Saggio

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BAGLIORI NELL'OSCURITA:

I FUOCHI DEL BASENTO

di

RAFFAELE NIGRO

 

 

Quando Raffaele Nigro dall’epigrafe del suo romanzo I fuochi del Basento fa dire a Rocco Scotellaro: "L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini / imparò dal fascino della notte / il chiarore del giorno"1, pensiamo che voglia indicare una traccia di lettura delle vicende vissute nel suo romanzo da uomini di quattro generazioni.

 

1. Cfr. R. Nigro, I fuochi del Basento (Milano, Camunia, 1987). Tutte le citazioni sono tratte dalla menzionata edizione. I numeri tra parentesi indicano le pagine.

 

Noi vogliamo seguire questa traccia, che scava nella lunga notte del popolo meridionale, fatta di arretratezze feudali ed ingiuste; e vogliamo individuare la scia di "guerre e di lotte", di speranze e di sogni che riempie di bagliori quell’oscurità e ne fa il fascino.

In questa prospettiva il romanzo discopre un popolo che partecipa alla sua storia grande o piccola che sia; il tutto, avvolto in un’atmosfera di mito in cui figure ed episodi assurgono ad emblema, in cui passioni e debolezze, squallore ed indigenza ottengono una loro superiore catarsi e che si trasforma in narrazione epica.

Partiamo per la nostra analisi dall’affermazione di Giustino Fortunato: "Siamo quel che la razza, il clima, il luogo, la storia [...] hanno voluto che fossimo"2 per considerare che, se pure l’uomo di Nigro vive in un ambiente, in cui natura e cultura sono legate da reciproci pesanti condizionamenti, riesce egli a non esserne completamente sopraffatto. 

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2. G. Fortunato, Le cooperative di credito nel Mezzogiorno in Il Mezzogiorno e lo Stato italiano (Firenze, La Nuova Italia, 1926), p. 56.

 

Analizzeremo, perciò, quanto questo uomo sia improntato dall’habitat e quanto la realtà sociale e storica lo privi di autonomia perché il suo impegno coraggioso possa essere colto nella giusta luce.

 

 

1. L’anamnesi naturale del nostro uomo sia egli contadino, bracciante o pastore ci porta a considerare la natura selvaggia del sud che rende rudi: implacabile, come "il sole che picchia senza risparmio sulla terra dura e arsa", soffocante, come "l’afa che sfa le carni ed uccide di pula e moscerini" (102), infida, come le sabbie mobili e gli acquitrini che si nascondono "tra tofe e felci" o come "i boschi lucani", dove "se ti perdi sei morto".

Né è superfluo notare che questa natura partecipa agli eventi più intimi degli uomini, vive nei loro sogni, ne accompagna i pensieri, è ricca di presenze, e che a lei costoro chiedono segni per il futuro, riparo, sostentamento.

Essa accompagna al lavoro i braccianti "scalzi e laceri" col sole che batte i pugni sulle pagliette e sulle schiene", accoglie i pastori nel loro vagare "per sterpaglie e acquitrini, tra luoghi infestati di zanzare, vipere, mosche, tafani" (111), è avara e difficile col contadino, ostile col viandante. Il rapporto con lei diventa "una lotta crudele" e "fierissima", "una lotta di cui l’uno e l’altra portano indelebili tracce dolorose"3, per dirla ancora col Fortunato.

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  3. Ibidem, p. 58.

 

Ci pare però che questa gente, costretta a vivere tra due nemici: la natura arcigna e l’uomo sopraffattore (sia egli arrendatore, signore o re), abbia scelto la prima, se la faccia amica, la innalzi a protettrice dei suoi diritti.

Il brigante si abbandona nelle sue braccia "nella macchia del demanio", tra gli acquitrini che impediscono la ricerca, "nell’immensità di vigne, boschi incolti, pascoli"; accetta la sua dura legge nelle marce di spostamento, nelle fughe o negli inseguimenti ("tra siepi di sambuco e felci che s’intricavano e diventavano macchione di acacie e querce", 195) "nella sterpaglia" che "sollevava polvere e accresceva la sete", tra "rovi, finocchi selvatici, ferle" dove le "pietre calcaree bianche come teschi" erano rifugio "di vipere e impastoravacche", 105; vi depone i suoi segreti e suoi sogni ("voleva governare una corte speciale costruita tra alberi, siepi, uccelli, radure e fiori", 121); la padroneggia.

