La teologia di Vito Mancuso*
Un “vero e proprio manifesto” della teologia di Vito Mancuso è il
suo ultimo libro, Obbedienza e libertà
della Fazi Editore (2012, pp. 202, 15 €), che delinea una teologia nuova e
innovativa. Si tratta di una teologia cristiana della
relazione, perché in essa il Cristo è il paradigma della perfetta
relazionalità, pienamente verticale (amore per Dio in quanto origine e meta
dell’essere) e pienamente orizzontale (amore per il prossimo e per ogni
frammento di essere). Il Cristo è il simbolo concreto che manifesta come la
relazione più alta sia l’amore, nonché la promessa e la speranza che il
compimento della logica relazionale che informa l’essere-energia sarà l’amore
(184). Siamo dinanzi ad un’operazione di portata storica, che intende
intervenire in modo costruttivo nelle difficoltà della Chiesa, incapace di
liberarsi di una dottrina prigioniera di una superata visione del mondo e
dell’uomo, di ascoltare le esigenze della società e il malcontento che viene
dal basso e dall’interno della stessa istituzione. Insomma i nodi stanno
arrivando al pettine, la storia manda il conto, “un conto salato”, dice
Mancuso, che riguarda “un variegato miscuglio di dogmi, ipocrisie, precetti,
tatticismi”(14) a cui nei secoli Il teologo avverte la gravità della situazione, vede che i tempi
sono maturi, sa che la sua strada è quella giusta e si sente investito di un
compito che prende con sapienza sulle spalle. Ecco il tono appassionato e
forte che traspare da ogni pagina di questo lavoro che diventa un annuncio,
una dichiarazione d’intenti, si trasforma nel proclama di un programma di
fondazione di una nuova teologia su cui poggiare il rinnovamento del Cristianesimo
e che si collega alle sue fonti da Teilhard, alla Weil, a Florenskij, a Küng,
a Molari e ad altri teologi che hanno avvertito il disagio del cristianesimo,
denunziandolo e sono stati messi a tacere. Sono tutti i martiri del libero
pensiero che lo sostengono in questa sua opera. Il programma di Mancuso è guidato da questo imperativo: “essere
liberi nella propria mente e nel proprio spirito, senza alcuna sudditanza esteriore, e al contempo coltivare una
scrupolosa obbedienza interiore alla verità” (16) che è obbedienza al bene,
alla giustizia, alla bellezza, all’amore. Teologia della libertà, dunque, per
promuovere la libera ricerca spirituale all’insegna del principio di
autenticità, attingendo a due dimensioni umane, il bene e l’intelligenza, “la
bontà che desidera la luce dell’intelligenza e l’intelligenza che desidera il
calore del bene” (12). La “bontà dell’intelligenza”, chiamare a raccolta
l’uomo che usa le sue qualità migliori per far risplendere il vero
cristianesimo e “tradurre efficacemente in idee la luminosa attività della
prassi”, liberare i tempi nostri da quello che già nel secolo scorso Simone
Weil indicava come “disagio dell’intelligenza” (13). Mancuso lega la situazione in cui si trova il cattolicesimo
all’Inquisizione, una sopraffazione contro coloro che avevano idee religiose
diverse, che ha fatto sì che si andasse strutturando nei secoli una dottrina
poggiata sul principio di autorità, e si formasse un modo di essere cristiano
“che fa dell’ossequio verso l’autorità il dogma primordiale” ed ha fatto sì
che oggi ci troviamo “di fronte al paradosso che nel cattolicesimo predomina
lo spirito degli scribi e dei farisei contro il quale Gesù aveva lottato fino
a perdere la vita”, che da una parte c’è “la concretezza dei fatti”,
l’ortoprassi, dall’altra, un “immenso edificio dottrinale costruito
all’insegna del primato dell’ortodossia, le parole” (23). Il paradosso che stringe come una tenaglia la
coscienza cattolica è dato quindi dal fatto che l’istituzione per merito
della quale continua a risuonare oggi nel mondo il messaggio di liberazione
di Gesù è governata al suo vertice da una logica che riproduce il potere
contro cui Gesù lottò e da cui venne ucciso. Questa è la tragica condizione
dell’essere cattolici. Non esiste luogo dove maggiormente risuoni la logica
del bene e dell’amore, ma al contempo non esiste luogo dove maggiore è la
supremazia della fredda ragione di Stato, per cui solo se uno accetta di
piegare l’intelletto all’autorità è un cattolico, se no, no, perché ben più
della vita concreta e dei suoi frutti conta la professione esteriore di
obbedienza. (22-23). Nonostante questa situazione Mancuso sottolinea i progressi fatti
dall’istituzione con la libertà di coscienza in materia religiosa, che
privilegia l’individuo alla dottrina, un grosso passo avanti che indica la
direzione giusta, su cui procedere con coraggio e sistematicità, portandola
anche all’interno della Chiesa. Seguendo questa direzione, il teologo indica
nello “spirito eretico” la strada per continuare, una condizione della mente
per accedere alla verità che rende liberi. Non pensare che la verità sia in
una formula bella e costituita ma affrontarla con animo aperto, non aver
paura di indagare ciò che si suppone per verità, essere animati da “un
rinnovato desiderio di indagine”, lasciarsi “invadere dalla realtà sempre più
grande e sempre diversa dell’esistenza”, amare la verità più di se stessi e
delle formule (27). Essere aperti alla scelta è una caratteristica che serve
per affrontare il pluralismo della nostra epoca e la necessità di fare i
conti con la realtà, ma questa è contraddizione. Ecco allora un altro punto
della metodologia mancusiana: “l’arte di cogliere le contraddizioni, non per
