Letture di
Mimma De Maio
Gli “scavi” di Annamaria
Gargano
.
Annamaria Gargano
è una scrittrice di estremo interesse sia se scrive
versi o se racconta, per il modo ammaliante di usare la parola. La parola che si fa leggera e delicata evocatrice di stati d’animo,
la parola che diviene racconto vero e vivo negli scavi della memoria e traccia
scorci di paesaggi interiori, che sono quelli essenziali del vivere. Per
questa sua capacità la scrittrice riesce a tenere legato a sé il lettore mentre lo conduce in un mondo che egli subito ama
perché lo scopre anche suo. Lo scavo che la trivella della memoria opera nel
suo vissuto diventa anche il nostro in un coinvolgente sentimento empatico.
1. L’iter artistico della
Gargano inizia con Muri di Lillà (Napoli, 1998; Avellino, 2005),
un lungo racconto autobiografico, costruito intorno alla figura del padre e
nato dal bisogno di non perdere, con la morte del genitore, la ricchezza della genuinità
di una vita serena nel paese e nella famiglia natale. Il racconto si inoltra, quasi famelico, nelle profondità del passato,
accompagnato da una memoria vigile ed attenta a recuperare ogni piccolo
elemento di un mondo - quello della
infanzia e della giovinezza - che la
presenza del padre e la lontananza rendono estremamente prezioso. Ecco gli
“squarci incantati” -
dirà l’autrice nella seconda sua opera -
che le consentono di “affacciarsi su uno scenario magico di
affetti e di esperienze che hanno accompagnato gli anni più belli della sua
vita” (Dissonanze. Storie sedute ed altro, Napoli, 2000, p. 45).
Questa è un’opera
“rivelazione” non solo della Gargano scrittrice, di
colei che sa attrarre affabulando, ma del valore
delle cose essenziali: il contatto con la natura, il paese natio, le figure
familiari, le mura di casa, il buon cibo casalingo, il tutto avvolto in una
gran massa di sensazioni, una totalità del sentire, che turba e calma, a dirci
che i momenti costitutivi della vita di ognuno sono sempre lì pronti a
rispondere al nostro richiamo. In questo denso sostrato si svolgono le vicende
normali della protagonista, che sono episodi, figure,
angoli di vita, momenti, dove gioie ma anche paure, ansie e dolcezze affiorano
con la stessa spontaneità e meraviglia nell’animo che le avverte. Ecco la fuga dal paese minacciato dal bombardamento, il ritorno
nelle rassicuranti braccia di una nuova casa, quasi a segnare una vita diversa
dopo una pausa di paura e che sarà il guscio in cui matura la vicenda; e poi la
chiesa, la scuola, la piazza del paese, tratti stupendi di campagna, e ancora i
giochi, le passeggiate.
A dominare e
rendere fondante il tutto c’è il padre, figura magica nella sua silenziosa
pensosità, elemento forte e rassicurante, punto essenziale di riferimento, nel
cui abbraccio si acquieta, di volta in volta, ogni
ansia della figlia: c’è il suo lavoro al tribunale, la sua presenza in casa e
in paese, e soprattutto lo struggente rapporto con la figlia.
Lo
ammiro perché non si è mai lamentato della sua infanzia, che pure deve essere
stata dura e con molte privazioni. Gli voglio bene anche per questo, per la
dignità silenziosa che lo accompagna in tutte le vicende della vita: mai
superbo, mai lamentoso, mai intollerante. I valori fondamentali, a me e ai miei
fratelli, li sta trasmettendo con l’esempio, senza alzare mai la voce (2005, p.
89).
Di contro si
staglia, esile e leggera, una bimba evanescente come i vestiti che indossa, che
“corre corre”, e “il nastro
nei capelli è ala bianca” che la porta da lui (p. 6); e poi una sognante e
pensosa adolescente, amante della solitudine che vive i travagli di un ricco
mondo interiore; infine una donna ormai presa dalla vita, ma sempre pellegrina
nei luoghi dell’infanzia divenuti luoghi dell’anima. Tre intense figure intorno
al padre fino a che tutto finisce nello strazio di una
rapida e inesorabile malattia.
