Letture di Mimma De Maio

 

Gli “scavi” di Annamaria Gargano

 

 

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Annamaria Gargano è una scrittrice di estremo interesse sia se scrive versi o se racconta, per il modo ammaliante di usare la parola. La parola che si fa leggera e delicata evocatrice di stati d’animo, la parola che diviene racconto vero e vivo negli scavi della memoria e traccia scorci di paesaggi interiori, che sono quelli essenziali del vivere. Per questa sua capacità la scrittrice riesce a tenere legato a sé il lettore mentre lo conduce in un mondo che egli subito ama perché lo scopre anche suo. Lo scavo che la trivella della memoria opera nel suo vissuto diventa anche il nostro in un coinvolgente sentimento empatico.

 

 

1.  L’iter artistico della Gargano inizia con Muri di Lillà (Napoli, 1998; Avellino, 2005), un lungo racconto autobiografico, costruito intorno alla figura del padre e nato dal bisogno di non perdere, con la morte del genitore, la ricchezza della genuinità di una vita serena nel paese e nella famiglia natale. Il racconto si inoltra, quasi famelico, nelle profondità del passato, accompagnato da una memoria vigile ed attenta a recuperare ogni piccolo elemento di un mondo  - quello della infanzia e della giovinezza -  che la presenza del padre e la lontananza rendono estremamente prezioso. Ecco gli “squarci incantati”  - dirà l’autrice nella seconda sua opera -  che le consentono di “affacciarsi su uno scenario magico di affetti e di esperienze che hanno accompagnato gli anni più belli della sua vita” (Dissonanze. Storie sedute ed altro, Napoli, 2000, p. 45).

Questa è un’opera “rivelazione” non solo della Gargano scrittrice, di colei che sa attrarre affabulando, ma del valore delle cose essenziali: il contatto con la natura, il paese natio, le figure familiari, le mura di casa, il buon cibo casalingo, il tutto avvolto in una gran massa di sensazioni, una totalità del sentire, che turba e calma, a dirci che i momenti costitutivi della vita di ognuno sono sempre lì pronti a rispondere al nostro richiamo. In questo denso sostrato si svolgono le vicende normali della protagonista, che sono episodi, figure, angoli di vita, momenti, dove gioie ma anche paure, ansie e dolcezze affiorano con la stessa spontaneità e meraviglia nell’animo che le avverte. Ecco la fuga dal paese minacciato dal bombardamento, il ritorno nelle rassicuranti braccia di una nuova casa, quasi a segnare una vita diversa dopo una pausa di paura e che sarà il guscio in cui matura la vicenda; e poi la chiesa, la scuola, la piazza del paese, tratti stupendi di campagna, e ancora i giochi, le passeggiate.

A dominare e rendere fondante il tutto c’è il padre, figura magica nella sua silenziosa pensosità, elemento forte e rassicurante, punto essenziale di riferimento, nel cui abbraccio si acquieta, di volta in volta, ogni ansia della figlia: c’è il suo lavoro al tribunale, la sua presenza in casa e in paese, e soprattutto lo struggente rapporto con la figlia.

 

Lo ammiro perché non si è mai lamentato della sua infanzia, che pure deve essere stata dura e con molte privazioni. Gli voglio bene anche per questo, per la dignità silenziosa che lo accompagna in tutte le vicende della vita: mai superbo, mai lamentoso, mai intollerante. I valori fondamentali, a me e ai miei fratelli, li sta trasmettendo con l’esempio, senza alzare mai la voce (2005, p. 89).

 

Di contro si staglia, esile e leggera, una bimba evanescente come i vestiti che indossa, che “corre corre”, e “il nastro nei capelli è ala bianca” che la porta da lui (p. 6); e poi una sognante e pensosa adolescente, amante della solitudine che vive i travagli di un ricco mondo interiore; infine una donna ormai presa dalla vita, ma sempre pellegrina nei luoghi dell’infanzia divenuti luoghi dell’anima. Tre intense figure intorno al padre fino a che tutto finisce nello strazio di una rapida e inesorabile malattia.   

