Le internate di Antonietta
Favati
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Antonietta Favati, Le internate, prefazione di Francesco Barra, Atripalda, Mephite, 2002, pp.
117, € 7,50.
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Le
internate di Antonietta Favati apre uno
squarcio di grande interesse sull'internamento fascista in Irpinia portando alla luce una realtà che era rimasta
sconosciuta o meglio tenuta lontana, "rimossa" come tanta
"memoria" di questo periodo. Indagare
nel passato può avere il sapore dello smascheramento quando
si penetrano ambiti del tempo lasciati informi dando loro la originaria
fisionomia e se questa indagine la si applica a eventi poco graditi può
succedere di scoprire proprio ciò che è avvenuto a Solofra, in provincia di
Avellino, ed al suo Campo di internamento, che era stato da tutti
dimenticato, nessuno lo conosceva, ne parlava o ne voleva parlare. Non
a caso è stata una non solofrana a scoprirlo, ad incuriosirsene e a volerne
sapere. Anche la documentazione su questa realtà era carente, distrutta, come è successo, da chi ha pensato di cancellare ciò che
riteneva vergognoso o non degno di memoria dimenticando che il passato, ogni
passato, ha la sacralità del vissuto. Ben
arduo è stato quindi il compito della Favati che ha
sopperito alla carenza documentale scavando con
caparbietà nella memoria delle persone che avevano vissuto in quel periodo o
in qualche modo lo conoscevano. Ha chiesto, ha interrogato e quella memoria
si è aperta, quelle persone hanno ricordato ed hanno
parlato. La
ricchezza del recupero della Favati
sta proprio in questa indagine sulle testimonianze che sono state
correttamente confrontate tra di loro e con i documenti, con pazienza e con
costanza, fino a che tutta la vicenda è stata chiara ed ora la si legge in un
bel libro pubblicato da una casa editrice irpina,
nata da poco e che si qualifica per dar voce a studi di ambito meridionalistico, Le
internate
dunque sono la storia del Campo di internamento
solofrano, uno dei tanti e che all'atto dell'entrata in guerra dell'Italia
accolsero le persone di nazionalità dei paesi di cui l'Italia era diventata
nemica. Nel
giugno del 1940 infatti una circolare ministeriale
affermava che "all'atto della dichiarazione di guerra avrebbero dovuto
essere arrestate le persone di qualsiasi razza capaci di turbare l'ordine
pubblico e commettere sabotaggio o attentati". In realtà in questi campi
furono concentrati anche ebrei stranieri, residenti in Italia o di passaggio
- per ebrei stranieri si intendono anche cittadini
italiani ebrei, non nati in Italia - slavi presi durante i rastrellamenti e
zingari. Il
campo di Solofra aveva però una particolarità: era
femminile. E questo è un elemento che ha contribuito a quell'ostracismo,
di cui dicevamo, in tempi in cui tutto era al maschile e quelle donne erano
sole, recluse, e per di più venute da lontano mentre la carenza
delle informazioni creava intorno a tutta questa realtà sinistre ombre. Quello
di Solofra non aveva nulla degli orrori che pure esistevano in altre parti
d'Italia. Niente baracche o garritte,
niente fili spinati o mitragliatrici spianate, niente della triste vicenda
delle leggi razziali che pure l'Italia viveva e soprattutto nessuna presenza
nazista. Il
campo era collocato in un palazzo ancora oggi esistente in via della Misericordia
alla Fratta, non aveva condizioni di vita umilianti, non c'era sopraffollamento - 50 posti letto mai interamente
occupati - né l'edificio aveva problemi di invivibilità,
invece le recluse godevano di un'assistenza sanitaria solerte e di una degna
alimentazione. Ecco un altro apporto della ricerca, quello di
restituirci delle condizioni di vita umane, fatte di relazioni intessute
senza alcuna prevenzione e descritte con trasporto e partecipazione dalla studiosa.
Così scopriamo che le internate ricevevano lettere e pacchi, che godevano di un sussidio, che "avevano la possibilità
di prendere aria nel cortile, sulla terrazza e in giardino", che
addirittura era loro garantita una "passeggiata settimanale",
controllata dagli addetti al campo e lungo un perimetro periferico, e in caso
di malattia grave per loro era pronto il ricovero presso l'ospedale locale,
né mancava il conforto religioso. E
scopriamo alcuni personaggi della Solofra fascista che ebbero a che fare col
Campo, uomini di grande rettitudine di cui il
fascismo si serviva e che lo vivevano con lo spirito di chi indirizza il
proprio dovere al servizio della comunità; scopriamo le relazioni informative
tra le istituzioni centrali e il Comune, le difficoltà di quest'ultimo
nel ricevere il rimborso delle spese sostenute per il mantenimento del Campo,
e financo i controlli della Croce Rossa. È
uno squarcio della quotidiana vita paesana ed irpina
che diventa più preciso alla vigilia del
bombardamento del settembre '43 che portò allo sfascio delle strutture
fasciste. Nel fragore del mezzogiorno di fuoco solofrano le prigioniere
fuggirono nei ripari che accolsero tutti i solofrani, trovando poi facilmente
asilo presso alcune famiglie del posto senza subire alcuna
ritorsione prima di prendere, ciascuna a suo modo, la via del ritorno in
patria. Le
pagine della Favati, che delineano
in modo particolareggiato la realtà irpina e
solofrana nei primi anni quaranta, si allargano al primo periodo della
occupazione dell'Irpinia da parte degli Alleati
"perché le sorti delle prigioniere ospitate nel campo subirono una
svolta proprio in seguito all'arrivo degli Alleati". Intanto
le ricerche della Favati proseguono e sembra che
per lei valga la sapienza antica sul premio che spetta a chi ha la caparbietà
nel cercare, poiché la studiosa ha avuto la fortuna di imbattersi in una
copiosa documentazione fortunosamente salvata dall'opera di pulimento fatta
all'indomani del fascismo o dal desiderio di voltare pagina all'alba della
nuova vita. L'ulteriore lavoro della Favati,
che già nella consistenza di quanto pubblicato ha restituito alla cittadina
una pagina della sua storia, ci promette di ulteriormente chiarirla e
precisarla e questa volta di confrontarla con altre simili realtà irpine. Aspettiamo dunque la studiosa impegnata
nell'indagare e ulteriormente arricchire il tema dell'internamento fascista
in Irpinia. In
"Riscontri", Sabatia, Avellino, 2003. |
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