Tutto questo è
raccontato attraverso uno scavo introspettivo di pensieri, desideri, attese,
atmosfere che è la vera cifra della narrazione. Scavo
a volte delicato, come nell’alzare un velo, e a volte spietato ma reso
possibile da una mano che media il forte sentire e lo mette sulla carta a
“sciogliere il grumo di angoscia che le toglie
il respiro” (ibidem, p. 45).
Quando
la sera mi isolo anche fisicamente dalla realtà, per
perdermi nel sogno, ritrovo la radice delle cose e della mia stessa vita e
tutto mi appare più reale di quello che ho vissuto durante il giorno. E la scrittura, come balbettio incerto e sonoro delle mie
sensazioni più profonde, è un canale liberatorio delle energie spirituali che
mi comprimono, fino a farmi male (ibidem,
pp. 66-67). […].
Rispondo
quasi sempre a questa urgenza liberatoria, che mi
sembra naturale […]. Le parole, passate sul quaderno, sono la mia medicina,
sono la mia compagnia nei giorni di pioggia, sono voli
di rondini che mi riscaldano il cuore, sono l’unica parte di me che continua a
vivere in pace con se stessa, senza sottostare alle leggi del tempo, ma al di
fuori del tempo, in una rarefazione di materia, che è come una sospensione di
tutto il mio essere e della corporeità di cui sono fatta.
La
scrittura soltanto mia e mai divisa con nessuno, è l’eternità che mi è toccata
senza che io la cercassi e vuole vivere in me, anche quando io la rifiuto
perché mi sento inadeguata ad assecondarla e le forze mi mancano per esprimere
quello che sento così come lo sento (ibidem, pp. 105-106).
Il romanzo serba
la spontaneità e la genuinità di quando le esperienze narrate furono fatte o
quei sentimenti furono per la prima volta avvertiti,
nello stesso tempo non ha il travaglio del vissuto, segno che è avvenuto ciò
che Croce intende quando parla di “sentimento contemplato” che si effonde
nell’animo con infinita risonanza. Risultato dovuto alla
disposizione della scrittrice ad accogliere con piena adesione il mondo lontano
che racconta, ad accarezzarlo, a guardarlo con amore, inconsciamente tesa a non
perderne neanche una briciola, coscientemente intenta a ri-goderlo
nel momento che lo ri-pensa, ad attualizzarlo e fermarlo per non perderlo.
I versi che impreziosiscono i capitoli del romanzo ci
dicono che il ripensamento del suo “tempo magico” è divenuto serena
contemplazione, se la poesia è la via maestra attraverso cui ogni forte sentire
si placa e si universalizza divenendo sentimento di tutti.
Ecco allora Tempo di parole (Avellino, 2002), terza opera
solo in ordine temporale, invece intimamente legata alla prima perché ne
raccoglie i versi e perché gli altri ne prolungano il messaggio e il godimento. Silloge poetica che diviene cornice che si
fonde con la tela, serto che inghirlanda. In questi versi, tutti
bellissimi, si scopre il segreto della poesia ma anche della prosa della Gargano: la parola che diventa onda di un’eco che
rimbalza sul denso amalgama del vissuto e va “a morire nell’ombra quieta dei
ricordi” (70), versi che sono picchi di luce alla ricerca di “residui di voli
lontani / di traiettorie precise / … / per creare uno stato / impermeabile /
alle sostanze nocive / agli sguardi taglienti / della vita” (p. 94), perché
“non contano le distanze / nel cuore” (p. 82), perché non si possono chiudere
“porte e finestre” lasciando fuori la vita, quella vera.
