Annamaria Gargano
Annamaria Gargano, Sulle
scale di casa, Mephite, 2008, Atripalda,
pp. 168.
Ritorna Annamaria Gargano con una nuova opera - Sulle scale di casa - dove
poesia e prosa insieme sono impegnate in un compito unico e particolare, che disvela la cifra più vera di quest’autrice
irpina, che usa le due forme espressive per
rispondere al bisogno di indagare nei fenomeni interiori del suo essere poetessa
e scrittrice. Abbiamo già analizzato questa caratteristica della
Gargano mettendola in luce in tutta la sua produzione precedente quando,
in un numero di questa rivista (2-3, 2007, pp. 92-99), abbiamo parlato degli
“scavi” che Ora l’indagine si fa più mirata
poiché si volge a sue precise composizioni, indaga il sorgere di
quella ispirazione, ne svela il manifestarsi e ce ne offre l’approdo nel
verso, aprendo uno scenario interessante sul mondo della sua poesia.
L’autrice è profondamente presa da ciò che le succede
quando un particolare sentire irrompe nella sua esperienza quotidiana
e si trasforma in parole, va quindi alla ricerca di ciò che ha provocato quel
momento magico per rivelarlo al lettore. Lo fa con una finzione di grande impatto,
che è in invito ad entrare nel suo universo poetico ed insieme nel mondo che
lo provoca. Si pone con le amiche sulle scale di casa (“Sulle scale di casa / mi sono seduta / un pomeriggio d’estate /
a parlare / con le mie compagne”). Posizione genuina e seducente nella sua
capacità evocativa di un mondo non più infantile, che si apre alla vita,
complice dei primi segreti, di rivelazioni palpitanti
di vita (“su / raccontaci / come
scrivi poesie”). Questa situazione, rievocata nella poesia di
apertura (È successo così…),
permette al lettore di entrare nel mondo più vero dell’autrice, accarezzato
con amore e struggente desiderio, come tutte le cose che non possono più
tornare, e che è un denso e ricco sostrato umano che determina il miracolo della
sua poesia, di ogni poesia. “Solo là dove si è avuto vere radici si può
buttar foglie e frutti” dice infatti nell’epigrafe Da questo momento ogni poesia è accompagnata da
una prosa, breve, leggera, in competizione mai persa col verso, a cui fa da
chiosa, e, più volte o quasi sempre, ne è il prolungamento
poetico. I versi e la prosa entrambi sono lì a cogliere momenti particolarissimi,
attimi straordinari, ma estremamente fragili ed evanescenti,
appena palpabili, che si perdono se non fermati tra le parole, entrambi
complici testimoni-attori di uno stesso evento. La prosa a svelare la situazione
iniziale che ha dato il via ai versi e questi a travasare nel proprio crogiuolo
emozioni di sentimenti e pensieri, di sensazioni e ricordi.
Ancora una volta l’autrice scava dentro di sé, in
quell’ampio mondo interiore, che è nel fondo di
ognuno di noi anche quando ne siamo inconsapevoli, che invece lei ha scoperto
fecondo e vivo, capace di vera vita, unica vita,
autonoma, e capace di farsi prorompente, appena riesce ad alzare il velo che
lo nasconde. In questo suo universo ella sa
scendere, basta un nulla, un colore della natura, un pezzo di cielo, un profumo
di fiore, un raggio di sole o di luna, o anche un’impressione, una traccia
appena percepita, un’immagine, un angolo di paese, un nulla per tanti, ma non
per lei, ed ecco scattare l’incanto che il verso sintetizza. Di fronte a
questo miracolo l’autrice non può essere avara, non sa rinunciare al conforto
della sua munificenza nel partecipare agli altri un po’ del suo appagamento,
che è quello che vivono tutti i poeti, i veri poeti,
e lei con loro, quando riescono a saltare il recinto che chiude la realtà. Riesce il pensiero di una persona cara che non
c’è più a “trasformarsi in cascata di luce che porta via ombre e paure” (“Un
frammento / di sole / si è nascosto / con me / per farmi luce / nella notte /
della vita”, p. 19), il passato a farsi luce “nella nuda smemoratezza
del presente”. Riesce la visione di un frutto, amico della sua infanzia, a
provocare una salutare regressione, oppure un cespuglio di gelsomini a renderla
“preda felice di vento aria luce profumi tepore” o anche le capriole di un
delfino “tra mare e cielo” a diventare “un evento nel cuore”. E ancora, “un
gioco di luci e colori e un incessante concerto di voli e cinguettii tra i rami”