demolire, ma per fondare, su basi rinnovate, la vera e propria scienza del bene
e dell’amore che è il cristianesimo” (36). Essere disposti a cogliere le
contraddizioni significa capire che questa è la logica con cui si muove la
vita, che l’ordine, la disciplina e il potere sono dimensioni essenziali per
l’edificazione sia della società che dell’esistenza umana e che bisogna
lottare contro il loro contrario (il disordine, l’indisciplina, l’anarchia)
per far emergere il volto buono della realtà, quella dimensione dell’essere
amica della vita, che promuove la vita. “Amare le contraddizioni” allora significa
“affermare l’amore per la vita, amare la vita più di ogni razionalizzazione
che pretenda di incasellarla e disciplinarla”, capire che la vita, che è
dinamicità dell’essere, è contraddizione di caos e di logos, ma amarla da
lottare per cercare di tradurla in bene (37-38), secondo il vivo senso del
Dio cristiano, che è amore, quindi impegno, passione, capacità di sacrificio
e di lavoro, dramma”(43). “Da qui discende” la visione mancusiana della vita
come “ottimismo drammatico”, “ottimismo perché qualcosa si fa ed è tale da
essere orientato verso una crescita dell’ordine e dell’organizzazione,
drammatico perché non esiste lavoro che non richieda fatica, dolore e talora
anche incapacità di intravedere un senso in quello che si fa” (43-44). Questa
visione, che è quella di Pierre Teilhard de Chardin, di Goethe, di
Fiorenskij, di Bonhoeffer, di Schweitzer, dà un senso profondo e nuovo al dettato
evangelico di amare i nemici, è l’adversa
diligere del Cardinale Martini, suo maestro e suo mentore, perché “solo
abbracciando gli opposti, spinti dal mistero dell’essere a capirne ed
apprezzarne le ragioni può sorgere la nuova figura della verità, di cui le
nostre anime, anche se non lo sanno, sono assetate” (46). E qui, nel porre come base dell’agire umano il bene, giungiamo ad
un punto centrale, che affronta il problema dell’anima spirituale, a cui è
legata l’idea del bene. Considerando che la visione cristiana ha dei limiti
quando fa derivare l’anima direttamente da Dio, perché crea un dualismo che la
rende difficilmente conciliabile con la visione contemporanea del mondo, con
l’esperienza concreta e persino col dogma del peccato originale, Mancuso
afferma che è necessario rivedere con radicalità la dottrina antropologica
della dogmatica cattolica. La sua teoria dell’anima si rifà alle scienze
moderne per le quali “il concetto di anima” si riferisce al fenomeno fisico
della vita ed in particolare “il concetto di anima spirituale” a quello della
vita libera e per le quali l’essere-energia è la sola sostanza che forma il
mondo e tutte le cose in esso, esseri umani compresi. Tale energia “si dispone
in molti e diversi modi dentro l’essere umano, a seconda del livello di
complessità delle relazioni atomiche, molecolari, cellulari”, facendo sì che
ogni essere umano esista come un fenomeno in continua evoluzione, in continuo
lavoro, che si può descrivere come “soma-corpo e cioè bíos-vita vegetale,
zōé-vita animale, psyché-vita psichica, lógos-vita razionale fino al
pneūma o noūs-vita spirituale”. Quest’ultimo punto è un livello
superiore, discontinuo rispetto ai livelli inferiori, è il livello della vita
spirituale, ovvero della vita libera, “capace di una certa indipendenza
rispetto al soma e alla sfera bíos-zōé-lógos, cioè all’organismo”. Tale
pura energia spirituale, raffinatissima disposizione dell’essere-energia,
consente all’uomo “di agire e non solo di reagire, di essere attivo e non
solo passivo, creativo e non solo recettivo, di poter produrre, insomma,
qualcosa di nuovo nel mondo, traendolo da sé”. La spiritualità esprime “il
livello più nobile della nostra personalità e insieme la nostra
partecipazione ontologica al divino”, qui l’energia umana, al culmine del suo
lavoro evolutivo, crea rispetto alla materia “una separazione non dualisticamente
configurata come originaria in opposizione alla materia, ma da pensarsi come
frutto del lavoro di tutto l’essere-energia dell’uomo, a partire dalla
materia-mater”. È importante rilevare che la separazione dello spirito dalla
materia, condizione ontologica dell’immortalità, è tale non perché “lo
spirito è disceso da un ipotetico mondo di là, dall’alto, ma perché è salito
dal basso, dal continuo cammino evolutivo, creatio continua, sempre all’opera (en-érgon) nel mondo”. L’equivalenza tra materia ed energia, che
ci dà una visione unitaria del cosmo, permette di eliminare il dualismo
tradizionale corpo-anima, che ancora campeggia nella dottrina cattolica, di
pensare senza contraddizioni al dogma cattolico della “immortalità naturale
dell’anima” e di coltivare la speranza nella vita eterna che si inserisce in
una prospettiva di razionalità. Si può pensare, insomma, che “la razionalità
della mente umana, il momento qualitativamente più alto del lavoro evolutivo
della natura, sia la manifestazione di una razionalità ancora più grande
dentro cui siamo immersi e in questo senso si può interpretare l’uomo ‘a
immagine e somiglianza di Dio’”. Mancuso afferma: “Lo scenario cosmico si può
descrivere come segnato da quattro discontinuità, cioè da quattro passaggi da
uno stadio meno organizzato a uno stadio più organizzato dell’essere-energia,
tale però da non essere prevedibile dalla condizione dello stadio
precedente”(71-77). Esse individuano l’essere-energia come lavoro, produzione