2. Lo scavo della Gargano
continua nella sua seconda opera narrativa Dissonanze. Storie sedute ed
altro (Napoli, 2000), dove, come dice Gabrio Vitali
nella quarta di copertina, la scrittrice “conferma la sua vocazione a
raccontare”. Qui però il racconto si allarga agli altri, persone a lei care o
solo conosciute, figure prese dalla sua quotidianità, ma anche rappresentazioni
di momenti autobiografici, inquietudini, sogni, prodotti del suo cercare. Tutto guardato con lo stesso trasporto, tutto reso di valore perché
preso a paradigma del vivere comune.
Lo scavo,
permesso dall’appropriata finzione di far passare i protagonisti nella sala
d’aspetto di uno psicanalista, avviene sul lettino del medico, in un valido
colloquio-soliloquio, che agevola la confessione, sicché il parlare scorre
spontaneo senza alcuna forzatura rivelando una cifra narrativa, che nella prima
opera era camuffata dall’impronta autobiografica. Non è l’autrice che racconta ma sono le persone a “raccontare la loro storia”
come spinte dal bisogno di recuperare una vista generale sui propri
accadimenti. La trivella è giunta in un punto in cui la polla sgorga spontanea,
guidata da forze profonde facendo emergere tutto un mondo di vissuti interiori
e di situazioni psicologiche legati al quotidiano, che rivelano il denso
dinamismo e i fermenti dietro ciò che appare come un
velo placido di acqua.
E lei è accanto
ai suoi protagonisti “mentre vivono”, a lei basta
ascoltarli, il cuore e il pensiero disposto (“e non faccio rumore, non do
fastidio: sento gli odori e guardo […] e vedo sempre interni bellissimi,
armoniosi e le persone mosse dai profumi delle loro azioni”, p. 56). Magico e
particolarissimo rapporto con la materia e con i personaggi del racconto che
evidenzia la capacità ad entrare nell’essenza delle cose, ad essere insieme
persona che ascolta e che chiede, che prende le parole le apre le “libera dal
guscio” per scovarvi il tesoro che è dentro, il “soffio divino nella materia”.
Così
la vita mi appare come un groviglio di gallerie sotterranee, apparentemente
confuse per noi, per la logica di noi uomini, ma razionalmente distribuite e
collegate fra loro, invece, secondo la logica della natura che non conosciamo
(p. 63). […].
Entra
timida, ogni giorno, da quella porta; di fronte a me
si spoglia di tutte le coperture, più o meno innocenti, e diventa sé stessa:
pulita, bella, levigata come pelle di bambino. Così si trasforma sotto i miei
occhi, e io affondo le mani nella creta, e impasto, scavo, giro, rovescio il
pupazzo di argilla, e me lo plasmo a modo mio, modello
ideale che scende come soffio divino nella materia (p. 67).
La cura con cui
Si hanno tante
storie minime, rapide narrazioni, che sono angoli di vita, flebili trame,
profili di anime, pezzi di cuore, echi, che tracciano
quella che il Vitali chiama “un’epica dell’esistenza”, “appartata”, che sarebbe rimasta silenziosa e
anonima se non fossero intervenuti il cuore e il pensiero della Gargano a
trarre da esse una goccia del segreto del vivere che si cela nel profondo
dell’uomo. Il libro diventa perciò un variegato campionario
di una umanità pazientemente dolente, ma anche strana, perché è quella profonda,
che costituisce per il lettore una “frustata alla coscienza”. Per questo Dissonanze di anime, scissioni, un
groviglio di sfumature interiori, impensabili paesaggi psicologici che la penna
trasforma in storie.
3. L’appropriato titolo della terza opera di Annamaria Gargano, Interni (Avellino, 2002),
conferma ciò che sono le sue storie, appunto “scavi”, penetrazioni. Il loro
racconto nello stesso tempo svela le strategie della Gargano
per mettere in moto la sua trivella e la capacità di camuffarsi dentro i
personaggi. Ciò avviene chiaramente per esempio col postino, il protagonista
del significativo racconto di apertura (pp. 9-25),
che, colpito da una tragedia familiare, la supera attingendo alle forze
interiori.
