ncuorpo mmano a Ssautanasso (VI, 14). Nfina
llà sse fremmaie ddove mettette li
cchiù mmasaute e nnobbele sordate e
ppo ncoppa no prievolo sagliette e
pparlaie co pparole nzoccarate. Ognuno
lo sermone ne scennette cchiù
ca lo sciorentino le ffrettate cchiù
cca no turzo nuie napolitane o
maccarune li palermitane. (XX, 13). |
Si consideri l’atteggiamento di partecipazione
amichevole in questa stanza:
Mente,
de gli anni e de l’oblio nemica, de
le cose custode e dispensiera, vagliami
tua ragion sì ch’io ridica di
quel Campo ogni duce e ogni schiera. Suoni
e risplenda la lor fama antica fatta
dagli anni omai tacita e nera. Tolto
dai tuoi tesori orni mia lingua ciò
ch’ascolti ogni età, nulla l’estingua. |
Mammoria,
de lo tiempo lo trommiento, despenza
de le ccose care e ammate, mme
parerria de fa no trademiento si
mme nne scordasse uno de st’armate. Saie
ca sso Viecchio nò nn’ha ssentemiento de
nne fa troppo azziune norate. Fata
mia bella, miettetelle a mente e
facimmole bive aternamente. (I, 36). |
Ecco una stanza della
quale dice il Magalotti: "Strano anzi divino entusiasmo di fantasia da
capo a piedi, e se ’l Tasso risuscitasse rifarebbe la sua su questo modello, e
si terrebbe a onore ‘gire esso appriesso a la coglionatura’" 95:
Tacque;
e concorde de gli augelli il coro, quasi
approvando, il canto indi ripiglia. Raddoppian
le colombe i baci loro; ogni
animal d’amare si riconsiglia: par
che la dura quercia, e ’l casto alloro, e
tutta la frondosa ampia famiglia, par
che la terra e l’acqua e formi e spiri dolcissimi
d’amor sensi e sospiri. |
Nche
scompie, secotaie lo concestorio D’aucielle
e pparze dire: "Ll’haie nzerrata". E
accommenzaieno no gra mmasatorio, pocca
ognuno nc’havea la nnammarata. Ll’arvore
po no frasconeatorio fecero
nziemme, comme pe basata, e la
terra e ll’acqua tutta grellejaje, E no
sciore co ll’autro se scergaje. (XVI, 16) |
__________
95. Cfr.
A. Dardi, op. cit., p. 73. Il verso napoletano citato dal Magalotti è
del Fasano.
_____________
Ecco infine la traduzione di uno dei più bei
notturni del poema dove la riuscita fasaniana non è felice:
Era
la notte, e ’l suo stellato velo chiaro
spiegava e senza nube alcuna; E
già spargea rai luminosi e gelo di
vive perle la sorgente luna. L’innamorata
donna iva co ’l cielo. le
sue fiamme sfogando ad una ad una; e
secretarii del suo amore antico fea
i muti campi e quel silenzio amico. |
La
notte nchella notte happe golio vedè
le ffiglie soie belle e llociente. E la
luna le disse: "Nce voglio io spenzà
sorbetta d’ambra a ssi contiente. Co
lo cielo facea lo percopio Arminia
e ghiea sfocanno li trommiente; e
dde li gran sospire segretarie Nn’erano
chille luoche soletarie. (VI, 103). |
Qui lo spettacolo del
cielo stellato si riduce nelle due personificazioni quasi capricciose, comunque
affatto capaci di riprodurre la tassiana atmosfera di pace che calma il cuore
di Erminia, la quale sembra molto artificiosa, in una cattiva resa che si
evidenzia nella brutta riuscita dei versi finali.
Nonostante i limiti
oggettivi di una operazione del genere, bisogna dire che, sia nei punti in cui
il napoletano segue il testo tassiano, sia nei punti in cui il Fasano si
allontana dal modello, la traduzione mette in evidenza l’originalità e la
peculiarità della lingua napoletana, la sua forza, il suo potere
rappresentativo, vivo e immediato, anche la sua lascivia, che è il potere del
pensare e del parlare popolare e si trovano le ragioni della naturalezza e
della genuinità di cui parla il Redi.