continua di legami e quindi emersione di livelli di essere-energia
ontologicamente più ricchi”; come produzione di una sempre maggiore
disponibilità di energia libera (ovvero spirito) rispetto all’energia
solidificata come massa materiale, volta verso la vita, ma passando
attraverso la morte, cioè incremento di ordine e di organizzazione attraverso
disordine e caos. Da tale scenario è ragionevole ipotizzare che “possa
scaturire una quinta discontinuità, da intendersi come passaggio definitivo
mediante la morte a quel livello dell’essere-energia pensabile come energia
pura, senza cioè nessuna traduzione nella massa corporea, di cui la luce è la
più concreta attestazione empirica che ci è data” (78). Se Dio esiste, del resto, è proprio così che va
pensato dal punto di vista ontologico: come luce (ho Theòs phôs estin, «Dio è
luce», 1 Giovanni 1, 5) e come spirito (pneūma ho Theós, «Dio è
spirito», Giovanni 4,24), cioè come essere-energia sussistente senza nessuna
traduzione nella massa corporea («Deus non est corpus», ha sempre insegnato
la grande teologia) (78-79). Alla base di tutto questo appare una visione duale del mondo, nel
senso che “il modo con cui si pensa l’uomo rispecchia il modo con cui si
pensa il mondo: antropologia e cosmologia quindi, ma anche ontologia e
teologia, sono al fondo una cosa sola” (80). “Io non accetto”, dice il
teologo, “né la prospettiva dualista né la prospettiva monista, e abbraccio
piuttosto una visione duale, che potrei definire di evoluzione progressiva,
una visione del mondo non statica ma dinamica, secondo la quale dalla
materia-mater sorge ogni cosa,
anche lo spirito, ma lo spirito che sorge dalla materia-mater è un’altra cosa rispetto alla materia, è differente, è di
più. Si tratta di una visione del mondo che prende sul serio l’evoluzione al
punto da renderla un processo sempre in atto, non solo nel mondo esterno a
noi, ma anche al nostro interno, nel frammento di mondo che ciascuno di noi
è. L’evoluzione in questa prospettiva è generazione di progressiva
organizzazione dell’energia, che, antropologicamente parlando, sale al
livello dello ‘spirito creativo’, noūs
poiētikós diceva Aristotele, e quindi ‘immortale ed eterno’”
(81-82). Posta l’anima spirituale come produttrice di bene, Mancuso si
pone il problema se esiste il bene come qualcosa di universale, di comune per
tutti gli uomini, che non dipenda dalle circostanze e come lo si possa
riconoscere. La risposta del cattolicesimo è che esiste un bene siffatto; che
si sostanzia nella natura delle cose; che consiste in ciò che favorisce la
vita e in tutto ciò che è umano; che come tale ogni uomo può riconoscerlo
mediante la luce della propria coscienza, la sinderesi, “capacità luminosa
della coscienza umana di riconoscere il bene” oggettivo anche a “prescindere
dal proprio interesse e dalle diverse circostanze storiche e geografiche”,
che fonda il cosiddetto “principio-responsabilità”, il giudizio responsabile,
posto sulla realtà della libertà (84). Il bene che si impone alla persona, secondo quanto dice anche Si può quindi concludere, alla luce delle affermazioni della
Commissione Teologica Internazionale, che «la legge morale non può essere
presentata come l’insieme di regole che si impongono a priori al soggetto
morale, ma è fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente
personale, di presa di decisione”. Primato della coscienza, dunque, che non
significa “fare di se stessi e dei propri desideri il criterio dell’agire”,
ma tenere presente un criterio più ampio, una dimensione più grande che “non
è qualcosa di esteriore e quindi di alienante, ma è l’ordine cosmico
‘impregnato di una sapienza immanente’ dentro cui ogni essere umano vive e
respira” (89-90). Non esiste dunque una “dittatura divina”, ma “ogni realtà
creata si muove in autonomia, certamente non assoluta ma relazionale” (94), e
che “non si possono prendere i principi morali del cattolicesimo e applicarli
per sillogismo alle situazioni concrete” (95). Siamo giunti ad un altro punto importante dell’analisi di
Mancuso: il vero spirito del cristianesimo è conoscenza e pratica della
mediazione perché si ha a cuore il bene reale della persona reale, sempre
singolare e concreto come singolare e concreta è la persona. La logica del
retto giudizio morale nasce “tenendo sempre presenti due pilastri: i principi
morali e la situazione concreta” (95-96). Il giudizio morale è il ponte che collega questi
due pilastri nel modo migliore possibile, per creare la migliore armonia, la
migliore giustizia, il migliore benessere per il soggetto alle prese con la
sua specifica situazione, ogni volta unica com’è unica la persona. Collegando
i principi morali alla situazione concreta si ottiene il vero giudizio
morale, il quale, nella luce della sinderesi, si formula all’interno della
coscienza personale e come esercizio della coscienza personale. Solo così si
produce un’azione morale degna di uomini liberi, e non di devote pecorelle o
di zelanti soldatini (96). Anzi, poiché l’altezza dei principi e le strade concretamente percorribili
non sono in simmetria perché “quanto più si scende nei particolari tanto più
aumenta l’indeterminazione”, va assunto il fatto che “quanto più il moralista
affronta situazioni concrete, tanto più deve ricorrere alla sapienza
dell’esperienza, un’esperienza che integra i contributi delle altre scienze e
cresce al contatto con le donne e gli uomini impegnati nell’azione”.
