Uno studio di Mimma De Maio

 

 

Una ricerca di Rita Melillo tra gli aborigeni del Canada

 

L’uccello tuono di Rita Melillo

 

Quel lembo di tenda canadese alzato dalla filosofa italiana

 

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Tutuch (Uccello tuono), è un’indagine di Rita Melillo nell’ambiente aborigeno del Canada che può considerarsi come il prosieguo di un’altra indagine (in Ka-Kanata. Pluralismo filosofico, Avellino, Pro-Press, voll. II e II, 1990 e 1993) fatta dalla studiosa nello stesso ambiente umano e con lo stesso metodo del questionario.

I quesiti, volti a far emergere l’universo di pensiero degli aborigeni, toccano temi fondamentali sull’essenza della vita e del nostro essere nel mondo, sull’uomo e sui suoi rapporti con ciò che gli è intorno, sull’organizzazione sociale, sul ruolo del capo e della donna, sull’educazione dei figli, sulla proprietà, sul concetto di dovere e di giustizia. 

La ricerca si è svolta “in più anni di esplorazione”, durante i quali l’autrice si è recata nelle riserve per incontrare i membri dei vari gruppi, che costituiscono le diverse nazioni di Indiani canadesi, fino al più profondo nord, fino agli Inuit. Con queste popolazioni e coi loro capi alla studiosa non sono bastati superficiali contatti convenzionali, ma ha avviato “un lungo dialogo” che le ha permesso, superando le non ingiustificate diffidenze, di conquistare fiducia e confidenza, e soprattutto di farsi sentire aperta ad accogliere il loro “mondo diverso”. Solo così ha potuto attingere alle fonti della loro tradizione culturale, coglierla nella sua genuinità, accedere al senso originario di quel vissuto e comprenderlo. Quando le è sembrato di avere acquisito una conoscenza abbastanza ampia di questo mondo straordinario, “dalla ricchissima spiritualità”, la studiosa ha deciso di rendere noto a tutti il suo studio. E lo ha fatto con questa opera di grande interesse, stimolante, istruttiva, e per molti versi innovativa.

Va detto subito che questa indagine è assolutamente appropriata, poiché fatta da una studiosa di filosofia teoretica, spinta da interessi specifici, che già era stata attratta da quella società, e che, con gli strumenti che la sua disciplina le fornisce, diviene antropologa e crea un metodo di grande efficacia e di intrinseca validità.

La Melillo, infatti, dovendo avvicinarsi ad un mondo “altro” e leggerlo con “categorie che non sono quelle della nostra cultura”, ha operato una “epoché”, “una messa tra parentesi” della sua cultura di provenienza, ha “preso le distanze” dai suoi canoni interpretativi della realtà, come dire, li ha per un momento “sospesi”. Basta, dice la studiosa, “non assolutizzare i nostri principi”, “uscire dal centro in cui ognuno di noi è posto”, “rompere l’usbergo che la cultura ci ha costruito intorno”, poiché è questa che “crea l’altro” e “determina la differenza”. Quando “io metto da parte i miei parametri”, prosegue la filosofa nell’indicare il metodo che l’ha guidata nel suo tragitto, e “sospendo l’idea dell’assolutezza della mia cultura”, se, “nel momento dell’analisi, non sono in nessun luogo”, “abbandono la mia coscienza riflessa egocentrata”, “divento coscienza impersonale”, “divento e mi sento altro tra gli altri”, allora io ho già intrapreso “la giusta strada verso l’altro”. E precisa: “è la paura che mi fa guardare l’altro come nemico”, il timore che “l’altro mi spodesti”, che “minacci le mie certezze”. Se invece “mi tolgo intenzionalmente e momentaneamente dal mio centro che mi dà sicurezza” e lo metto da parte, potrò cominciare a guardare l’altro “come diverso ma non nemico”, e, ciò che è più importante, come portatore di valori “altri”.

Ecco la corretta postura dell’antropologo, che ha reso possibile la non facile operazione messa in atto in questa indagine.