Si deve a questo punto
aggiungere che questo esito potette realizzarsi, in modo così vivo e schietto,
per l’origine paesana del Fasano. In tutta l’opera si coglie infatti la civiltà
contadina e artigianale del suo paese di origine, quella popolanità napoletana
che è prettamente paesana e non certamente cittadina, anche se mediata dalla
cultura, e che emerge qua e là, forse al di là della stessa intenzione
dell’autore.
Che Napoli e il suo
ambiente sia presente nell’opera fasaniana è già stato detto, anzi nella
citazione dei luoghi napoletani il Fasano puntigliosamente dà indicazioni e
precisazioni; parimenti si coglie la realtà metelliana e di tutta la costiera
amalfitano-sorrentina96 negli
elementi attinenti al mare, alla pesca, alle attività marinaresche, che sono
citati con la perizia e la competenza di chi le vive come attività giornaliere
e che sottintendono conoscenze particolari e vissute. Ci sono inoltre precisi
riferimenti cavesi - al "monte Pertuso de
Molto più precisi e
circostanziati sono i richiami alla realtà solofrana, della quale sono
riscontrabili, al di là di qualche elemento del paesaggio97, precisi riferimenti, il primo dei quali e il più
caratterizzante è quello che riguarda l’attività artigianale principale locale:
la concia delle pelli, della quale sono usati termini tecnici, che solo chi ne
ha diretta dimestichezza può conoscere.
Si considerino i versi:
"E cco lo scuto suio c’havea fi a sette / sole una ncoppa ll’autra de
mezina", dove il termine "mezina" traduce l’espressione tassiana:
"dure cuoia di tauro", con in nota la spiegazione che le
"mezine" sono i "cuoi da solar scarpe", e con l’aggiunta
che "suolo di mezina" è "la parte più doppia del cuoio"98. Ancora il verso, in cui Armida, visto che il suo strale
non ha colpito Rinaldo, pensa che le sue membra siano coperte di diaspro
("Vestirebbe mai forse i membri suoi di quel diaspro ondei l’alma ha si
dura"), è tradotto: "Besogna che lo cuorio ll’haggia muollo",
attingendo alle conoscenze sul comportamento del cuoio, che, solo
"molle", cioè bagnato, può essere trapassato più facilmente. Altro
riferimento molto preciso si trova nell’invettiva di Argante che si prepara al
duello contro i cristiani:
Po
dice: "Hann’a bedè sti pisciavine mo
mmo che dde Tancrede nne fa Argante. E boglio
spestellà ss’autre assassine, justo
comme se fanno fave frante, voglio
fa de le ccoiera marrocchine e
cordovane, e dde le ddoppie addante: la
carne a ccane e l’ossamma ch’avanza nfarinole
la voglio mannà nFranza99. (VII, 54). |
Qui il Fasano, allontanandosi
completamente dal testo, dice tra l’altro che vuole fare dei cristiani
"ccoiera marrocchine e ccordovane" e "ddoppie addante",
dove, ai termini, che indicano tecniche precise di concia, si aggiunge l’uso
che ne fa l’autore, e che corrisponde esattamente ad un’invettiva solofrana:
"fare la pelle" (nel senso di "conciare la pelle"),
riferita in modo minaccioso a quella di persone nemiche. In altro luogo lo
stesso traduce il tassiano "barbaro è di costume" così: "de le
ccoire farria sole de scarpe" (XV, 28), dove c’è un chiaro riferimento non
solo alla concia e alla confezione delle scarpe - altra attività solofrana100 - ma alla rozzezza del conciapelle, che solo uno del posto
poteva usare spontaneamente ed per celia101. Ci sono ancora altri precisi riferimenti a questa attività e
ai suoi prodotti, per esempio tutte le volte che il Fasano usa il vocabolo
"cuoiere", che è un preciso termine locale102, o "correa" (VII, 107), con cui si indica una
cinta di cuoio, o "scardosa" (XV, 48), che non è aggettivo di scarda
ma un sostantivo indicante un preciso tipo di pelle ruvida, come lo stesso
spiega in nota; quando cita la mortella (VI, 51), l’erba conciante venduta
dalle spezerie solofrane103; quando
parla della lana - prodotto principe dell’allevamento e della concia - nelle
espressioni: "de lana no ballone" o "a la balla ch’ammassa
lana" (XI, 40), e poi: "si nne cardaste lana" (XII, 38), "e
saie cardà la lana" (I, 47); riguardanti, le prime due, una modalità di
conservare e vendere la lana, le altre, una delle operazioni elementari su
questo prodotto, la cardatura; quando menziona le "carcare" ("ma
fa la notte peo de sei carcare", "so ddoie carcare ll’uocchie"),
cioè le fornaci per la calce - addirittura sei -, il che dimostra che l’autore
conosceva quest’attività e questo prodotto essenziale in conceria104; e infine quando nomina il "cantaro", una tinozza
per la concia (X, 56).