“Soltanto questa saggezza dell’esperienza consente di considerare la molteplicità
delle circostanze e di giungere a un orientamento sul modo di compiere ciò
che è bene hic et nunc”. E, citando San Tommaso, Mancuso specifica persino
che tra i due elementi, se proprio si deve privilegiare qualcosa, “è
preferibile che questa sia la conoscenza delle realtà particolari che
riguardano più da vicino l’operare”(96-97). L’attenzione alla “sapienza della tradizione cattolica in materia
morale” spiega la svolta, timida ma reale, intrapresa alla fine del 2010 da
Benedetto XVI nell’uso dei preservativi che si può leggere come “un primo
passo sulla strada che porta a una sessualità diversamente vissuta, più
umana”, che però non basta “per la salutare rivoluzione di cui ha urgente
bisogno la morale sessuale cattolica al fine di giungere a parlare alla vita
concreta liberandosi dall’ipocrisia di precetti proclamati sulla carta ma
ignorati nelle coscienze” (97-98). Mancuso è conscio che la strada è ancora
lunga tenendo presente tutti gli
ostacoli incontrati da queste aperture; sa che in questo campo ci vuole “prudenza
nel senso autentico del termine che è pratica del discernimento, è lettura
prima analitica e poi sintetica del reale” (101). Fare discernimento dentro di sé; mettere a tacere
le passioni che sempre imperversano e sempre ti portano a essere di parte;
mettere a tacere queste passioni negative, senza però spegnere la passione
positiva, la passione per il bene, per la bellezza, per la giustizia; saper
discernere tra questa passione positiva e le passioni negative che portano a
incurvare il pensiero e a distorcere la visione con una volontà che vuole
solo se stessa e trasforma la mente in una specie di buco nero che desidera
attrarre e ridurre tutto a sé, anche la luce della verità, perché il centro
di gravità posto dentro di sé annulla il principio vitale della relazione che
porta a uscire da sé verso gli altri e verso la realtà; debellare queste
passioni negative ed esercitare la passione positiva dell’amore per il reale
e per la giustizia delle relazioni: ecco la meta dell’educazione spirituale.
(101). Poste le basi fondamentali di teologia morale Mancuso entra nel
labirinto delle questioni bioetiche sottolineando l’incoerenza della
gerarchia rispetto ai principi fondamentali della morale cattolica quando
parla di “valori non negoziabili” che si trovano al lato opposto del primato
della coscienza personale; che la stessa incoerenza coinvolge concetti come
“sacralità della vita” e la sua “indisponibilità” (103). Su questo argomento
aspra si fa la critica di Mancuso quando accusa di povertà spirituale la
visione antropologica cattolica “che si rivela curiosamente concordante con
il pensiero neodarwinista ortodosso secondo cui la verità di noi stessi è
nelle molecole di DNA del nostro patrimonio genetico”(106). L’uomo non può
essere definito dalla biologia, che è il livello inferiore, l’uomo ha livelli
superiori dell’essere-energia, ha la vita spirituale che ci rende unici,
tanto che ci lega a Dio e che rimanda alla libertà spirituale. Dire che “non
spetta alla persona decidere” “equivale a sostenere che la verità dell’uomo
non sta in alto, cioè nella libertà descritta classicamente con i termini di
anima e di spirito, ma in basso, nella sua biologia” e dimostra che “il
pensiero cattolico ufficiale si sta pericolosamente trasformando all’insegna
di un biologismo che la tradizione non ha mai conosciuto” (107). Tale analisi
viene confermata dal caso Englaro che Mancuso analizza citando l’acceso
dibattito che si ebbe in Italia prima e dopo la morte della giovane e
concludendo con le parole del Cardinale Martini: “È importante riconoscere che la prosecuzione
della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra
di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e
di molte religioni comporta un’apertura alla vita eterna che Dio promette
all’uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona
[...]. La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore
supremo e assoluto”. Il principio primo e assoluto è la dignità della vita
umana e questa si compie nella libertà personale (116). Questo argomento porta al concetto di laicità che deve intendersi
come “il metodo che governa il rapporto tra la dimensione interiore e quella
esteriore della nostra vita” e che consente di mediare tra spiritualità ed
etica da una parte e diritto e politica dall’altra. Questa distinzione ci
dice come agire rispetto ai cosiddetti principi non negoziabili, che si
possono considerare tali a livello di “foro interiore nel senso che nessuno
deve mai rinnegare o mercanteggiare le proprie convinzioni, soprattutto
quando ad agire è lui in prima persona” (127), tenendo anche conto che,
poiché la realtà di questo mondo è sempre più plurale e ricca, la dimensione
dell’io non è mai perfettamente traducibile nella dimensione del noi. Se nessuna negoziazione è possibile a “livello interiore, dove è