Certamente, avverte la Melillo, che ha sperimentato la tortuosità di questo percorso, non è affatto semplice uscire da noi stessi, mettersi su un terreno di parità dove accogliere l’altro. Non pochi sono stati gli ostacoli affrontati, di carattere oggettivo e soggettivo: dalle difficoltà iniziali di far capire ciò che lei cercava,  allo scetticismo degli indigeni sulla capacità dell’antropologo di capire il loro modo di pensare, al personale bisogno di fare chiarezza in se stessa. Ma, conclude, non si può fare che questo “gesto”, l’unico possibile, che consente di cogliere una ricchezza culturale non permessa altrimenti.

Sono infatti feconde e ricche le acquisizioni a cui giunge: a comprendere i limiti della nostra cultura, a capire che “ogni etnia ha una sua identità culturale”  - “come un paio di occhiali” -  in base alla quale “agisce ed interpreta il mondo senza essere in grado di riflettere criticamente sulla propria visione del mondo”, che ogni popolo la considera assoluta, che “si ritiene il centro del mondo senza rendersene conto”. Atteggiamento che la Melillo chiama “ecumenico” e che indica anche “l’errore del metodo di indagine antropologica poggiato sulla nostra logica”.

La logica che è invece alla base della sua ricerca è quella del “confronto paritetico”, che non presuppone nulla di prestabilito e pone due realtà sullo stesso piano per far emergere le differenze e le analogie tra i due soggetti che si confrontano, e quindi le due culture, che appaiono come due “culture altre”, due modi diversi di vedere il mondo; l’unica logica che permette “un’analitica transculturale”, consente di passare da una cultura ad un’altra, fare viaggi tra le culture di tutto il mondo per cogliere il senso originario dei vissuti altrui, la Weltanschauung di altre etnie.

Fin qui il metodo sperimentato, di grande fecondità e modernità, anche perché ci indica come considerare l’altro e quale via seguire in questo nostro villaggio globalizzato. E in questi risultati ci piace di vedere uno dei motivi per cui l’autrice dedica il lavoro “a tutti coloro che si adoperano per realizzare la cooperazione e la solidarietà sociale”.

Ma cosa ha scoperto la Melillo in questa sua indagine?

Ha scoperto una particolarissima condizione antropologica, propria delle culture a base mitico-rituale che credono “nell’animazione intenzionale generale di tutto ciò che si manifesta”; un concetto di realtà che, diversamente da noi, è considerata diretta manifestazione del Sacro, ierofania; una visione che ha il massimo rispetto per la natura tutta  - la Madre Terra -  e che spiega i riti e i miti di questo popolo, ma che spiega anche ogni suo gesto e la sua logica. 

Ha conosciuto un’organizzazione sociale complessa ed egualitaria, in cui l’individuo, considerato come persona, è strettamente collegato con la società in un rapporto di interdipendenza; una famiglia estesa, primo nucleo sociale, formata di molte persone non necessariamente legate da vincoli parentali, che una volta viveva nella “casa lunga” sotto la guida della donna più anziana e che si identificava con un totem e con un dato territorio. Vale dire che, se tutto questo sistema oggi è scomparso e la famiglia è simile alla nostra, resta il totem, che unisce più famiglie, mentre la casa lunga è divenuta il luogo dove si affrontano i problemi e si prendono le decisioni, che devono avere il consenso unanime raggiunto attraverso la persuasione e l’esempio personale del capo.

Interessanti sono alcune figure di base: quella del capo, una persona altamente carismatica, che dà suggerimenti più che ordini ed usa una grande flessibilità secondo le situazioni; quella dell’anziano, educatore accanto al giovane che non dà norme ma esempi ed indicazioni di ciò che egli avrebbe fatto nella stessa situazione; quella centrale della “matrona” e in genere della donna, ed anche dei bambini; tutte figure che l’indagine della Melillo precisa correggendo i quadri inesatti forniti dalle precedenti indagini.  