E
passava le ore in questi pensieri più grandi di lui, e scopriva una parte
ignota di sé che viveva, nel profondo, una vita autonoma, parallela a quella
che conosceva. E tendeva le corde dell’animo fino allo
spasimo per cogliere tutte le sensazioni che lo attraversavano, anche le più
impercettibili. E si sentiva in compagnia, e vedeva la
vita posarsi leggera sull’aia, accanto a lui, e sorridere tra i fiori di
ciliegio, e succhiare con lui il nettare dolce del sole. E il tempo arretrava,
impaurito, senza più forza davanti al suo sguardo,
infinito, alato, che volava abbattendo confini, barriere di spazio e di materia
nemica” (p. 11).
Questa scoperta
apre l’uomo, che appropriatamente non ha nome, ad altri interni, fa sì che le
lettere che consegna divengano “frammenti di storie
nella sua carne”, una umanità varia di cui scova “la vita nascosta dietro la
facciata”, “situazioni insospettate”, “abissi di angoscia e dolore pietrificati
sotto sorrisi convenzionali”. Eccolo dunque entrare nell’essere di tante
persone, “maschere indifese e involontarie di una recita collettiva”, avvertire
lo strappo tra l’apparire e l’essere, mentre la tracolla diventa pesante,
carica di conoscenza totale e di tutto il gravoso di questa umanità
nascosta (pp. 12-13).
Si svela in
questa raccolta qual è la chiave che apre gli interni garganiani:
“la voce”, “i toni, i cedimenti, le incertezze,
l’arroganza, la timidezza, la speranza” (Vite su misura, p. 27); o qual
è il luogo dove si creano storie bellissime, se si riesce ad aprire la porta,
se si lascia “cadere la pelle indurita, strato per strato” (Dimenticata,
p. 32). Ci si trova di fronte ad un susseguirsi di interni
umani, a volte malati, come quello del protagonista di Imprevisto col
suo cervellotico stratagemma “per beffare la morte, e non farsi trovare in
nessun mese dell’anno, in nessun giorno della settimana” (p. 36), o come quelli
che producono le manie di Senza motivo e di Una giornata più lunga,
ma si incontrano anche interni capaci di riscaldare e riempire una vita vuota e
fredda.
Ogni
mattina, invece, sempre la stessa atmosfera, grigia pesante di stizza malamente contenuta, e lei, bambina, si rannicchiava in se
stessa e alimentava la sua vita interiore, e costruiva palazzi incantati dove
solo lei poteva entrare e custodire il suo mondo speciale, fatto di luci, di
albe rosate, di tramonti carnosi, e viveva, felice, questa vita inventata. (L’ultima
tazza, p. 50).
Pur se la vita interiore che i personaggi di
questa raccolta ci raccontano può essere una “vita inventata”, essa appare una suggestiva possibilità, proprio come dice il filosofo rumeno
Emil Michel Cioran che
Sbattono, le parole, gemono, si gonfiano di vita a poco a poco, sotto le mie
dita stanche e disegnano storie perdute. Piccole storie, di piccoli uomini,
punti allineati nell’universo che li contiene tutti,
ammassati fra luna e stelle, così vicine, così lontane, nelle sere d’estate.
E
io mi aggrappo alle parole, giocoliere della vita che inventa, senza rete a
trattenere le cadute. Sono anelli di salvezza, le parole, tenere come le mie
notti di ragazza, per affondare dolcemente, precipizi d’amore che accolgono la
mia vita pesante di dolore, di paure mai confessate.
A
chi dire la mia disperazione?
Neppure
a te voglio raccontare quello che sogno ogni giorno,
ogni momento, ma i bisbigli fanno rumore e si aggrumano, tesi, a ferirmi a
sangue; e allora ricordo, e cerco di chiarire, di pensare piano, per non cedere
alla valanga maligna che non si scioglie al sole.