in gioco l’anima e il grado dell’adesione personale alla verità e alla
giustizia”, lo è invece a livello di foro esteriore, dove è in gioco la
relazione armoniosa degli uomini tra loro, uomini sempre più diversi,
plurali, differenti. Riuscire a mediare tra queste due dimensioni della vita
significa fare esercizio di laicità” (128), un esercizio problematico nella
situazione odierna di una politica troppo distante dall’etica e dalla
spiritualità e di una “laicità che ha bisogno di un ritorno alla dimensione
sacrale della politica” (130). Ecco quindi la necessità di una nuova
stagione, di una politica rinnovata che dovrà avere come elemento generatore
la dimensione morale per cui “quanto più sarà alta la tensione morale, tanto
più si avrà una buona politica e un buon governo” (132). Invece la nostra
civiltà è condizionata da un vistoso “scollamento tra etica e politica”
(134), nel senso che le persone si sentono unite dagli interessi immediati e
dinanzi alla cosa pubblica non percepiscono di essere al cospetto di qualcosa
di più importante. Per questa situazione la questione morale è “la”
questione, non qualcosa di secondario ma il punto da cui tutto dipende.
Mancuso ne individua la causa nella “raccolta del consenso”, problema immenso
perché l’aggregazione sociale avviene nel nome degli interessi e delle
passioni e quindi a scapito della giustizia e della morale e può essere
affrontato solo mediante la costituzione di veri partiti e veri professionisti
della politica. Solo il partito politico, che non sia un cartello elettorale,
può infatti mediare “gli interessi e le passioni della moltitudine attraverso
un progetto più ampio, rivolto al bene comune”. “Occorre coltivare insieme il
primato della morale e il richiamo della dura realtà. Una società (e prima
ancora una persona) è matura quando ospita dentro di sé il gioco di queste
due forze, quando sa porre il primato dell’etica e quando sa mediarlo con
l’opacità del reale” (136). Andando ancora più a fondo Mancuso individua la specificità della
crisi italiana nella sfiducia verso l’Italia, nel fatto che non si è capaci
di trovare un valore-guida comune, una forma su cui modellare l’esuberanza
della materia, che manca una religione “civile” che leghi responsabilmente
l’individuo alla società, manca un’attrazione irresistibile verso una realtà
più grande, nella quale ci si identifica. Questo qualcosa cui l’Io sa cedere il passo è la
società: il singolo si comporta onestamente verso la società perché sente che
essa è più importante di lui e perché al contempo vi si identifica, secondo
la logica di dipendenza e identificazione vista sopra. Viceversa in Italia i
più ritengono che il singolo sia più importante della società, e per il bene
del singolo non si esita a depredare il bene comune della società. […] Noi
italiani siamo più corrotti perché usiamo in modo distorto la nostra
intelligenza, e tale distorsione la si deve alla mancanza di un’idea comune
più grande dell’Io, cioè di una religione civile e dell’etica che ne
discende. La religione civile è ciò che consente di rispondere alla seguente
domanda: perché devo essere giusto verso la società?, perché devo esserlo
anche quando la mia convenienza mi porterebbe a non esserlo? Senza un legame
di tipo “religioso” con la società, nessuno sacrifica il proprio particulare,
nessuno sarà giusto quando non gli conviene esserlo e può permettersi di non
esserlo. Per questo la formazione di una religione civile è d’importanza
vitale per il nostro paese. […]. Una religione civile, e la conseguente etica
di cui l’Italia ha urgente bisogno, potrà sorgere solo in unione con il
cattolicesimo, non contro di esso. (138-140). Questa realtà più grande dunque non può essere che il
cristianesimo, ma “rinnovato” e trasformato in forza di unione che abbia a
cuore l’insieme del paese e il mondo nella sua interezza chiamato a diventare
il regno di Dio in cui si realizza la sapienza divina che vuole il bene e la
giustizia, e li vuole per tutti; un cristianesimo veramente universale che
affronti il problema del dialogo interreligioso facendosi guidare dal genuino
amore per la verità non dottrinale ma che sorga dalla prassi che diventi
realmente un autentico servizio alla pace del mondo e alla felicità interiore
dei singoli. Perché ciò avvenga è necessario, continua Mancuso, che si
sciolgano alcuni nodi come quello di considerare Gesù la via vera verso la
verità, il sentiero adeguato per arrivarvi, un metodo, e quindi essere
cristiani non è la tappa definitiva dell’essere uomini, ma è uno strumento
verso una pienezza maggiore, di cui nel Nuovo Testamento si parla quando si
dice “regno di Dio”, “Padre”, “Dio”, “Spirito Santo”, “verità tutta intera”;
quello di considerare la verità non dottrinale e statica, ma fisica e
dinamica, una verità con la stessa radice di ver, cioè primavera che “esprime il fiorire dell’essere, la
generazione ininterrotta e sempre più complessa della vita”, quindi verità
come ciò che “incrementa la vita”. “La più importante condizione della mente