Tutto questo è raccontato attraverso uno scavo introspettivo di pensieri, desideri, attese, atmosfere che è la vera cifra della narrazione. Scavo a volte delicato, come nell’alzare un velo, e a volte spietato ma reso possibile da una mano che media il forte sentire e lo mette sulla carta a “sciogliere il grumo di angoscia che le toglie il respiro” (ibidem, p. 45). 

 

Quando la sera mi isolo anche fisicamente dalla realtà, per perdermi nel sogno, ritrovo la radice delle cose e della mia stessa vita e tutto mi appare più reale di quello che ho vissuto durante il giorno. E la scrittura, come balbettio incerto e sonoro delle mie sensazioni più profonde, è un canale liberatorio delle energie spirituali che mi comprimono, fino a farmi male (ibidem, pp. 66-67). […]. 

Rispondo quasi sempre a questa urgenza liberatoria, che mi sembra naturale […]. Le parole, passate sul quaderno, sono la mia medicina, sono la mia compagnia nei giorni di pioggia, sono voli di rondini che mi riscaldano il cuore, sono l’unica parte di me che continua a vivere in pace con se stessa, senza sottostare alle leggi del tempo, ma al di fuori del tempo, in una rarefazione di materia, che è come una sospensione di tutto il mio essere e della corporeità di cui sono fatta.

La scrittura soltanto mia e mai divisa con nessuno, è l’eternità che mi è toccata senza che io la cercassi e vuole vivere in me, anche quando io la rifiuto perché mi sento inadeguata ad assecondarla e le forze mi mancano per esprimere quello che sento così come lo sento (ibidem, pp. 105-106).

 

Il romanzo serba la spontaneità e la genuinità di quando le esperienze narrate furono fatte o quei sentimenti furono per la prima volta avvertiti, nello stesso tempo non ha il travaglio del vissuto, segno che è avvenuto ciò che Croce intende quando parla di “sentimento contemplato” che si effonde nell’animo con infinita risonanza. Risultato dovuto alla disposizione della scrittrice ad accogliere con piena adesione il mondo lontano che racconta, ad accarezzarlo, a guardarlo con amore, inconsciamente tesa a non perderne neanche una briciola, coscientemente intenta a ri-goderlo nel momento che lo ri-pensa, ad attualizzarlo e fermarlo per non perderlo. I versi che impreziosiscono i capitoli del romanzo ci dicono che il ripensamento del suo “tempo magico” è divenuto serena contemplazione, se la poesia è la via maestra attraverso cui ogni forte sentire si placa e si universalizza divenendo sentimento di tutti.

Ecco allora Tempo di parole (Avellino, 2002), terza opera solo in ordine temporale, invece intimamente legata alla prima perché ne raccoglie i versi e perché gli altri ne prolungano il messaggio e il godimento. Silloge poetica che diviene cornice che si fonde con la tela, serto che inghirlanda. In questi versi, tutti bellissimi, si scopre il segreto della poesia ma anche della prosa della Gargano: la parola che diventa onda di un’eco che rimbalza sul denso amalgama del vissuto e va “a morire nell’ombra quieta dei ricordi” (70), versi che sono picchi di luce alla ricerca di “residui di voli lontani / di traiettorie precise / … / per creare uno stato / impermeabile / alle sostanze nocive / agli sguardi taglienti / della vita” (p. 94), perché “non contano le distanze / nel cuore” (p. 82), perché non si possono chiudere “porte e finestre” lasciando fuori la vita, quella vera.

 

 

 

2.  Lo scavo della Gargano continua nella sua seconda opera narrativa Dissonanze. Storie sedute ed altro (Napoli, 2000), dove, come dice Gabrio Vitali nella quarta di copertina, la scrittrice “conferma la sua vocazione a raccontare”. Qui però il racconto si allarga agli altri, persone a lei care o solo conosciute, figure prese dalla sua quotidianità, ma anche rappresentazioni di momenti autobiografici, inquietudini, sogni, prodotti del suo cercare. Tutto guardato con lo stesso trasporto, tutto reso di valore perché preso a paradigma del vivere comune.