Leggiamo la dura vita dei brigante tra i monti:

 

Sono giorni di fatica e di batticuore quelli del bandito. Quando latrano ì cani pastorini e squilla la tromba della guardia civica bisogna alzare il tacco. Una banda di sette uomini ha turni di guardia molto frequenti e leva il campo di fortuna in un batter d’occhio. Si getta erba bagnata e terriccio sui tizzoni dove si sono arrostite due patate, un passero, se va bene una gallina, e si fugge verso il cuore degli intrichi, tra le canne e gli acquitrini, a cavallo chi ne ha uno, a piedi gli altri, con la tromba, i comandi, le schioppettate nelle orecchie, la morte dietro la nuca. Nelle ore di riposo si disegnano per terra agguati, progetti di rapina, oppure si dorme, portati al sonno dalle cicale e dalla cornacchia, dal ronzio dei tafani che dissanguano le bestie. (24).

 

Ma questi monti non accolgono solo i briganti:

 

assassini. Si muovevano sotto grandi alberi, tra felcioni e valeriane. Intercettati spesso dal regio esercito per valloni scoscesi e strapiombi, vivevano in continuo viaggio a piedi o con muli, si nutrivano di erbe e selvaggina, sempre all’erta… Nella Sila si erano rifugiati ricercati dalle gendarmerie, intellettuali infiammati da utopie, gaglioffi e (28).

 

Natura, dunque, amica e nemica, ma sostanziale elemento di questa umanità meridionale.

Possiamo cogliere nel romanzo concretamente questa simbiosi tra uomo e natura nella figura di Maria Fonte di Bene, la bimba trovata "all’esterno del muro di cinta" della Casa del Preziosissimo Sangue "in un cestone di salici e ginestre", quasi un prodotto della terra. Subito appare "impastata di legno e fango", e appena ne ha la possibilità comincia a "sgaiattolare da sé e non solo di giorno"; ribelle a tutto ciò che sa di limite, vive "su di un acacio" fuori la Casa che l’accoglie, unico legame col mondo degli uomini. Come "uno strano uccello", affiorando "dal folto del fogliame", appare a Vitodonato Nigro: "un incrocio tra una ninfa ed un gatto". La ninfa attrae il giovane "tra rovi" e "felci", fugge verso l’Ofanto "nella piana luminosa" e poi ancora nella "macchia", e i due vivono nella natura come l’uomo all’alba della storia, lui fuggendo il tradimento degli uomini, lei apparendo sempre più "figlia del faggio e di una lepre, figlia di un lupo e di una felce"; e, quando dovrà regolare la sua unione col giovane secondo la legge degli uomini, ella ancora fugge perché sente che non ha tra loro le sue radici: "era l’Ofanto il suo progenitore, l’acqua che scorreva nella macchia di pioppi e di olmi" (230).

Il frutto di quell’unione, Bartolomeo Nigro, ricorderà nel nome dell’avo l’antica stirpe di questa famiglia di braccianti, in lui vivrà l’eredità del padre, patriota deluso e della madre, figlia dell’Ofanto, anche lui simbolo come vedremo.

 

2. Consideriamo ora l’altro elemento che impronta questa gente, la cultura, quel nerbo cioè che ne inturgida la vita; reso solido dal passato esso sostiene il presente perché possa realizzarsi la promessa del futuro.

Abbiamo colto nel dipanarsi delle vicende del romanzo questa tensione verso il futuro che qualifica il mondo nigriano non chiuso in forme arcaiche di comportamento se pure da esse segnato.

È il caso della vicenda di Teresa Addolorata cui tutti sono passionalmente partecipi come in un dramma greco fino alla catarsi finale che è il rispetto della legge

("prima l’onore e poi l’amore), frutto di quella tradizione che assicura il futuro. Dopo di che la stirpe può continuare e Vitoantonio, figlio di Carlatonio Nigro che ne aveva ricostituito l’onore. essere l’erede legittimo.

La stessa tensione si individua nei racconti "delle sere d’estate e d’inverno", nei quali gli anziani consegnano il passato ai giovani; o nel legame dei morti con i vivi, che si realizza nei sogni e si materializza, nei momenti di pericolo o di forte tensione emotiva; nelle apparizioni, che Carlantonio giustifica come la raggiera incendiata del sole", suggestioni, cioè, ma che vogliono essenzialmente significare il necessario rapporto passato-presente-futuro di cui dicevamo.