per un fruttuoso dialogo spirituale è la consapevolezza che alla verità si
arriva solo diventandola,
diventando cioè un frammento ordinato e pulito di essere-energia, del tutto
conforme alla logica della relazione armoniosa che da sempre fa procedere il
mondo in quel processo di progressiva organizzazione che la teologia chiama
‘creazione continua’” (157-158). L’atteggiamento corretto allora non è né la “conservazione, che
si chiude a ogni altro punto di vista, né l’abbandono, che taglia
completamente le radici, ma piuttosto un atteggiamento definito ‘fedeltà dinamica’”,
che non fa essere prigioniero del personale punto di vista, ma che lo fa
assumere come metodo, con cui “affrontare il viaggio della vita”; “fedeltà
alle origini” che “non sarà mai a scapito della fedeltà alla ben più grande
verità del mondo e al genuino incontro con gli altri uomini”; apertura senza
paura all’esperienza reale. “Apertura alla continua rivelazione della vita,
che è il dialogo spirituale”, avendo “fiducia nell’esistenza di un lògos,
universale preesistente alla ragione umana, ovvero nell’esistenza della
verità e di una sfera di valori morali che l’esprimono concretamente”;
“fiducia che tale lògos sia percepito da tutti gli uomini, e quindi fiducia
nella portata veritativa delle diverse tradizioni spirituali”; “desiderio di
fare della propria vita uno spazio il più possibile pulito e onesto”, nella
convinzione che ‘la sincerità è il fondamento della vita spirituale’. Ce lo
dice la stessa parola dialogo - sostantivo logos e preposizione diá
- che ha in sè la convinzione che “il
lógos esista e che possa essere scambiato”. “Il dialogo spirituale suppone
quindi una fiducia verso l’oggetto (lógos) e una fiducia verso
l’interlocutore (diá), che nella loro relazione producono più precisamente
una triplice fiducia: nell’esistenza della verità, nell’interlocutore e nella
sua ricerca, nella possibilità dello scambio dei risultati delle ricerche
sulla base di un desiderio comune di crescita spirituale” (158-159). In primo luogo la fiducia nella verità. Il dialogo
spirituale vive della fiducia-convinzione che vi sia un logos comune per ogni
essere pensante e responsabile, un logos dotato di consistenza oggettiva, il
quale non è solo una proprietà della mente umana, ma anzi può diventare
proprietà della mente umana perché, prima ancora, esprime una proprietà della
realtà dentro cui la mente è immersa e di cui è costituita. Il dialogo
spirituale si contrappone così alla prospettiva del razionalismo che riduce
la realtà ai limiti della ragione umana, escludendo dall’orizzonte della
verità tutto ciò che la ragione umana non può concepire e finendo per privare
la realtà di ogni mistero e di ogni profondità. Di contro a tale
restringimento del razionalismo, il dialogo spirituale esalta la prospettiva
opposta della razionalità, la quale mira a una continua apertura della
ragione umana verso la ben più ampia logica-lògos del reale. In secondo luogo la fiducia nell’interlocutore e
nella possibilità dello scambio. Il dialogo spirituale vive della fiducia
nella percezione soggettiva della verità e nell’autenticità dell’incontro,
cioè della fiducia nella coscienza. Si può dare un autentico dialogo solo se
si ritiene che la coscienza sia reale e che possa sottoporsi da se stessa ad
esame, in una sorta di tribunale interiore a cui la stessa coscienza deve rendere
conto. Ma ancor più profondamente, con il suo rimandare
al fenomeno della relazione tra gli uomini il dialogo spirituale indica una
particolare tipologia della continua e ininterrotta rete di relazioni dentro
cui ognuno di noi è, anzi, di cui ognuno di noi è costituito. Occorre infatti
dire che il nostro stesso organismo, a livello fisico, chimico e biologico, è
il risultato di un continuo dialogo tra le diverse componenti del nostro
essere: le particelle subatomiche dialogano e formano atomi, gli atomi dialogano
e formano molecole, le molecole dialogano e formano cellule... Anche la
nostra componente mentale vive del dialogo, a cominciare dal linguaggio, e
poi le emozioni, i sentimenti... In quanto organismo fisico e psichico noi
siamo relazione, cioè dialogo. Ne viene che quando esercitiamo il dialogo a
livello spirituale non facciamo altro che riprodurre la logica fisica
fondamentale di cui viviamo, obbedendo alla logica del nostro essere. Il che
significa, per chi crede che il nostro essere venga dalla paternità di Dio,
che obbediamo a Dio, alla continua rivelazione del suo logos che si dà in
ogni istante nel nostro stesso corpo (160-161). L’ultimo punto del percorso di questa teologia mancusiana si introduce
nello spirito del tempo ne tiene presente “il suo ruotare, spietato e insieme
generoso” (164), per cogliere la domanda che porta con sé e poi rileggere in
base ad essa la dottrina. “Solo coltivando una reale comunione col presente,
la teologia rimane teo-logia e si fa attuale, in grado di toccare, curare e
forse anche un po’ guarire la vita degli uomini” (165). Ebbene il presente,