Lo scavo, permesso dall’appropriata finzione di far passare i protagonisti nella sala d’aspetto di uno psicanalista, avviene sul lettino del medico, in un valido colloquio-soliloquio, che agevola la confessione, sicché il parlare scorre spontaneo senza alcuna forzatura rivelando una cifra narrativa, che nella prima opera era camuffata dall’impronta autobiografica. Non è l’autrice che racconta ma sono le persone a “raccontare la loro storia” come spinte dal bisogno di recuperare una vista generale sui propri accadimenti. La trivella è giunta in un punto in cui la polla sgorga spontanea, guidata da forze profonde facendo emergere tutto un mondo di vissuti interiori e di situazioni psicologiche legati al quotidiano, che rivelano il denso dinamismo e i fermenti dietro ciò che appare come un velo placido di acqua.

E lei è accanto ai suoi protagonisti “mentre vivono”, a lei basta ascoltarli, il cuore e il pensiero disposto (“e non faccio rumore, non do fastidio: sento gli odori e guardo […] e vedo sempre interni bellissimi, armoniosi e le persone mosse dai profumi delle loro azioni”, p. 56). Magico e particolarissimo rapporto con la materia e con i personaggi del racconto che evidenzia la capacità ad entrare nell’essenza delle cose, ad essere insieme persona che ascolta e che chiede, che prende le parole le apre le “libera dal guscio” per scovarvi il tesoro che è dentro, il “soffio divino nella materia”.

 

Così la vita mi appare come un groviglio di gallerie sotterranee, apparentemente confuse per noi, per la logica di noi uomini, ma razionalmente distribuite e collegate fra loro, invece, secondo la logica della natura che non conosciamo (p. 63). […].

Entra timida, ogni giorno, da quella porta; di fronte a me si spoglia di tutte le coperture, più o meno innocenti, e diventa sé stessa: pulita, bella, levigata come pelle di bambino. Così si trasforma sotto i miei occhi, e io affondo le mani nella creta, e impasto, scavo, giro, rovescio il pupazzo di argilla, e me lo plasmo a modo mio, modello ideale che scende come soffio divino nella materia (p. 67).

 

La cura con cui la Gargano opera questi scavi, si mostra tutta nella tecnica del racconto, fatto di sprazzi, di lampi, di piccole note, di sapienti flash back, resi con una prosa scarna e ben curata, e nella delicatezza con cui alza il velo della “normalità”, scosta la tenda dell’abitudine, nello sguardo discreto che lancia, pudica, dal suo privilegiato osservatorio.

Si hanno tante storie minime, rapide narrazioni, che sono angoli di vita, flebili trame, profili di anime, pezzi di cuore, echi, che tracciano quella che il Vitali chiama “un’epica dell’esistenza”,  “appartata”, che sarebbe rimasta silenziosa e anonima se non fossero intervenuti il cuore e il pensiero della Gargano a trarre da esse una goccia del segreto del vivere che si cela nel profondo dell’uomo. Il libro diventa perciò un variegato campionario di una umanità pazientemente dolente, ma anche strana, perché è quella profonda, che costituisce per il lettore una “frustata alla coscienza”. Per questo Dissonanze di anime, scissioni, un groviglio di sfumature interiori, impensabili paesaggi psicologici che la penna trasforma in storie.

 

 

 

3.  L’appropriato titolo della terza opera di Annamaria Gargano, Interni (Avellino, 2002), conferma ciò che sono le sue storie, appunto “scavi”, penetrazioni. Il loro racconto nello stesso tempo svela le strategie della Gargano per mettere in moto la sua trivella e la capacità di camuffarsi dentro i personaggi. Ciò avviene chiaramente per esempio col postino, il protagonista del significativo racconto di apertura (pp. 9-25), che, colpito da una tragedia familiare, la supera attingendo alle forze interiori.

 

E passava le ore in questi pensieri più grandi di lui, e scopriva una parte ignota di sé che viveva, nel profondo, una vita autonoma, parallela a quella che conosceva. E tendeva le corde dell’animo fino allo spasimo per cogliere tutte le sensazioni che lo attraversavano, anche le più impercettibili. E si sentiva in compagnia, e vedeva la vita posarsi leggera sull’aia, accanto a lui, e sorridere tra i fiori di ciliegio, e succhiare con lui il nettare dolce del sole. E il tempo arretrava, impaurito, senza più forza davanti al suo sguardo, infinito, alato, che volava abbattendo confini, barriere di spazio e di materia nemica” (p. 11).

