Lettura di opere letterie

 

 

 

Prima della Luce di Mario Gabriele Giordano

 

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Mario Gabriele Giordano è uno studioso di letteratura italiana che ha arricchito il campo dell’esegesi di originali contributi, resi con tale finezza espressiva da diventare veri gioielli. Se in questi casi è stata la critica a giovarsi di una sua distinta qualità, bisogna ora riconoscere che anche l’attività letteraria vera e propria si giova, in una sorta di vicendevole arricchimento, del suo acume critico.

Nella narrativa dello scrittore irpino infatti è ben tangibile il gusto dell’indagine, che acquista freschezza e brio nei più liberi spazi delle esigenze vocazionali e che trova nella concisa finezza del racconto breve  – il modello narrativo della raccolta Prima della luce -  lo spazio adatto per accogliere il guizzo estroso di una genuina dote di rapida e profonda penetrazione. D’altra parte il Giordano da oltre due lustri ne prova nelle gustose analisi editoriali di “Riscontri”, la rivista di cultura e di attualità da lui diretta.

“Racconti brevi brevissimi minimi”, dunque, che sono bozzetti, profili, farse, metafore, tracciati da una prosa netta, solida, precisa, che nell’agilità della battuta, nell’arguzia sottile e accorta della sottolineatura palesa un raffinato umorismo. L’ironia che modulatamente avvolge la materia è nel procedere sornione del racconto, nell’uso mimetico della dialettica e dell’iperbole, nel tono convinto e serio e permette all’autore di porsi nella giusta distanza dalla materia, sia quando egli stesso entra in scena come attore o quando la materia è filtrata attraverso l’esperienza personale, sia quando è necessario smascherare vizi e magagne.

L’opera delinea una condizione umana che specularmene si coglie nel racconto che dà il titolo alla raccolta e nella riflessione di Kafka posta in epigrafe, quella cioè di chi vive come invischiato nelle pastoie del sogno e del vino, avviluppato nell’oscuro moto del vivere, non realtà nemica, segno bensì di un ordine incommensurabile che emotivamente attrae e si accetta ma che pure beffa e schiaccia. Atmosfera che appare dominata da un’ontologia del dato con funzione demistificante (ne sono esempi l’insetto di La mosca sul naso, il rospo di Viaggio leggero, ma anche la maceria di Eugenia o il fosso di calce viva di La scatola dei sogni).

Si muovono in questa impasse creatura spoglie, cristallizzate nelle loro piccolezze, inaridite dalla rinuncia, abulicamente immerse nel quotidiano, esistenze grigie e dolenti; gente non cattiva ma sterile che vive nel buio dal quale non avverte il bisogno di uscire o non ne ha la capacità, e continua a rimanere al di qua del varco, continua a vivere “prima della luce”.

L’assenza di luce caratterizza e determina l’umanità ritratta in questi racconti in due modi: da una parte c’è un frammento di mondo contadino e paesano, semplice e povero, dall’altra un angolo della piccola città di provincia mediocre e banale; il primo segnato dalla fatica e dal dolore, immobilizzato e rassegnato, un mondo non idealizzato ma accarezzato con nostalgia, il secondo solcato dalla nevrosi, nudo, impersonale, che l’autore ritrae ora con divertita arguzia ora con acre sarcasmo. Pur nelle aride secche dell’assenza gli spazi del paese sono però diversi da quelli della piccola città, in essi almeno alla pena del vivere rispondono i paesaggi e le voci della natura o le lontane luci del cielo.

In Viaggio leggero si scopre questa divaricazione: da una parte c’è la vita che si avvilisce nel non senso (“Svestirsi la sera per rivestirsi la mattina, togliersi le scarpe per poi calzarle di nuovo e allacciarsele stando scomodamente piegato sullo sgabello dello spogliatoio, dire buon giorno e buona sera, aver fame, aver sonno e aver sete giorno dopo giorno”), dall’altra il “piccolo paese” “in collina” di fronte alla “grande vallata luminosa con in fondo il profilo orlato dei monti ai confini del cielo opalescente”, rifugio per l’animo stanco; dicotomia che si ritrova nella figurazione dell’aldilà: ora è un’aria leggera e luminosa che risolve la pena della Bambina di nome Mirella, ora un luogo nebbioso e freddo dove inconsapevolmente approda un anonimo rappresentante di commercio (Approdo silenzioso).