Altra attività solofrana
presente nei versi del Lo Tasso napoletano è la salatura delle carni,
specie quelle di maiale, produzione molto diffusa a Solofra e che richiede la
presenza di diverse botteghe per la macellazione delle carni. La espressione:
"e dde nnemmice fecemo salate" [dei nemici facemmo una strage] (VIII,
13), ed altre simili richiamano, nella loro significazione, proprio la grande
quantità di animali uccisi per questa attività; mentre la frase: "nè a lo
mercato fanno strille tale / ciento mmorre de puorce a ccarnevale" (XV,
51), si riferisce al fatto che per Carnevale, essendo il maiale pronto per la
macellazione, ne cominciava la vendita, tanto che questo era anche un tempo di
scadenza dei contratti di compravendita; né mancano riferimenti al lardo, un
prodotto usato essenzialmente nella concia105.
Si trova l’ambiente
solofrano nei richiami alle attività pastorali e alla lavorazione del latte106; quando si parla del visco, prodotto usato
nell’uccellagione e nella concia; quando ci si riferisce al rapporto
dell’artigiano col garzone ("fare lo masto"), e persino
all’emancipazione, quell’atto legale col quale il padre liberava dalla patria
potestas il figlio per renderlo autonomo nella contrattazione mercantile
(XV, 8). Infine come non vedere il mulino, che i Fasano avevano nelle loro
terre, nella citazione di un particolare, cioè del "taccariello", un
legno che sta sulla ruota e che, girando, fa un rumore stridulo (V, 25)? E si
trova Solofra in tutta una serie di citazioni, di proverbi, di paragoni che
costituiscono un habitat dominante, e che, se possono benissimo essere
anche napoletani, sono sicuramente presenti anche a Solofra107.
In conclusione si deve
dire che la presenza del paese natale nella traduzione fasaniana più che altro
rappresenta un diffuso e denso sottofondo che va molto al di là dei riscontri
che si sono fatti, e che permettono di gustare più a fondo la napoletanità, che
è pure quella della provincia, di una provincia molto napoletanizzata, proprio
come quella solofrana, perché facente parte dell’ampio hinterland
partenopeo.
_____________
96. Cfr. A. Dardi, op. cit., p. 73. Il verso
napoletano citato dal Magalotti è del Fasano.
97. Un esempio è dato dalla descrizione dell’approdo della
nave dei guerrieri cristiani nell’isola dove Armida tiene prigioniero Rinaldo
che avviene in un paesaggio tutto napoletano ("Lo mare è n’autra Vaia
abbonacciata / ncoppa ha na serva justo
98. Nella espressione: "nce puoi vedè cose galante de
pagliara e cciardine ch’è no spasso" (XVI, 41) c’è un caratteristico
paesaggio solofrano, dove i giardini, anche quelli detti "di
delizie", si alternavano ai pascoli in cui il pagliaio era un elemento
dominante.
99. Con questo vocabolo si indicava a Solofra esattamente
questo tipo di cuoio (ASA, B6533 e sgg).