 

Questa scoperta apre l’uomo, che appropriatamente non ha nome, ad altri interni, fa sì che le lettere che consegna divengano “frammenti di storie nella sua carne”, una umanità varia di cui scova “la vita nascosta dietro la facciata”, “situazioni insospettate”, “abissi di angoscia e dolore pietrificati sotto sorrisi convenzionali”. Eccolo dunque entrare nell’essere di tante persone, “maschere indifese e involontarie di una recita collettiva”, avvertire lo strappo tra l’apparire e l’essere, mentre la tracolla diventa pesante, carica di conoscenza totale e di tutto il gravoso di questa umanità nascosta (pp. 12-13).

Si svela in questa raccolta qual è la chiave che apre gli interni garganiani: “la voce”, “i toni, i cedimenti, le incertezze, l’arroganza, la timidezza, la speranza” (Vite su misura, p. 27); o qual è il luogo dove si creano storie bellissime, se si riesce ad aprire la porta, se si lascia “cadere la pelle indurita, strato per strato” (Dimenticata, p. 32). Ci si trova di fronte ad un susseguirsi di interni umani, a volte malati, come quello del protagonista di Imprevisto col suo cervellotico stratagemma “per beffare la morte, e non farsi trovare in nessun mese dell’anno, in nessun giorno della settimana” (p. 36), o come quelli che producono le manie di Senza motivo e di Una giornata più lunga, ma si incontrano anche interni capaci di riscaldare e riempire una vita vuota e fredda.

 

Ogni mattina, invece, sempre la stessa atmosfera, grigia pesante di stizza malamente contenuta, e lei, bambina, si rannicchiava in se stessa e alimentava la sua vita interiore, e costruiva palazzi incantati dove solo lei poteva entrare e custodire il suo mondo speciale, fatto di luci, di albe rosate, di tramonti carnosi, e viveva, felice, questa vita inventata.  (L’ultima tazza, p. 50).

 

 Pur se la vita interiore che i personaggi di questa raccolta ci raccontano può essere una “vita inventata”, essa appare una suggestiva possibilità, proprio come dice il filosofo rumeno Emil Michel Cioran che la Gargano opportunamente mette in epigrafe: “Possiamo vivere come vivono gli altri e tuttavia nascondere un no più grande del mondo: è l’infinito della malinconia…”. In questo “infinito di malinconia”, infatti, l’artista ha la possibilità di superare il male di vivere elevandolo a canto. Che la Gargano ci riesca pienamente lo dice il Dialogo ad una voce, straordinario monologo che si legge tutto d’un fiato, in cui la parola con leggerezza consolatoria entra nell’incomprensibile della vita. Parola che dice e non dice, che accenna appena, che racconta sottovoce, che è un lampo di luce sulla materia trafitta, proprio come fa la poesia.

 

Sbattono, le parole, gemono, si gonfiano di vita a poco a poco, sotto le mie dita stanche e disegnano storie perdute. Piccole storie, di piccoli uomini, punti allineati nell’universo che li contiene tutti, ammassati fra luna e stelle, così vicine, così lontane, nelle sere d’estate.

E io mi aggrappo alle parole, giocoliere della vita che inventa, senza rete a trattenere le cadute. Sono anelli di salvezza, le parole, tenere come le mie notti di ragazza, per affondare dolcemente, precipizi d’amore che accolgono la mia vita pesante di dolore, di paure mai confessate.

A chi dire la mia disperazione?

Neppure a te voglio raccontare quello che sogno ogni giorno, ogni momento, ma i bisbigli fanno rumore e si aggrumano, tesi, a ferirmi a sangue; e allora ricordo, e cerco di chiarire, di pensare piano, per non cedere alla valanga maligna che non si scioglie al sole.