Ci sembra che quei sogni e quelle apparizioni, proprio perché sostengono l’uomo nei momenti difficili e segnano le svolte della vita, proprio perché si muovono nel solco della religione della stirpe e nella conferma della tradizione, non permettano l’essere-agito-da, anzi danno epicità agli eventi. ci pare azzardato considerare che essi, insieme agli altri episodi, come le stimmate di padre Raffaele Arcangelo, rappresentino il passaggio dalla magia, attraverso il cristianesimo, al "senso delle possibilità dell’uomo"4 in linea con i moderni approdi della psicologia del profondo.

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4. E. De Martino, Sud e magia (Milano, FeItrinelli, 1983), p. 96.

 

Neppure cogliamo nel mondo de I fuochi del Basento diffuse forme di bassa magia, anzi tutte le espressioni della mentalità pagano-magica, di cui sono eredi più saldi le masse contadine del sud, sono vissute con disincanto, come qualcosa con cui bisogna convivere e che comunque si cerca di dominare. Ne abbiamo un esempio nell’episodio dei tarantati a cui assiste Carlantonio:

 

Li accompagnava uno stuolo di contadini e contadine con mandole flauti traccole e tamburi. […] Più che ballare si arrotolavano al ritmo di una pizzica pizzica. […] Aveva fissato le bocche dei malati per scorgere il diavolo che abbandonava i corpi: non lo si vedeva mai. "Bisogna essere diavolo e non farsi domare. Allora spaventi anche il diavolo", stava pensando (118).

 

Il ricorso agli scongiuri, ai "mali spiriti" o le varie credenze sembrano il frutto di un’antica saggezza che affronta la vita. Essa con i proverbi, i detti, le massime di cui è intrisa la quotidianità, costituisce il sapere essenziale che fa da guida, spiega, giustifica, educa, e che insieme alle storie di giovani virtuosi e santi forma la base affettiva e dottrinale dell’educazione dei giovani.

Accanto a questa magia superficiale può ben vivere il colorito cristianesimo meridionale insieme con le stimmate di padre Raffaele Arcangelo, venerate come i santuari del Gargano o di Montevergine; e possono convivere anche gli esperimenti di padre Paolino Tortorelli, lo scienziato della natura che viene scagionato da un’accusa di stregoneria.

Una cultura, dunque, che non esprime un ottuso legame al passato, né ostacola la speranza.

 

 

3. E veniamo alle vicende che mai sono fuori della storia e agli uomini che le improntano.

Cominciamo da Angiolello Del Duca, il giustiziere sociale, gigante buono che difende i deboli come l’Ofanto dà nutrimento alla sua terra arsa; e costoro se ne tramandano le gesta. A raccoglierne l’eredità è Francesco Nigro e poi, in altro modo usata, suo figlio Raffaele Arcangelo.

Con costoro ci sono ancora tanti, contadini o no, schierati ora con i giacobini o con i sanfedisti, ora con i liberali o con i borbonici, esprimenti la voce di un popolo che chiede giustizia e si fa giustizia, gente sfruttata e lasciata sola, che affronta l’'urgenza dei bisogni primari manifestandosi indomita e coraggiosa, le cui atrocità innegabili ("la furia dei cafoni è meno controllabile di quella dei liberali", 2171), quando non sono il riflesso della crudezza dell’ambiente o della "vita che avvelena," non si palesano peggiori di quelle che la guerra giustifica. Non un gregge, dunque, ucciso dall’accidia, uomini, semmai disviato dall’ignoranza che fa "testardi", incapaci di "alzare la testa", divisi ("ci dividiamo, alcuni drizzano la spina dorsale e sono per la repubblica, e altri restano piegati e sono per la schiavitù" [79]), costretti ad ammazzarsi "come capretti", ma che portano nella lotta la dignità della fede che chiede rispetto; a cui vengono fatte promesse ("scuole, strade, sicurezza sociale", 107) sempre tradite, dal cardinale Ruffo e da Murat ("il cardinale [...] promise la terra e poi ce la negò, Re Gioacchino ce la promise e ce la negò ancora", 189) da re Ferdinando ("Dove stanno le scuole promesse? Le strade, la distribuzione delle terre ai contadini, la bonifica degli acquitrini o delle marrane, l’allentamento dei pesi?"), da Francesco II.