Emerge un pensiero politico che richiama la Repubblica di Platone ed un concetto di proprietà veramente sui generis, con una funzione unica del “dare le cose”, ed un preciso significato della cooperazione, che si basa sul fatto “che ognuno acquista il proprio valore insieme agli altri”. Ecco perché insopportabile punizione per questo popolo è “l’allontanamento dal gruppo di appartenenza” e perché chi ha ucciso ripara il danno sostituendosi alla persona eliminata.

Particolarmente interessante è il comportamento nei riguardi del giovane che sbaglia, a cui viene dato un tempo per “riprendersi” e se ciò non accade, lo stesso viene costretto ad una vita di sei mesi nel bosco insieme all’adulto responsabile della sua educazione, in genere lo zio, perché il primo rinsavisca ed il secondo rifletta. Ma ciò che pesa di più, in questo tipo di punizione, è il rifiuto del gruppo e di ogni altro gruppo.  

Elemento importante della cultura aborigena è la tradizione orale, che richiede la partecipazione di tutti e dà all’educazione una particolare funzione. La tradizione orale stimola l’emotività, che permette l’adesione totale e la partecipazione attiva a ciò che viene raccontato ed appreso, mentre la danza, segnata dal ritmo del tamburo, permette di aderire al battito del cuore della Madre Terra, cacciando via tutte le energie negative fino a raggiungere armonia ed equilibrio interiore.

Grande conoscitore dell’inconscio, come elemento che determina i comportamenti umani, questo popolo dà molta importanza a ciò che si muove nell’interno dell’animo umano, lo ascolta, lo esprime attraverso l’uso delle maschere, lo interpreta attraverso la visione e il sogno. Quest’ultimo in special modo è visto come fonte della vita spirituale, anello di congiunzione con il soprannaturale.

Suggestiva è la concezione della Madre Terra, una madre benigna, benefattrice dell’uomo ed essere spirituale come ogni cosa creata, compresi le piante e gli animali. Per questo essa non può appartenere a nessuno  -  l’indiano non comprende il bianco che vuole dominarla e possederla - , per questo  bisogna servirsene senza abusare, e cooperare per la salvaguardia di tutti gli esseri viventi. È strabiliante, osserva la Melillo, come questi indigeni siano accomunati alla spiritualità francescana, pur non avendo alcuna derivazione da essa, ma solo analogia, cosa che “testimonia la comune umanità, e razionalità, che ci rende uguali pur nella immensa diversità di espressioni”. Con la differenza che costoro si sentono fratelli alle creature del creato perché dotati di una stessa spiritualità, in quanto ogni aspetto della realtà è manifestazione della grande forza creatrice che si concretizza attraverso le cose. Spiritualità dunque come “concretizzazione della forza creatrice”.

Questo è un atteggiamento mentale, sottolinea l’autrice, che ha una “razionalità” ben precisa, che è la “logica della metamorfosi”, “tipica delle culture a fondamento mitico-rituale fondata sulla perfetta coincidenza di apparire e di essere” e sulla uguaglianza di tutti gli esseri, compreso l’uomo.

Appunto l’uomo, che è nel punto di intersezione di due linee che vanno da nord a sud e da est ad ovest, ma non è al di sopra degli altri esseri viventi, di cui in un certo senso ha bisogno, pur avendo la capacità di comprendere e di mantenere l’equilibrio della natura e dare il giusto valore a tutti gli elementi. Questa “visione olistica dell’universo” si può riassumere nel cerchio, che è il vero simbolo del loro modo di concepire il mondo, segno “dell’unità e della rilevanza che ognuno ha per la sopravvivenza degli altri” e che nasce da “processi mentali assolutamente analoghi a quelli dell’uomo civilizzato”, anzi “capaci di produrre complesse organizzazioni familiari e sociali che non hanno nulla da invidiare alle nostre”.   