Corrono insieme, oggi pensieri e parole, ben ordinati sulla traiettoria delle mie emozioni, e io mi sento bene, e vorrei parlare, finalmente, e dire come stanno le cose sulla terra anche per gli altri. (pp. 77-78). 

 

 

 

 

4.  Il passaggio a Marecielo (Avellino, 2003), la seconda raccolta di poesie, è percepito come continuità con la prima silloge, perché anche questa è un ripercorrere col verso le strade del cuore. Ritorna nella prima parte  - Vieni a trovarmi / padre / almeno una volta (pp. 9-49) -  il ricordo struggente del padre che si fa figura viva e vera nel miracolo della poesia (dal balcone / lascerò entrare / il sole / come sempre / sulla tua poltrona / e ti vedrò dormire / riparato dal giornale / e protetto / dal mio silenzio / senza lacrime), mentre il sentimento della perdita diventa lirica rievocazione (Ci hanno diviso /mentre camminavamo / ancora insieme / abbiamo avuto / appena il tempo / di guardarci negli occhi / e già eravamo lontani).

Ritorna  - nelle intense sezioni E tu riempivi / l’anima mia (pp. 53-81) e Ci sarà un angolo per me… (pp. 85-121) -  il doloroso ripensamento di motivi, immagini, luoghi cari (sono erba / esclusa / dal giardino / della vita / rampicante / che nasce / e muore / nelle crepe / di un muro / dimenticato / dal sole /), che si allarga al dolore degli altri (si arrampica / l’anima  mia / sui muri scrostati / e raschia / foglie tenere / dolce veleno / da masticare / per non vedere / per non sentire / lo strazio della vita / che grida / dalla strada), al male del mondo vissuto come proprio (lamenti di cani / sperduti / straziati /  nell’incanto lunare / di una notte / d’estate / eco infinita / dell’universo / che piange / dentro di me).

C’è un dolore corale ed universale che l’autrice scopre soprattutto nel paese natale, che è “profumo di terra / sbriciolata / fra le dita / e bagnata / di lacrime / essenza / di ricordi / fragili / come fili d’erba”, e in tanti suoi elementi, la chiesa, la piazza, certe strade, il cimitero; persino le sue “case abbandonate” sembrano avere un’anima che soffre con lei.

 

Gocce innocenti

battono

suoni di fiaba

sotto finestre smarrite

vuote ormai

di volti e risate

gocce stupite

battono

parole amiche

su una lamiera

dolorante

di echi lontani

pioggia d’aprile

che porti

profumi di Pasqua

di giorni pieni

nel cortile di casa

io

qui

da sola

non basto

a disegnare

il mondo che avete perduto

cado

goccia anch’io

su una lamiera

dimenticata

(Nel cortile di una casa abbandonata, p. 107).

 

Nell’ultima sezione  - E sognavo di stare ancora / nella bottega delle fate / del mio piccolo paese… -  la più intensa, ci sono momenti essenziali della vita di paese, accarezzati con grande trasporto e genuinità. C’è ancora, e questo è significativo, il postino di Interni con le sue storie, ci sono le sartine del paese, amiche della zia (mi raccontavano fiabe strane / le compagne di mia zia / quando sedevano intorno al fuoco / nelle lunghe sere quiete di neve […] mentre sulle scintille volavano / sguardi e parole / e volavo anch’io senza paura / sono partite tutte insieme / le compagne di mia zia / lasciando stoffe ago e filo / mentre io crescevo / e cominciavo a capire / e sognavo di stare ancora / nella bottega delle fate / del mio paese / dove sono tornata oggi / a cercare il senso della vita / di una vita diversa / da cucirmi addosso / con una pelle nuova), c’è la storia struggente del cane Giuggiù, e ci sono Le “guagliotte” di sopra la strada, sentito incontro con le compagne di una volta che non si può non leggere se si vuol cogliere l’essenza e il miracolo dell’arte della Gargano:

 