Uomini che sono comunque sempre presenti nelle guerre che attraversano la loro terra ed entrano nei loro campi portando distruzione e morte.

Tra questa gente c’è chi ha trovato un modo per lottare le prepotenze ("il brigante è come il nibbio e il falchetto, gira largo sulle alture e quando cala c’è una vipera a prendersi il sole", 99) o per sfuggire a mire che non si comprendono ("meglio un brigante in casa che inutile eroe in contrade straniere, 148), ma anche c’è chi è spinto solo dal desiderio di ricchezza ("dichiarò apertamente che la sua strada si muoveva non verso la gloria, ma verso il benessere, verso oro e ducati", 32) e ci sono "braccianti e pescatori braccati dai debiti": un fenomeno prodotto da condizioni storiche ed ambientali che senza dubbio è "un flagello", però accanto alla "sciagura degli invasori" e alla calamità dei signori ("l’ira dei galantuomini è peggio della violenza dei briganti", 52).

E c’è l’erede di Angiolello, Francesco Nigro, il brigante dei contadini. Subito appare un personaggio mitico, modellato sulle gesta del "brigante delle montagne irpine" che i racconti degli anziani facevano emergere "dalle nebbie degli anni" e che la lontananza colorava di magnanimità e grandezza ("pensava che se fosse nato brigante sarebbe stato generoso come Angelo Dei Duca"). E la storia di questo brigante, che "taglieggiava i ricchi e distribuiva ai poveri, fermava carrozze e diligenze con un gesto del braccio o un nitrito del cavallo", (6), il giovane Francesco, novello aedo, faceva rivivere nei suoi versi ("Aveva costruito un intero poema su queste battaglie ...", 71).

Come gli eroi mitici Francesco Nigro è generoso ("era pieno d’amore, una fontana di sentimento", 5), tenace nella fede ("camminava con gli occhi pieni di speranza [...] per questo camminava molto dentro e fuori la macchia del demanio, dentro e fuori le terre dei Doria e dei Galiani d’estate e d’inverno", 51), fino a scommettere col destino ("se quassopra [...] nasceranno le ginestre è segno che imparerò a scrivere. Ed era come aver detto ’se voleranno gli asini’", [81). E come nel mito quella tenacia è premiata: Francesco Nigro diventa brigante e impara a scrivere.

La sua azione è tutta tesa verso un ideale: un mondo più giusto per la sua gente ("Io non combatto per rubare e per farmi ricco ma per l’emancipazione dei contadini per affrancarli dalla servitù, dalle decime, dai terraggi", 61), senza mai perdere, però, il giusto contatto con la realtà ("Ma può bastare un albero [...] per essere liberi? E, poi, liberi, come?. Al generale Nigro sembravano che questi uomini uguali vivessero sulla luna", 41 e 43) e senza ciechi odi ("Per quanto avesse abbracciato la causa giacobina non riusciva a cacciare dal cuore e dalla mente l’immagine di un re al quale aveva dato le sembianze del padre", 48). Il comando non lo esalta ("Ordinò che non venissero ulteriormente molestati, che non venissero molestate le donne e che si rispettasse la dignità di ognuno", 66) e i progetti per il futuro restano semplici e giusti ("una casa grande [...] con tanti bei mobili e vetrate che riempirò di libri, 63): lo rendono umanissimo.

A fianco dei giacobini del '99 si innalza di tanto sui civili arricchiti e sui nobili che della rivoluzione si servivano per i loro interessi.

Quando affronta l’ultima prova sapendo di dover soccombere (l’avo Bartolomeo gli aveva preconizzato la sconfitta) come Angioiello ("Angiolello ci vuole a battaglia / vuole fuochi di sangue non fuochi di paglia / ci vuole tutti a Potenza / addio, addio poesia e scienza", 58) e quando incontra per l’ultima volta la moglie e il figlio ("’Sono venuto a stare con voi qualche ora’, ribadì […] strappando dalle braccia della moglie Raffaele Arcangelo", 60). Francesco somiglia la mitico difensore di Troia.

