Analisi di un'opera
letteraria
L'INQUISITORE DELL'INTERNO SEDICI di DANTE TROISI |
Con questo intervento si intende ricordare lo scrittore irpino nel secondo anniversario della morte avvenuta a Roma il 2 gennaio 1989. Egli ebbe modo di leggerne il testo giudicandolo "illuminante " anche per lui come risulta dalla seguente lettera inedita indirizzata all'autrice: |
Roma, 22-6-87
Cara Signora, soltanto oggi ho ricevuto il
suo straordinario saggio sull'Inquisitore, perché la lettera è stata spedita al
vecchio indirizzo. Mi dispiace. Avrà pensato a indifferenza
o sufficienza da parte mia. E invece mi affretto a dirle
che sono sinceramente emozionato della sua capacità di penetrare il romanzo in
ogni piega. Di tante recensioni, la sua mi pare, anzi è tra le più acute:
rivela con chiarezza ogni significato della vicenda e,
mi creda, è illuminante anche per me autore. Una fortuna averla tra i miei
pochi lettori. La ringrazio affettuosamente. Spero che abbia
subito questa risposta. (Ho cercato tramite
Con riconoscenza.
Dante Troisi.
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* |
.
Quando
il pensiero affronta la via della speculazione fa
un'operazione che non manca di avere suggestioni tanto più affascinanti
quanto più si investono quei significati che sono alla base della stessa vita
dell'uomo. È
il caso dell'ultimo romanzo di Dante Troisi, un libro profondo ed
inquietante, un'avventura del pensiero, una catarsi dell'uomo razionale che
si libera della propria cecità e tracotanza e raggiunge una più corretta
visione della vicenda umana nel mondo. La
storia inizia con la protesta di un giudice contro il Male che sembra non
dare scampo all'uomo non riuscendo ad essere vinto dal Bene. Egli, che quotidianamente è costretto a dire dov'è l'uno e dove
l'altro, si pone l'interrogativo se l'uomo può arrogarsi questo terribile
compito, allargando, poi, la problematica al Male che l'uomo non riesce a
sconfiggere e giungendo all'amara conclusione che il mondo è dominato
dall'oscuro ed impenetrabile Mistero dell'Iniquità. Gli si insinua il sospetto che persino Ecco,
allora, il protagonista, il giudice Sergio-Ignazio-Egidio
M. progettare un delitto che dovrebbe comprendere tutto il male possibile e
che diviene strage apostatica, poiché uccidere il
padre, la madre, la moglie e il figlio con lo scopo di provocare una specie
di catarsi e, quindi, anticipare la parusìa
promessa da S. Paolo, è un atto contro l'ordine stabilito da Dio nel mondo. Questa
operazione estrema viene fatta scientificamente
dall'uomo che scinde la sua complessa realtà in tre parti ognuna delle quali,
dotata di individualità propria, agirà indipendentemente ed in piena autonomia.
C'è l'anima razionale ed ecco il giudice divenire Ignazio M., che progetta la
strage, c'è l'anima attiva ed ecco Egidio M., che dovrà attuare il delitto,
c'è l'anima riflessiva, quella gravida delle implicanze
della Storia, ed ecco Sergio M. Il
delitto avrà, dunque, chi lo progetterà, chi lo eseguirà, e, infine, chi lo
giudicherà, l'Inquisitore. Ma per giudicare un'azione bisogna che la si inquadri in un complesso di norme morali e civili ed
ecco Sergio essere monaco e giudice, parlare, cioè, con la voce delle verità
religiose e civili che Mentre, allora, i primi due fratelli, il pensiero e l'azione, operano
nell'intento di attuare il progetto, l'altro, Sergio, concretizza la sua
riflessione nella stesura della requisitoria per il processo contro i suoi
fratelli, dopo che questi avranno consumato la strage. Dei
tre Sergio è il più sofferto, rappresentando la parte più problematica
dell'uomo. Conoscerà egli il terribile tormento dell'uomo che riflette. Sarà,
infatti, dilaniato da dubbi, ripensamenti, incertezze, a cui si alterneranno
momenti di rinnovata fiducia nelle verità della fede e della morale umana. Il
suo andare da un assunto ad un altro è proprio della mente umana che è
"un abisso di taglienti ed indecifrabili contraddizioni", che
straziano l'animo che diviene "un oscuro campo di morte". Sergio
non approva la temerarietà della parte razionale dell'uomo, ma non può
rimanere insensibile alle sue seduzioni che offuscano le proprie certezze cui
si attacca quasi per protezione. E se consideriamo che egli stesso, sapendo
del delitto, è colpevole, perché non lo ha impedito, la requisitoria prende
l'aspetto di un atto di autoaccusa,
e quel suo voler andare alle radici dell'errore dei fratelli, in una lettera
che scrive ai colleghi, diventa uno spiegare a se stesso, un prendere
coscienza di quel delitto, per poi essere pronto, dopo una prima necessaria
purificazione liberatoria, ad iniziare il processo. Così
Sergio individua il momento che ha fatto scattare la molla della ribellione
nell'incontro con un imputato in un normale caso giudiziario, solo che
costui, un arrotino, è muto, e non può raccontare la sua verità. Quella
mutìa, lo sguardo silenzioso dell'uomo, sembrano
mettere sotto accusa l'atto stesso del giudicare, come un'ipocrita
presunzione di sapere dov'è il Bene, dove il Male. È, a questo punto che
inizia l'azione di ribellione tendente a rompere l'ordine della Creazione. L'uomo
si sdoppia liberandosi dai freni della Fede e della Storia e, mentre, come
abbiamo detto, Sergio resta in Tribunale a rappresentare quella parte di
ognuno di noi che è, appunto, il prodotto del nostro
essere nel mondo, gli altri due fratelli, il pensiero e l'azione, Ignazio ed
Egidio, s'allontanano per progettare l'uno e realizzare l'altro la strage.