Venite

presto

andiamo a piantare

parole

sulle pietre delle nostre case

sulle scale che ci hanno accolto

ogni estate

venite

siamo ancora noi

le risate

 che risuonano sopra la strada

nei tramonti quieti

 con gli usci socchiusi

e vecchie curiose

che ci guardano

sgranando rosari

venite

andiamo a rubare

nespole e fave

 da masticare poi

 rosse di corsa

 sdraiate sull’erba

il cielo disteso

sopra di noi

e dare forma alle nuvole

e vedere un profilo

e dire un nome

eco dolcissima

del primo amore

da sognare la notte

a occhi aperti

la luna che spia

dai monti lontani

armonia di luoghi persone e cose

tessuto vero

delle nostre vite

riprendiamo il filo

compagne mie

possiamo volare

nel tempo passato

e mettere insieme

punto per punto

una veste nuova

io già l’ho indossata

per me per voi per quelle

che abbiamo perduto

lungo la strada

venite

andiamo a piantare

sogni e parole

sopra la strada

saremo un cerchio

senza inizio né fine

un falò al centro

 come la sera dell’Immacolata

scintille che avvampano

e bruciano gli occhi la mente

il cuore

mentre guardiamo

l’amore nostro

e lo prendiamo per mano

poi sulla cenere

patate arrostite

che si sciolgono in bocca

con le nostre risate

venite

è agosto

ci siamo tutte

e ci chiamiamo

per nome

appello dolce

come nei giorni di scuola

vi ricordate?

uscivamo di corsa

 per scivolare nel sole

che ci aspettava

per giocare con noi

alla settimana a nascondino

a guardie e ladri

e poi a casa

a tavola insieme

con mamma e papà

di fronte a noi

tempo fermato

eternità nel cuore

venite

 presto

da tutte le parti

io sono seduta

sul primo scalino

della chiesa di San Nicola

come una volta

sopra la strada

avete capito

come una volta

non è un sogno

ci sono tornata

e vedo tutto

in un solo presente

senza fratture

fra passato e futuro

e non manca nessuno

per stare insieme

finalmente

a casa

(pp. 135-138).

 

 

 

5.  E siamo alla recente opera della scrittrice Prima che la luna tramonti. Storie imperfette (Avellino, 2006). Qui si conferma ed affina lo stile della Gargano, inteso non solo come linguaggio  - prosa che si fa poesia - , ma come porsi, come modo di essere dell’artista. L’opera traccia anche qui storie appena accennate, solo indicate, qualcuna fulminante, momenti di vita, a volte anche solo poche ore, che emergono dalla materia indistinta del quotidiano. “Un piccolo campionario umano che scorre dinanzi ai nostri occhi” recita la seconda di copertina, che subito diviene denso perché fatto attraverso lo scavo della confessione e diviene nostro, per il fatto che è raccontato in prima persona, stratagemma che trasforma il lettore in diretto interlocutore.

Ritorna qui il tocco leggero, il tono discreto del racconto altre volte usato per scoprire velati angoli di interni, forse perché è il quotidiano ad essere indagato o forse per la aperta disposizione della Gargano ad accogliere il dolore di tutti, che già abbiamo notato in altre indagini. Anche qui, insomma, la mano della Gargano si accosta, pudica, in punta di piedi, si dispone ad essere vicino, a comprendere, a compatire, mai a giudicare.

Questo risultato nasce dalla posizione dell’autrice, da lei descritta nelle pagine introduttive, dove ci parla di personaggi che “all’improvviso cominciano a farsi vivi” e le chiedono di “ascoltare le loro storie”. La postura di colei che ascolta è ribadita dai versi del portoghese Fernando Pessoa: “Sarò sempre colui in attesa / che gli aprano la porta, / accanto a una parete senza porta” e conferma ciò che è la scrittura per la Gargano: una necessità insita nella sua natura, una modalità non cercata ma scoperta fin da piccola con la sua grande forza liberatoria. Con questa postura la scrittrice incontra i suoi personaggi, entra nelle loro storie senza disturbare, senza chiedere, senza invadere, aspettando che siano loro a parlare, a mostrare la loro vicenda. Come dire lo scavo diventa spontaneo, basta la disponibilità ad ascoltare e basta aver pronti i mezzi per narrare.