Corrono
insieme, oggi pensieri e parole, ben ordinati sulla traiettoria delle mie
emozioni, e io mi sento bene, e vorrei parlare,
finalmente, e dire come stanno le cose sulla terra anche per gli altri. (pp. 77-78).
4. Il passaggio a Marecielo (Avellino, 2003), la seconda raccolta di
poesie, è percepito come continuità con la prima silloge, perché anche questa è
un ripercorrere col verso le strade del cuore. Ritorna nella prima parte - Vieni a
trovarmi / padre / almeno una volta (pp. 9-49) - il ricordo struggente del padre che si fa
figura viva e vera nel miracolo della poesia (dal balcone / lascerò entrare /
il sole / come sempre / sulla tua poltrona / e ti vedrò dormire / riparato dal
giornale / e protetto / dal mio silenzio / senza lacrime), mentre il sentimento
della perdita diventa lirica rievocazione (Ci hanno diviso /mentre camminavamo
/ ancora insieme / abbiamo avuto / appena il tempo / di guardarci negli occhi /
e già eravamo lontani).
Ritorna - nelle intense
sezioni E tu riempivi / l’anima mia (pp. 53-81) e Ci sarà un angolo
per me… (pp. 85-121) - il doloroso
ripensamento di motivi, immagini, luoghi cari (sono erba / esclusa / dal
giardino / della vita / rampicante / che nasce / e muore / nelle crepe / di un
muro / dimenticato / dal sole /), che si allarga al dolore degli altri (si
arrampica / l’anima mia / sui muri
scrostati / e raschia / foglie tenere / dolce veleno / da masticare / per non
vedere / per non sentire / lo strazio della vita / che grida / dalla strada),
al male del mondo vissuto come proprio (lamenti di cani / sperduti / straziati
/ nell’incanto lunare / di una notte /
d’estate / eco infinita / dell’universo / che piange / dentro di me).
C’è un dolore
corale ed universale che l’autrice scopre soprattutto nel paese natale, che è
“profumo di terra / sbriciolata / fra le dita / e bagnata / di lacrime /
essenza / di ricordi / fragili / come fili d’erba”, e in tanti suoi elementi,
la chiesa, la piazza, certe strade, il cimitero; persino le sue “case
abbandonate” sembrano avere un’anima che soffre con lei.
Gocce innocenti
battono
suoni di fiaba
sotto finestre smarrite
vuote ormai
di volti e risate
gocce stupite
battono
parole amiche
su una lamiera
dolorante
di echi lontani
pioggia d’aprile
che porti
profumi di Pasqua
di giorni pieni
nel cortile di casa
io
qui
da sola
non basto
a disegnare
il mondo che avete perduto
cado
goccia anch’io
su una lamiera
dimenticata
(Nel cortile di una casa abbandonata, p. 107).
Nell’ultima
sezione - E
sognavo di stare ancora / nella bottega delle fate / del mio piccolo paese… - la più intensa, ci sono momenti essenziali
della vita di paese, accarezzati con grande trasporto e genuinità. C’è ancora,
e questo è significativo, il postino di Interni
con le sue storie, ci sono le sartine del paese,
amiche della zia (mi raccontavano fiabe strane / le compagne di mia zia /
quando sedevano intorno al fuoco / nelle lunghe sere quiete di neve […] mentre
sulle scintille volavano / sguardi e parole / e volavo anch’io senza paura /
sono partite tutte insieme / le compagne di mia zia / lasciando stoffe ago e
filo / mentre io crescevo / e cominciavo a capire / e sognavo di stare ancora /
nella bottega delle fate / del mio paese / dove sono tornata oggi / a cercare
il senso della vita / di una vita diversa / da cucirmi addosso / con una pelle
nuova), c’è la storia struggente del cane Giuggiù,
e ci sono Le “guagliotte” di sopra la strada,
sentito incontro con le compagne di una volta che non si può non leggere se si
vuol cogliere l’essenza e il miracolo dell’arte della Gargano:
Venite
presto
andiamo a piantare
parole