Mitiche ancora sono la cavalcata lungo l’Ofanto ("padroneggiava la bestia con l’abilità del potatore che vola sulle cime degli alberi come un falchetto", 61), la sosta sulla collina che accoglie i morti della famiglia quasi per ricevere dalla stirpe il suggello alla sua missione, il racconto alla donna delle sue gesta, l'ultima volta con lei (l’eroe resta sempre uomo), infine il bagno nel Basento che richiama quello di Angiolello nell’Ofanto. Così purificato sarà pronto per il sacrificio: la sua morte "in mezzo ad un nugolo di nemici" diventa il simbolo della rivolta contadina contro re e baroni. Ma subito questo simbolo si stempera in un pathos umanissimo, che dà la consapevolezza del prezzo di impegno personale che richiedono le conquiste dell’uomo ("a sue spese imparò quanto costa portare ritta la schiena", 80).

Destinato a continuare la stirpe dei Nigro è Carlantonio, di pasta diversa dal padre, lotta sull’altro fronte, dalla parte dei Borboni, evidenziando le divisioni che dilaniavano le plebi contadine. A lui tocca, come abbiamo visto, difendere l’onore della famiglia (ed è brigante crudele tra briganti crudeli, conosce fughe e tradimenti) e ricostituirne il nucleo distrutto da epidemie e guerre. Morirà insieme con i briganti del ’61, rispondendo ad un "richiamo ancestrale," contro altre prepotenze.

Erede degli ideali di Francesco è, invece, Raffaele Arcangelo, frate carmelitano, segnato dalle stimmate, viene a contatto con la miseria dei diseredati, ma calca altri sentieri per proseguire l’opera del padre, sollevandosi quel tanto sul marciume dei mondo solo per non farsene contagiare; diventa "Generale dei poveri" col suo Ospizio dei Preziosissimo Sangue ("Un regno per i disgraziati [...] a difesa del corpo e dello spirito", 190), è con la gente e tra la gente ("Dobbiamo tamponare il fiume di sangue che scorre per le. strade del regno", 202) dove non arrivano né leggi, né ospedali, né scuole "per dare una professione ai giovani, per insegnare il leggere e lo scrivere, per educare i figli dei poveri" e i briganti al suo seguito diventano uomini ("Una serpe? S'era fatto uomo", 210).

Alle vicende di questo popolo partecipa Vitodonato Nigro, che abbiamo già incontrato, è uomo di penna, "carbonaro convinto ("Solleveremo tutto il regno contro i borboni e finalmente avremo la libertà", 212), ma deluso dal re è costretto anche lui alla macchia; partecipa con una banda di briganti, dalla parte di Garibaldi, allo scontro contro i borbonici nella piana di S. Eufemia, convinto per un momento di vedere realizzarsi un "nuovo mondo" ("osservava il generale Garibaldi che si accostava al cavallo del brigante, tendeva la mano per ringraziare dell’aiuto"); ma assiste al tradimento dei piemontesi ed è costretto a calare il capo e "rientrare nel solco" come avevano fatto le precedenti generazioni, mentre suo figlio Bartolomeo parte per l’America, il paese dove "il signor Washington per primo aveva insegnato la libertà ai re".

Soffermiamoci sull’immagine dell’America che "si era infilata nella mente di Vitodonato e metteva radici con la stessa insistenza con cui aveva messo foglie e frutti l’idea della patria senza borboni" (23l), per considerare come le due idee si fondino in una unica grande ricerca di libertà, come per l’emigrante sia quella ricerca operata fuori della patria e come l’idea gli sia stata inculcata da Maria della Fonte, figlia dell’Ofanto, mentre dal fiume gridava la sua ribellione al mondo degli uomini ("mio figlio sarà un navigatore che arriverà fino alla bella isola dell’America", 231).

Ci sembra di vedere in questa ricerca di libertà che alimenta le vicende del romanzo quella scia che semina bagliori nella notte di cui parlavamo all’inizio.

Soffermiamoci, infine, su questo Bartolomeo Nigro che veleggia per l’America, rappresentante di quelle generazioni, depositario di quella tradizione, segnato da quella natura, per significare il fiume di energie ed ideali che dissanguerà le contrade del sud.

Contribuirà questa emorragia a cristallizzare in tante zone la realtà di Levi e Scotellaro. Se, però, il Cristo di Levi si è fermato ad Eboli, non è detto che Egli in altre vesti non abbia percorso le contrade al di là di quella piana guidando anche quei bagliori; sicuramente, però, Egli sorride dai volti di tanti oggi, nel chiarore del giorno.

 

In "Forum Italicum", Numero speciale: Immaginario e rappresentazione nella Letteratura del Sud, v. 27, n. 1-2, 1993, pp. 285-292.

 

 

 

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