Questa razionalità li fa soggetti di filosofia, infatti la Melillo non può negare che ci sia una filosofia degli Aborigeni del Canada, ma precisa che è un “qualcosa del tutto diverso dalla nostra”. La loro filosofia non è una visione del mondo, una  Weltanschauung, ma “una vista sul mondo”, nel senso che esistono tanti punti di vista che considerano la realtà da prospettive differenti. Per rendere bene l’idea la studiosa richiama Leibniz con le sue nomadi, che sono appunto tante prospettive sul mondo, che, “pur non avendo né porte né finestre, sono in armonia tra di loro perché Dio ha prestabilito l’armonia del cosmo”. Sulla stessa linea infatti si trovano gli Indiani che affermano che il mondo è retto dal Creatore, che “ha assegnato un posto e un senso a ciascun elemento della realtà in un disegno di grande armonia del Tutto”.

Ella è convinta, e lo dice con una bellissima immagine quando afferma di aver alzato solo un lembo della loro tenda, che solo chi è cresciuto con quella forma mentis può davvero comprendere il rapporto che essi hanno con gli altri esseri naturali e soprannaturali, con se stessi e tra di loro, può cogliere il senso delle loro cerimonie, dello “sguardo” con cui essi guardano alle cose, che è altro rispetto al nostro . “Essi nelle cose vedono aspetti che a noi sono preclusi dalla reificazione a cui sottoponiamo tutto quanto ci circonda”. “Essi valutano tutto col metro della spiritualità, pensano col cuore”.

Ora si capisce perché l’indiano del Canada si sente prigioniero nelle riserve dove conduce una vita dignitosa con molti privilegi, che non comprende, perché a lui manca l’essenziale, di sentirsi cioè parte integrante dell’ambiente, a contatto con la Madre Terra e con i fratelli animali, nello svolgere l’unico compito assegnatogli che è quello di “custodire e salvaguardare il Creato”.

Ecco perché alla Melillo la riserva somiglia tanto ad un museo dove possono prendere posto gli oggetti morti di un’epoca lontana, non degli uomini con le loro tradizioni e il loro modo di pensare, che è diametralmente opposto a quello che determina il vivere dell’uomo bianco che abita nelle grandi città vicino alle loro riserve. “A questo popolo”, denunzia, “nelle riserve non si dà la possibilità di conservare la propria identità culturale: parlare con la propria lingua, onorare i loro riti, praticare le loro cerimonie, credere nei loro miti”.

Le pagine della Melillo si inoltrano nello spiegare la risposta degli indigeni a questa perdita della propria identità, i molti suicidi, la disistima, la sfiducia, la disperazione; nel descrivere le grandi difficoltà che nascono dal contatto con i bianchi, con i missionari, con le tante cose che per noi sono normali ed ovvie e non per loro, come partorire in clinica, dare i nomi ai figli, mandarli a scuola, financo la galera. Esse però contengono anche una speranza quando ci dice che, dopo un primo periodo in cui si è sottovalutato il problema, ora si tenta di percorrere una via diversa, aiutando gli aborigeni a riappropriarsi della loro realtà passata, e contiene l’augurio, per questi popoli, di far conoscere il loro pensiero e, per noi, di riuscire ad ascoltarli con atteggiamento di parità, poiché “non è detto che costoro non abbiano valori ben più importanti”. Noi ci uniamo a questo augurio richiamando il quadro che emerge dalla indagine raccontata in Ka-Kanata sulla realtà canadese, ed auspicando che questa società, che valorizza le differenze ed esprime una “formula di convivenza unica al mondo”, sappia rispondere positivamente alle esigenze emerse nella indagine di cui discutiamo.

Per concludere vogliamo dire che quel lembo alzato dalla Melillo per scrutare in una tenda aborigena ha permesso anche a noi, che abbiamo letto con sincero interesse il suo lavoro, di sbirciare in un ambiente estraneo, che subito ci è parso di estremo interesse e questo anche perché quel lembo è stato alzato da una mano attenta e delicata, che non ha fatto alcuna violenza, proprio come deve fare chi si avvicina all’altro con la mente e il cuore aperto.

 

 

 

 

Recensione di Mimma De Maio da

“Riscontri”, anno XXVIII, n. 1-2, gennaio-giugno 2006, pp. 120-125.

 

Rita Melillo, Tutuch (Uccello tuono), Mephite, Atripalda (Av), 2004.

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