il post-moderno, è un rinnovato paganesimo, che, dietro Nietzsche, cerca di
riconquistare il cuore spirituale dell’Europa con una sfida che va molto al
di là di quella precedente, condotta dalla modernità, perché il crescente
desiderio di spiritualità di oggi, ferocemente anticristiano, non può essere
soddisfatto dal cristianesimo che ha perso fascino. Mancuso accetta la sfida
che si gioca sul campo della teo-logia con la sua teologia rinnovata, della
quale indica i punti di forza: “radicale onestà intellettuale e primato della
vita” (168). L“onestà intellettuale”, essere onesti fino alla durezza, è un
modo di essere, un metodo come quello di Pavel Florenskij, di Dietrich
Bonhoeffer, di Simone Weil, di Pierre Teilhard de Chardin, di Albert
Schweitzer, che hanno indicato la strada della “sincerità morale” portata
alla “massima intensità”, in nome della quale la “teologia deve intraprendere
una lotta all’interno della Chiesa e della sua dottrina, senza eccessivo
timore di dare scandalo ai fedeli, perché il vero scandalo è il tradimento
della verità e l’ipocrisia”. “Alla fede cattolica sono essenziali la
consapevolezza di parlare nel nome della verità e l’esibizione della
razionalità di tale verità, che si dice come logos” (169). La difficoltà sta
proprio “nell’esercizio della ragione che cerca la verità”, che si scontra
con la staticità e la rigidità della dottrina. Come molti teologi Mancuso
avverte il disagio dell’intelligenza ed accetta la sfida in nome della
volontà di verità, accetta il conflitto con l’istituzione ben conscio che
esso nasce dal “nesso fede-chiesa-teologia” (171). A mio avviso è precisamente questo nesso che oggi
la teologia deve sottoporre a critica se vuole sopravvivere come disciplina
degna di essere presa in considerazione dalla coscienza contemporanea, e,
ancora più radicalmente, contribuire a impedire il progressivo estinguersi
del cristianesimo dal continente europeo. Perché il cristianesimo possa
continuare a vivere, è necessario che la teologia lo liberi dalla forma
rigidamente ecclesiastica impostale dalla Gerarchia lungo i secoli. La
teologia deve liberare la fede dalla configurazione dottrinaria di cui è
stata rivestita e che ha prodotto la morsa del controllo ecclesiastico coi
suoi anathema sit (171). Nel suo programma Mancuso è chiaro, egli non intende eliminare Questa operazione darebbe al cristianesimo il suo vero volto
eliminando la causa della sua crisi. La verità infatti “deve tornare a essere
pensata come vita”, nel senso che il criterio di verità delle affermazioni
della fede non deve essere collocato all’interno della stessa fede, ma fuori,
nella vita”. “Si tratta di passare dal sistema chiuso e autoreferenziale che
ragiona in base alla logica ‘ortodosso-eterodosso’ al sistema aperto e
riferito alla vita che ragiona in base alla logica ‘bene per la vita-male per
la vita’” perché è questa che determina la verità o la falsità di
un’affermazione. Mancuso elenca i punti che devono essere toccati: il
rapporto tra Gesù e Paolo come fondatori del cristianesimo; il senso della
redenzione tramite la croce; il peccato originale; la lettura cristiana delle
Scritture ebraiche e la loro connessione col Nuovo Testamento; il clero e la
sua selezione-formazione(176-177). La sfida più grande di questo rinnovamento consiste nella
definizione della natura di Dio perché si tratta di affrontare la natura intima
dell’essere, si tratta di risolvere il quesito se Dio è bene e amore, come
dice il cristianesimo oppure Dio è forza e potenza come dice Nietzsche
lanciando la sua sfida. Ma proprio su questo campo Mancuso risolve
l’antinomia perché i due concetti solo apparentemente sono in opposizione
infatti “la natura intima dell’essere non è la potenza, in quanto dominio, ma
il bene, essendo il bene la forma più armoniosa e quindi più stabile, più
forte e più duratura di relazione”, per cui si tratta di concepire Dio come
relazione “che viene prima della sostanza, perché ogni sostanza scaturisce
solo dal lavoro delle relazioni che intessono con l’essere” che è energia,
ininterrotto tessere di relazioni
(180). “In questa prospettiva l’ordinamento del mondo” “è interpretabile
come creazione continua da attribuire al logos intrinseco all’essere energia
che agisce come logica relazionale armoniosa”, che fonda il primato del bene
in cui consiste il cristianesimo. Il
bene ha a che fare con l’ontologia, è la logica relazionale che prima tesse e
poi tiene insieme e fenomeni per cui il versetto “in principio era il Logos”
si può interpretare come “in principio era “Sulla base del carattere relazionale dell’essere-energia, il
bene e la giustizia emergono come i valori in base a cui vivere perché sono
l’espressione più alta della logica primordiale intrinseca all’essere quale
viene informato continuamente dal lògos. È questo il kérygma eterno, la buona
notizia di sempre, valida a partire dal primo giorno della creazione del
mondo, a cui il cristianesimo col suo kérygma storico deve essere funzionale.