Essi operano in parte uniti, rappresentando due
momenti inscindibili dell'uomo, e, in parte, separatamente. La
vicenda subito acquista i caratteri di un rito sacrale, sottolineato
dall'essenzialità del linguaggio e dal simbolismo, che dà un preciso significato
a cose e persone. Così,
l'Interno Tutta
la vicenda si svolge, dunque, in questo viale, che, come una lama, taglia la
città, sottolineando la lacerazione, che in esso si
creerà, nell'ordinato scorrere delle cose. Qui
ha sede il Tribunale, ove si affronta quotidianamente il Mistero
dell'Iniquità, qui c'è l'edicola, chiusa per lutto, perché in quel giorno si
perpetua l'attentato al Male, di cui essa è depositaria, nei giornali. Di qui
è fuggita tutta la popolazione in attesa, nelle
case; qui c'è quella fontana, cui non può abbeverarsi il cane, poiché coloro
che non avvertono gli stimoli del pensiero non possono essere coinvolti nella
vicenda dell'uomo che pensa. Ma,
soprattutto, nel viale c'è quell'arrotino, che
aveva dato inizio al progetto di strage, e che subito si configura come un
personaggio chiave, rappresentando "chi sa pensare", come il nostro
giudice, ma chi non ordisce azioni proditorie, perché riconosce l'umano
limite, anzi, con la sua mutìa ne
è l'espressione, chi, mansueto, rispetta l'ordine costituito, chi
chiude in sé i propri dilemmi. Due condizioni lo distinguono dal giudice, il
suo mestiere di affilare le lame per gli altri e la sua mutìa,
che gli impedisce ogni azione diretta, condizioni che ne sottolineano
anzi la funzione di tacito provocatore. Così
l'arrotino, dopo aver dato inizio alla vicenda, ne accompagna
tutto lo svolgimento con quel suo andare avanti e indietro lungo il viale,
con l'essere un momento necessario d'incontro con gli altri personaggi ed
inconscio depositario dell'arma del delitto, come un sacerdote che presiede
la cerimonia lasciando però che ogni partecipante svolga il suo ruolo. Ma
finché durerà l'atto proditorio egli soffrirà
l'atmosfera di pericolo che domina il viale, né potrà unirsi a Diomira e
Sergio portando a completamento l'immagine dell'uomo vero che in lui si potrà
realizzare. Diomira
è un altro elemento importante del rito. La sua funzione di custode del luogo
ove avviene la suprema tragedia umana, la sua prescienza nel conoscere tutto
del delitto e degli esecutori, il suo non intervenire rispettando il libero
arbitrio, quel suo particolare lavoro a maglia, che consiste nel mettere
vicino fili colorati per confezionare uno scialletto
che alla fine indosserà l'uomo nuovo, il suo far infilare l'ago quasi a
sondare la disposizione d'animo, il fatto che i fratelli s'avvedono di lei solo quando è già cominciata la catarsi, sottolineano il
ruolo sacerdotale della donna nell'essere ministra della Verità Rivelata. Ella non è solo guardiana del luogo ove si realizzerà la catarsi
dell'uomo ribelle, ma anche custode del Disegno Divino, assicurando che
questo si realizzi, non ostacolando, però, il corso degli eventi, in cui
operano esseri dotati di libero arbitrio, ma aiutando chi, ben disposto,
viene a contatto con lei. Per
prima Diomira s'incontra con Egidio. E' questo il più debole dei fratelli soprattutto quando non è sostenuto dalla ragione. Egli,
infatti, appena è nel viale, solo col suo compito, viene
assalito da una crisi, che è proprio di chi si sente
"insufficiente", "come un credente che esegue i gesti rituali
mentre un altro recita le preghiere", sottolineando la necessità
dell'unione, in ogni vicenda umana, di pensiero ed azione, Dal mondo della
natura, da quelle formiche, che, dopo la distruzione da lui perpetrata,
riprendono il loro andare, in doppia fila, come se nulla fosse accaduto, gli
viene il segnale che è pazzo il sogno umano di penetrare il disegno del
creato e che "il soprannaturale non si fa mai natura". Altra tappa
della sua evoluzione è l'incontro con l'arrotino, a cui non può demandare,
come vorrebbe, il compito di sicario, perché scopre senza voce, e con Sergio,
che dal Tribunale lo guarda senza intervenire. Egidio è solo col suo dramma e
deve, può, risolverlo da sé, nel proprio intimo, essendo superiore, perché
uomo, a quelle formiche che sono solo un elemento di
quell'ordine della natura che lui voleva, invece,
sconvolgere. Tutto questo egli lo capirà nell'incontro con Diomira, che ne