Anche qui le storie sono vicende di interni, stati d’animo, situazioni psicologiche in cui i personaggi si dibattono o dalle quali si difendono, in tutte c’è un sottofondo di sofferenza, “dell’animo e del corpo”. Sono pagine amare ma non disperate, storie non allegre, sempre problematiche, ma che lasciano una speranza, che avvenga qualcosa a cambiare o a spiegarci il male di vivere. E sono rese con la tecnica narrativa già sperimentata in altri racconti, come in Dialogo ad una voce di Interni, sono date non con una narrazione lineare, ma a tratti con un andare avanti e dietro partendo da un nucleo, interrotte da indovinati flash back o sono rapide epifanie coronate da piccoli colpi di scena, tecnica che crea un’atmosfera di suspence fino al colpo di scena finale che giunge improvviso, e spesso suggerisce più che dire.

Si va dalla fragile e delicata figura di una commessa dei grandi magazzini, turbata da un malessere che sa di grottesco e diventa mania (Ti spiego come stanno le cose), al problematico arredatore d’interni (Reparto di gastronomia), a significative figure di anziani: l’ironico e disincantato Eduardo (È stata una buona giornata), l’ingegnere “malato di solitudine e di dignità” che trova un modo ingegnoso di alleviare la sua sofferenza (Guasti in casa). Ci sono donne “normali” con i loro illuminanti momenti: Paola con la sua emozionante scoperta (Passa a prendermi più tardi), Emma, col suo tormentato segreto (Ti devo parlare), la bella signora di Ci farai l’abitudine con la sua scelta liberatoria. C’è l’esperienza “forte e dolorosa” di Davide e Marianna, che conoscono “la violenza dell’indifferenza e del silenzio” in un ospizio governato da un “ordine perfetto” e da “giovani indaffarati” di Stanza 103. E poi figure di scrittori alle prese con la loro ispirazione, e la storia surreale dei due coniugi costretti a vivere legati alle confezioni che scadono (Un uomo e una donna). Alcune vicende, come quest’ultima, hanno il sapore di storie kafkiane, cosa che non sorprende, poiché, nel seguire la Gargano nei suoi scavi, è apparsa la sua predilezione per il grande praghese che viene confermata dall’ultima storia Pomeriggio con Kafka in cui ancora una volta la Gargano ci dice il valore e il mistero nei nostri interni. 

 

Oggi Olga mi ha portato in un mondo dove non sarei potuta mai arrivare sa sola; in un mondo di assoluta purezza e innocenza, dove gli echi della vita normale arrivano smorzati, sublimati da una tensione spirituale così forte da annullare le leggi della materia.

E noi altri non possiamo permetterci di giudicare, con il metro delle nostre misere ragioni, il mistero di due anime che si sono incontrate e viaggiano insieme, oltre il tempo oltre la morte (p. 113). 

 

Ci sembra che il titolo di questa opera riassuma ciò che sono queste storie e tutta la narrativa della Gargano: episodi raccontati al lume di luna, col favore della notte, dove le zone d’ombra aiutano la confessione e il suo racconto, dove la vicenda appena si vede, prima che la luna tramonti, prima che il sole la illumini con la sua crudezza, prima che “il chiasso del giorno porti parole diverse che non mi appartengono” (p. 63). Storie “imperfette”, quindi, appena accennate prese con un dettaglio, una frattura, uno spigolo dalla “massa enorme, gelatinosa” che è il dentro di ognuno di noi (“filamenti aggrovigliati e gonfi di malattia, pronti ad esplodere al primo contatto”), e che appena la penna della Gargano tocca scorrono fluidi senza più ostacolo lungo il canale da lei aperto.

 

Per concludere non possiamo che augurarci che l’autrice irpina, che in tutta la sua produzione ha confermato che “la vita più vera è quella che si scopre all’interno di noi stessi” e che “solo esplorando gli abissi dell’animo e cogliendone anche i segnali impercettibili” si scopre “il mistero delle cose e le leggi dell’esistenza” (Muri di lillà, 2005, pp. 66-67), possa condurci ancora in questi suoi viaggi che rinfrancano e arricchiscono. 

 

 

P.S. Questo studio, in forma ridotta, è pubblicato su “Riscontri”, 3, 2007.

 

 

 

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