Nell’uno e nell’altro caso di questi due mondi  - il paese e la piccola città -  la umile realtà di ogni giorno, l’essere-nel-mondo, è privo di una prospettiva di valore, di una qualche trascendenza cui aprirsi sia pure in un abbandono fideistico per accoglierne l’azione fecondante. Inevitabile perciò in entrambi il fallimento.

Nel primo caso si fallisce come il vecchio professore, i cui successi solo dopo la morte si scoprono ironicamente “una luminosa carriera”, non riuscendo ad accedere alla fecondità dell’exemplum, e fallisce chi soffre: il dolore dell’uomo infatti resta “un pianto desolato” e “disperato”. Persino la religione, espressa a livelli immaturi (ne abbiamo un esempio in Santi e ladri, ma pure in La trave di fuoco), non ha forza. Nel secondo caso i personaggi, tutti nella condizione di essere-agiti-da, vivono nello scialbo rapporto col relativo o brancolano alienati. Ne sono esempi l’episodio di La mosca sul naso, magistrale rappresentazione della fuga dalla realtà resa divertentemente attraverso la pantomima di una disintegrazione psicologica, e Il pulpito del mondo, certamente la più bella parodia di due comportamenti umani sottolineati dall’uso sapiente di un climax bruscamente interrotto e da calzanti elementi di cornice.

Dinanzi a questo doppio fallimento c’è la ricerca per capire del giovane avvocato di La città vuota e c’è la sua scoperta di un vuoto, che è l’assenza di un “dentro” che sorregga l’uomo e lo guidi. La protagonista di questo racconto ha in sé la medesima aridità della “bella bionda Maria” di Una prova eloquente o dei protagonisti di Un’affettuosa amicizia.

A questa umanità  manca insomma quella capacità di sguardo su di sé e sulle cose, possibile solo a chi si pone nella prospettiva di cui dicevamo, della quale l’uomo ha bisogno per costruire la propria autenticità; cosa a nessuno preclusa neanche all’umile becchino di Prezzemolo e mutande e che conduce all’assunzione di responsabilità, è speranza e diviene azione significativa.

Anche per questa via si giunge alla condizione di obnubilamento propria del sogno e dell’ubriachezza cui accennavamo prima. In questo senso l’andare dell’ubriaco, a cui Kafka richiama dall’epigrafe l’uomo pensoso, diventa uno stato da superare e l’invocazione contenuta nel racconto del sogno: “Dio mio, Dio mio quando verrà il temporale” si configura insieme una presa di coscienza e la richiesta di quella liberazione. Nello stesso tempo però essa appare un comodo affidarsi ad un Dio demiurgo, quasi una deroga dall’impegno personale e se consideriamo che quella invocazione viene dall’oscurità del sonno, essa si trasforma senz’altro in un atto di resa, la conferma di un’impotenza, in sintonia con tutto ciò che i racconti significano.

A questo punto ci viene da pensare all’abile invenzione del racconto-premessa (Quasi una premessa) e ci viene da considerare che ciò che invano cerca lo strano signore nella libreria non sia un modulo narrativo o un preciso argomento ma proprio ciò che non c’è nei libri dove s’aduna tutto l’umano sapere al quale per altro costui dichiara disinteresse. Non è infatti il prodotto dell’uomo  - il popperiano mondo 3 -  conservato nelle pagine dei libri a provocare quella conversione delle coscienze che manca ai personaggi di Prima della luce. E ci viene da concludere che nel rispondere all’invito del libraio il nostro autore abbia voluto restituire la pariglia a quel signore dandogli nel contempo una risposta.

Questa è la duplice operazione che fa Mario Gabriele Giordano. Prima infatti ci conduce, col suo divertiro sguardo sulle nostre inadeguatezze al superiore godimento dell’uomo che ride su di sé, poi da quelle altezze, lui, educato classicamente, ci offre il fondamentale sentimento della gioia della bellezza che si intravede in quella luce di cui parla il titolo della sua opera.  

 

 

Da “Riscontri”, 1991

 

 

 

 

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