100. Il corsivo evidenzia i termini che interessano. Anche in
altro luogo è citato il cordovano (VI, 52).
101. La confezione delle scarpe era un’attività strettamente
legata a quella del conciapelle, infatti le concerie non di rado avevano locali
adibiti a questa attività artigianale, la quale nell’opera ha un altro richiamo
nel termine "chiantaruole" (I, 60), che sono i chiodi con la testa
piatta usati per le scarpe, dette "chiantarelle".
102. Tra i detti proverbiali solofrani ce ne sono alcuni che
sentenziano questa caratteristica. Cfr. S. Giliberti, Proverbi e detti
dell’Irpinia: Solofra, Atripalda, 1988.
103. "Cuoiere" è il referente solofrano di pelle
conciata dura (I, 22) ed è usato dal Fasano non solo con questa accezione ma
anche per tradurre il generico termine "pelle". In altro luogo dice
"ncoppa ssi cuoiere vuoste" (X, 68) che traduce il tassiano
"sopra voi l’Imperio ho pieno".
104 La spezeria, che a Solofra vendeva anche prodotti per la
concia, e l’arte dello speziale sono ricorrenti nella traduzione fasaniana in
cui si nota una chiara conoscenza dell’arte medica e si citano diversi medici,
che il Fasano doveva conoscere bene, data la tradizione di famiglia. Lo stesso
Redi era esperto e studioso di medicina. Si è già detto che i Fasano a Solofra
possedevano una spezeria ed una macina per preparare questa erba alla concia.
105 Rispettivamente per i versi citati: XV, 28; IV, 7. La
famiglia Fasano a Solofra possedeva una "carcara". Più avanti il
Fasano parla anche di "cauce forte" (IV, 31), caratteristica
espressione locale che significa "calce viva" non ancora idratata che
a contatto dell’acqua sviluppa calore e "bolle", infatti il sintagma
fasaniano è riferito all’amante che brucia di amore (IV, 31).
106. Di questa attività, documentata fin dall’XI secolo,
negli Statuti solofrani, del XVI secolo, ne è regolata l’igiene proprio per il
gran numero di tali botteghe. Tra gli altri riferimenti si citano quelli
relativi all’attività delle "chianche" che preparavano e salavano la
carne e che erano luoghi sporchi di sangue: "cchiù se chiancheava",
"ch’è na sanguenacciaria" (XX, 92), "guerra n’è cchesta è
cchianca sì, è scafaccio / ca llà è la carne e ccà lo coltellaccio" (XX,
56), "facea macello" (XX, 95); alla salatura delle carni: "a
ccomprì la salata" [a terminare la salata, cioè la strage] (X, 59),
"Via su corrimmo mo a Gierosalemme / a fare na salata de Salemme")
(I, 27); all’uso del lardo: "scotenata" (con questo termine si
indicava il togliere la cotenna dalla pancia del maiale con cui si ungeva la
pelle) (I, 68), "comme lardo a ssole" (XIII, 61), "e fa tanto de
lardo" (I, 86).
107 Si citano il dispregiativo: "guarda vuoje" ("guarda
buoi", così erano indicati gli armentieri) (V,19), il proverbio: "ca
la vacca è la nosta" (III,70) e le espressioni: "janca cchiù de
joncata" (il Fasano spiega che "joncata" è "latte rappreso
senza salare" e aggiunge che è detta così perché si pone tra i giunchi
mentre se è posta tra le felci è detta "felciata") (IV, 24), "po
comm’a ccrapie dero duie sbalanze / quanno vanno nnammore a pprimmavera"
(VI, 40).
108 Vale citarne alcune espressioni: "llà nterra",
"Michelasso" (XV, 63), "lassa fa a Cola" (II,46),
"vale na rapesta" (II, 74), "chisto a cchiù dd’uno romparrà li
cuorne" (III, 60) "a ffa li marcanciuni" (II, 79); e i proverbi:
"o maccherone mio saltami in ganna", "ncagno de fico, haverraie
molegnane" (II,69) "De casa e ppoteca se nce mette (VI, 27),
"Vanno a la spaccatrammola le ccose" (I, 31).
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