possono generare momenti di intensa magia (“divento
anch’io foglia, fiore, erba, rondine”), un tramonto può darle un brivido di
incantamento (“attraverso i vetri senza aprire il balcone, volo senza peso
che mi trattiene e divento anch’io vapore rubino, appoggiato soffice sul
mondo intero … dilatati i sensi, annullate le leggi della natura, sono terra
cielo aria fuoco”), persino un cestino rosso di ciliegie è capace di riportarle
la bambina di un tempo nella casa paterna (“Portavo / ciliegie rosse / alle
orecchie / sangue di gelso / sulle labbra / fiori di biancospino / nei
capelli / e piantavo / pietre dolci / nell’orizzonte / di rondini / che mi nascondeva
/ il futuro / sognavo allora / di volare / oltre quel muro / di primavera / e
scoprire / un mondo nuovo / l’amore / forse / e non sapevo / che il seme
della vita / già fermentava / nell’universo immenso / del mio giardino”, Portavo ciliegie). Il lettore è preso da questa operazione,
sicuramente ben riuscita, e scopre che alla base di tutto questo miracolo,
c’è il mondo di una felice infanzia e di una sognate giovinezza, quello
dell’autrice, c’è la sua casa, la scuola e tanti luoghi amati del suo paese,
ci sono le persone care e mai andate via, il padre, la madre e le zie, le
amiche, c’è tutta la sua gente, ma quella di una volta. Tutto questo universo è la vera fonte della poesia e della prosa
garganiana, un “infinito di malinconia” che troviamo
in ogni suo scritto, ma soprattutto nella sua opera-prima, che è anche il suo
capolavoro, Muri di lillà (Napoli,
1998). La scrittrice
ne è pienamente cosciente: è “una provvista preziosa
che ancora mi accompagna, che mi aiuta a vivere, oggi”, sono preziosi momenti
magici che “vivono per sempre dentro di me, di notte mi fanno compagnia” (pp.
89-90), dice. Non è secondario il fatto che l’incontro con questo regno
dorato avvenga sulle scale di casa, ancora una volta le scale, centro e
simbolo, fulcro che permette l’entrata nella casa grande che l’attende al di là della porta, dove si raccoglie tutta la sua “vita
di luce” (Azzurri silenzi), né che
avvenga in un giorno di Natale, dietro il tempestare dei ricordi (“il caldo
di Natale / ha muri alti / e porte di marmo / battute da pugni d’amore”, Natale 2003). Sa Seguiamo l’operazione della scrittrice raccontata
in prosa “oltrepasso, leggera, i tempi della vita e mi perdo nei labirinti
del sogno … ecco la strada per arrivare a te … felicità reale nell’infinito
del sogno … e giorni lunghi e fragranti .. e mani
piene … di te …” e trasferita nei versi: “Tre strade / in sogno / e tu
all’orizzonte / e impronte smarrite / di chi / come me / cercava una fonte /
un’acqua sorgiva / per bere la vita / e bagnarsi le mani / gli occhi / i
pensieri / e rubate radici / da portare nel cuore / e farle fiorire / corolle
carnose / rifugio sicuro / da chiudere a chiave / quando nessuno risponde /
tre strade diverse / ma io non le vedo / sto cercando / due mani / le voglio
sentire / le voglio toccare / sei tu / amore lontano / sei tu / amore
smarrito / che voglio trovare / e non so dove sei / non ci sono più /
impronte / non ci sono più / strade / non ci sono più / fonti / per dare
linfa / alle mie radici / solo terra sassosa / pelle ruvida screpolata / nido
di anni / di speranze cadute / di pensieri superbi / diventati sabbia / che
scivola via / fra le dita raccolte / per trattenere la vita / tre strade
diverse / ritornano / ora / e anche tu sei tornato / a riempire il mio
sguardo / a ridarmi la vita / acqua sorgiva / antica di anni / di sogni conclusi
/ di sponde fiorite / di sentieri tracciati / da passi leggeri / che camminano
/ insieme” (Tre strade, pp. 91-95). Noi ancora una volta dobbiamo dire grazie alla
poetessa per averci offerto emozioni, dolcezze, malinconie, grazie di non essere
stata avara, mettendole “al riparo da sguardi indiscreti, nello scrigno privato
dei ricordi più cari, dei giorni vissuti in completezza d’amore”,
ma di averci regalato la sua “luce”, il suo “azzurro”, il suo “cielo”,
(p. 161), di averci ancora una volta condotto nei suoi viaggi che “rinfrancano
ed arricchiscono” (“Riscontri”, cit., p. 99).
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