sulle pietre delle nostre case
sulle scale che ci hanno accolto
ogni estate
venite
siamo ancora noi
le risate
che risuonano sopra la strada
nei tramonti quieti
con gli usci socchiusi
e vecchie curiose
che ci guardano
sgranando rosari
venite
andiamo a rubare
nespole e fave
da masticare poi
rosse di corsa
sdraiate sull’erba
il cielo disteso
sopra di noi
e dare forma alle nuvole
e vedere un profilo
e dire un nome
eco dolcissima
del primo amore
da sognare la notte
a occhi aperti
la luna che spia
dai monti lontani
armonia di luoghi persone e cose
tessuto vero
delle nostre vite
riprendiamo il filo
compagne mie
possiamo volare
nel tempo passato
e mettere insieme
punto per punto
una veste nuova
io già l’ho indossata
per me per voi per quelle
che abbiamo perduto
lungo la strada
venite
andiamo a piantare
sogni e parole
sopra la strada
saremo un cerchio
senza inizio né fine
un falò al centro
come la sera dell’Immacolata
scintille che avvampano
e bruciano gli occhi la mente
il cuore
mentre guardiamo
l’amore nostro
e lo prendiamo per mano
poi sulla cenere
patate arrostite
che si sciolgono in bocca
con le nostre risate
venite
è agosto
ci siamo tutte
e ci chiamiamo
per nome
appello dolce
come nei giorni di scuola
vi ricordate?
uscivamo di corsa
per scivolare nel sole
che ci aspettava
per giocare con noi
alla settimana a nascondino
a guardie e ladri
e poi a casa
a tavola insieme
con mamma e papà
di fronte a noi
tempo fermato
eternità nel cuore
venite
presto
da tutte le parti
io sono seduta
sul primo scalino
della chiesa di San Nicola
come una volta
sopra la strada
sì
avete capito
come una volta
non è un sogno
ci sono tornata
e vedo tutto
in un solo presente
senza fratture
fra passato e futuro
e non manca nessuno
per stare insieme
finalmente
a casa
(pp. 135-138).
5. E siamo alla recente
opera della scrittrice Prima che la luna tramonti. Storie imperfette
(Avellino, 2006). Qui si conferma ed affina lo stile della
Gargano, inteso non solo come linguaggio
- prosa che si fa poesia - , ma come porsi, come modo di essere
dell’artista. L’opera traccia anche qui storie appena accennate, solo indicate,
qualcuna fulminante, momenti di vita, a volte anche
solo poche ore, che emergono dalla materia indistinta del quotidiano. “Un
piccolo campionario umano che scorre dinanzi ai nostri occhi” recita la seconda
di copertina, che subito diviene denso perché fatto
attraverso lo scavo della confessione e diviene nostro, per il fatto che è
raccontato in prima persona, stratagemma che trasforma il lettore in diretto
interlocutore.
Ritorna qui il
tocco leggero, il tono discreto del racconto altre volte usato per scoprire
velati angoli di interni, forse perché è il quotidiano
ad essere indagato o forse per la aperta disposizione della Gargano ad
accogliere il dolore di tutti, che già abbiamo notato in altre indagini. Anche
qui, insomma, la mano della Gargano si accosta,
pudica, in punta di piedi, si dispone ad essere vicino, a comprendere, a
compatire, mai a giudicare.
Questo risultato
nasce dalla posizione dell’autrice, da lei descritta nelle pagine introduttive,
dove ci parla di personaggi che “all’improvviso cominciano a farsi vivi” e le
chiedono di “ascoltare le loro storie”. La postura di colei che ascolta è ribadita dai versi del portoghese Fernando Pessoa: “Sarò sempre colui in attesa / che gli aprano la
porta, / accanto a una parete senza porta” e conferma ciò che è la scrittura
per
Anche qui le
storie sono vicende di interni, stati d’animo,
situazioni psicologiche in cui i personaggi si dibattono o dalle quali si
difendono, in tutte c’è un sottofondo di sofferenza, “dell’animo e del corpo”.