sonda, con muta apprensione, la disposizione, facendogli infilare l'ago e
comprendendo che il processo catartico era avviato. Diomira appunto gli farà
capire che non c'è bisogno di atti proditori "per essere liberi" e che l'uomo può
trovare la risposta ai propri perché proprio riuscendo ad interpretare
l'ordine che c'è nel creato, Con
Diomira s'incontra anche Sergio quando, dopo aver superato il suo primo
dramma, che si era concluso nella terribile analisi
della requisitoria, si reca nell'Interno 16 per iniziare il processo ai
fratelli, ma l'incontro sarà più fugace, poiché Sergio ha già accettato la
verità rivelata. In lui c'è un'altra tragedia che è quella dell'uomo di fede
che si scontra con l'uomo razionale. Lo
scontro, drammatico, avverrà appunto nell'Interno Qui
si comprende che, se pure Sergio non ha trovato i cadaveri, se pure ha tolto l'arma del delitto all'arrotino senza che questi
l'abbia consegnata all'uccisore e che quindi il delitto materialmente non è
avvenuto, ugualmente i fratelli sono colpevoli, compreso Sergio, poiché il
pensiero umano può fare del male "nascosto". Ignazio ed Egidio,
infatti, si accusano del delitto, anche se professano un'innocenza diversa da
quella che si considera in Tribunale. Qui
avviene lo scontro con Però perché questa verità possa essere portata agli uomini, Sergio,
unitosi ai fratelli, deve purificarsi nel dolore, essendo ogni atto umano il
prodotto dell'uomo preso nella sua interezza. Nel supplizio, che supera per
intensità la stessa morte, si purifica ogni proditoria colpa umana e nasce
l'uomo nuovo, che, però, non è ancora completo, dovendo acquisire quelle
caratteristiche che sono rappresentate nell'arrotino. Intanto
costui è pronto ad unirsi con Diomira, verso cui, in modo sempre più
cosciente, si sente spinto; e la guardiana l'attendeva sicura della vittoria
finale dell'uomo che accetta i propri limiti e corregge la propria
cecità, come se questi atti proditori facessero
parte dello stesso Disegno Divino. Egli in un sogno chiarificatore ha preso
coscienza del suo stato e lo dimostra nel superare un improvviso ostacolo,
che trova sulla sua strada. Come
Isacco l'arrotino aveva portato inconsciamente l'arma del delitto senza
sapere che era volta anche contro se stesso, e,
ancora come per Isacco, non è necessario il sacrificio, poiché Dio ha voluto
provare la capacità dell'uomo - del giudice - di riaversi dalla propria
caduta e saper conquistare, senza perdere la propria dignità, la coscienza
del suo vero posto nella Creazione. L'umanità
ricostruita dall'unione di Diomira e dell'arrotino sarà rappresentata anche
da una giovane donna e da un bambino, che per tutto il tempo avevano atteso nel cortile del palazzo, il primo giocando,
la seconda trepidante affinché il Male non recasse danno al bimbo. Nell'atrio
del palazzo avverrà l'unione dei quattro che richiamano quel padre, quella
madre, quella moglie e quel figlio, che si erano offerti in sacrificio, che
ora sappiamo inutile poiché certe conquiste non
possono essere derogate ad altri. Dopo
che l'arrotino avrà facilmente infilato l'ago, potrà salire nell'Interno 16
per raccogliere il nuovo Sergio, che avrà la verità da lui conquistata da
raccontare, che non è dissimile dalla verità che l'arrotino ha ora in sé,
meritata per la sua mansuetudine e disponibilità, ma che non può esprimere,
poiché non illuminata dalla conquista razionale che è propria dell'uomo. Anche Sergio, purificatosi dalla protervia della ragione,
dovrà necessariamente unirsi all'arrotino, di cui sarà la voce, poiché gli
mancano quelle virtù che questi ha in sé. Solo così, il giudice-arrotino, l'uomo completo, potrà finalmente indossare lo scialle confezionato da Diomira, perché il posto dell'uomo nella Creazione è quello di chi, con umiltà, ma senza nulla derogare al valore della sua ragione e del suo essere uomo, s'immette nel Disegno Divino accettandolo e interpretandolo. Tutto ciò non sminuisce l'uomo anzi egli proprio perché ha il compito di instaurare una convivenza umana senza quel male che non innalza, ma degrada chi lo commette, è al centro della storia, unico responsabile di tutto il bene e il male che è in essa. |
In "Riscontri", n. 1 (gennaio-marzo 1991), pp. 99-105. |
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