Si tratta di ricomprendere il cristianesimo storico come funzionale al
cristianesimo eterno”, di giungere a quel cristianesimo universale che parla
di Dio dicendo che ‘in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo’, “il
cristianesimo amico degli uomini e delle loro religioni”. “Il vero kérygma,
la buona notizia definitiva ed eterna, non riguarda la storia ma riguarda
l’universalità dell’essere, scoperto come bene e come giustizia, e che si
traduce esistenzialmente generando fiducia nella vita”. “Alla luce del fatto
che l’essere è in se stesso relazione, il cristianesimo, che esalta la
relazione nel modo più radicale dicendo che Dio stesso è amore, cioè
relazione assoluta, è compimento vero dell’essere vero”. Il “cristianesimo
eterno non è una fuga o un tradimento del mondo, ma la sua autentica espressione”.
“Parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella
forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel
bene dell’uomo», come dice Bonhoeffer (182-183). Avendo individuato nella logica relazionale il principio che
muove l’essere-energia e quindi al contempo la prospettiva a partire dalla
quale guardare il mondo, ecco che si delinea la teologia della relazione i
cui tratti fondamentali sono: il primato
della spiritualità che pone la vita concreta degli uomini come
destinataria privilegiata della teologia la quale “in funzione di essa deve
interpretare la dogmatica”; pensare Dio
come relazione logica, interiore e originaria, che si esprime come amore e
dal cui movimento sorgono il Figlio e lo Spirito Santo; una visione del rapporto Dio-mondo che intenda l’azione di Dio
nel mondo come azione una e unica, identica a se stessa, permanente,
continua, senza variazioni (in tal modo va intesa l’impassibilità di Dio), e
che considera il mutamento del mondo come mutata “consapevolezza nella mente
umana della sua unione con Dio”, tutto rispondente alla “logica che guida
l’organizzazione progressiva del mondo”, che si dice il “Logos divino, il
Verbo come attività continuamente creatrice, sempre all’opera, sempre al lavoro”
(186); una Cristologia che applica
i titoli di Lógos e di Verbo a Gesù di Nazaret in senso pieno, “nel senso che
in lui l’eterna relazione di Dio col mondo ha avuto la sua massima
consapevolezza soggettiva e la sua massima manifestazione ontologica”, ma che
non “esclude altri fenomeni storici nei quali la continua comunicazione di
Dio è giunta a prendere coscienza di sé come Logos”; una soteriologia che intende la salvezza come “presente da sempre
nella creazione”, la cui logica relazionale, “immessa continuamente
dall’incessante azione divina”, fa sì che gli uomini partecipino ad una
“dimensione più ordinata dell’essere” che “apre a una vita al di là di questa
vita terrena”, cioè pensare “la salvezza non più come redenzione ma come
risultato del lavoro secondo giustizia, tornando all’annuncio originario di
Gesù”, che esclude l’interpretazione paolina e quindi ogni concetto di colpa
e di peccato originale e che considera invece la necessità di ordinare e
disciplinare “l’energia caotica della libertà” grazie al “fascino esercitato
su di essa dall’idea del bene” (187); un’antropologia
spirituale che concepisce ogni singolo uomo come opera della creazione
continua di Dio, qui e ora “figlio” di Dio, intimamente unito al Dio
personale da chiamarlo “Padre”, conscio della sua dimensione divina e quindi
abitato dallo Spirito santo; liturgia e
sacramenti intesi come forma più consapevole di esercizio della
spiritualità essendo la categoria di sacramento eminentemente relazionale
(188); una ecclesiologia che
considera Nella conclusione Mancuso fa un invito alla coerenza, a
riflettere sul vero e proprio atto di guerra che il potere papale durante i
secoli ha dichiarato contro il pensiero filosofico e la ricerca scientifica,
depredando le migliori energie intellettuali dell’umanità; sul fatto che Mimma De Maio (in
"Riscontri", Sabatia Editrice, nn. 1-2. 2012). |
* Vito Mancuso è teologo,
docente ed editorialista de “la Repubblica”, nato nel 1962 a Carate Brianza da
genitori siciliani. I suoi scritti hanno suscitato notevole attenzione da parte
del pubblico, in particolare L’anima
e il suo destino (Raffaello Cortina, 2007), Disputa su Dio e dintorni (con
Corrado Augias, Mondadori, 2009), La
vita autentica (Raffaello Cortina, 2009) e Io e Dio. Una guida dei perplessi
(Garzanti, 2011). Sul suo pensiero è stata pubblicata da una delle più
prestigiose editrici accademiche tedesche la seguente monografia: Corneliu C.
Simuţ, Essentials of Catholic
Radicalism. An Introduction to thr Lay Teology of Vito Mancuso
(Francoforte, Peter Lang, 2011) (dal risvolto della quarta di copertina di Obbedienza e libertà).
|
|
*
Vito Mancuso è teologo, docente ed editorialista de “