Sono pagine amare ma non disperate, storie non allegre, sempre problematiche,
ma che lasciano una speranza, che avvenga qualcosa a cambiare o a spiegarci il
male di vivere. E sono rese con la tecnica narrativa già sperimentata in altri
racconti, come in Dialogo ad una voce di Interni,
sono date non con una narrazione lineare, ma a tratti con un andare avanti e
dietro partendo da un nucleo, interrotte da indovinati flash back o sono rapide
epifanie coronate da piccoli colpi di scena, tecnica che crea un’atmosfera di suspence fino al colpo di scena finale che
giunge improvviso, e spesso suggerisce più che dire.
Si va dalla
fragile e delicata figura di una commessa dei grandi magazzini, turbata da un
malessere che sa di grottesco e diventa mania (Ti spiego come stanno le cose),
al problematico arredatore d’interni (Reparto di
gastronomia), a significative figure di anziani: l’ironico e disincantato
Eduardo (È stata una buona giornata), l’ingegnere “malato di solitudine
e di dignità” che trova un modo ingegnoso di alleviare la sua sofferenza (Guasti
in casa). Ci sono donne “normali” con i loro illuminanti momenti: Paola con
la sua emozionante scoperta (Passa a prendermi più tardi), Emma, col suo
tormentato segreto (Ti devo parlare), la bella signora di Ci farai l’abitudine con la sua scelta
liberatoria. C’è l’esperienza “forte e dolorosa” di Davide e Marianna, che
conoscono “la violenza dell’indifferenza e del silenzio” in un ospizio
governato da un “ordine perfetto” e da “giovani indaffarati” di Stanza 103.
E poi figure di scrittori alle prese con la loro
ispirazione, e la storia surreale dei due coniugi costretti a vivere legati
alle confezioni che scadono (Un uomo e una donna). Alcune vicende, come quest’ultima, hanno il sapore di storie kafkiane, cosa che
non sorprende, poiché, nel seguire
Oggi
Olga mi ha portato in un mondo dove non sarei potuta mai arrivare sa sola; in
un mondo di assoluta purezza e innocenza, dove gli
echi della vita normale arrivano smorzati, sublimati da una tensione spirituale
così forte da annullare le leggi della materia.
E
noi altri non possiamo permetterci di giudicare, con il metro delle nostre
misere ragioni, il mistero di due anime che si sono incontrate e viaggiano
insieme, oltre il tempo oltre la morte (p. 113).
Ci sembra che il
titolo di questa opera riassuma ciò che sono queste
storie e tutta la narrativa della Gargano: episodi raccontati al lume di luna, col
favore della notte, dove le zone d’ombra aiutano la confessione e il suo
racconto, dove la vicenda appena si vede, prima che la luna tramonti, prima che
il sole la illumini con la sua crudezza, prima che “il chiasso del giorno porti
parole diverse che non mi appartengono” (p. 63). Storie “imperfette”,
quindi, appena accennate prese con un dettaglio, una frattura, uno spigolo
dalla “massa enorme, gelatinosa” che è il dentro di ognuno di noi (“filamenti
aggrovigliati e gonfi di malattia, pronti ad esplodere
al primo contatto”), e che appena la penna della Gargano tocca scorrono fluidi
senza più ostacolo lungo il canale da lei aperto.
Per concludere non possiamo che augurarci che l’autrice irpina, che in tutta la sua produzione ha confermato che
“la vita più vera è quella che si scopre all’interno di noi stessi” e che “solo
esplorando gli abissi dell’animo e cogliendone anche i segnali impercettibili”
si scopre “il mistero delle cose e le leggi dell’esistenza” (Muri di lillà,
2005, pp. 66-67), possa condurci ancora in questi suoi viaggi che rinfrancano e
arricchiscono.
P.S. Questo
studio, in forma ridotta, è pubblicato su “Riscontri”, 3, 2007.
|
.
|
© www.mimmademaio.com - 2007