MEDICINA
E RELIGIONE
di R. Panikkar
Introduzione
Dopo 6.000 anni di esperienza
umana - e questi saranno i miei termini
di raffronto in quanto rappresentano la coscienza storica dell’uomo - è arrivato il momento di avere il coraggio,
e anche l’umiltà, di interrogarsi sui senso globale dell’avventura dell’uomo
sulla terra.
L’alternativa
è ineluttabile: o l’umanità entra in un nuova fase che potremmo definire post-istorica e rappresenta una mutazione dello stesso
essere umano, o una minoranza della specie ominide farà esplodere il pianeta
provocando un aborto cosmico che viola le viscere della terra e lo schiudersi
della vita.
In altre parole: l’epoca delle
specializzazioni che tanto hanno dato all’uomo (anche se
ad altissimo prezzo) deve finire, se vogliamo sopravvivere come abitanti di un
pianeta vivo. La specializzazione è quella attività
che si accosta a un settore della realtà con un metodo così «specifico» da non
consentire di essere applicato a nient’altro. Dato però che l’uomo non può
rinunciare a una visione della totalità, sussiste
sempre il pericolo dell’estrapolazione. Si vorrà sempre comprendere la totalità
estrapolando l’uso di un metodo specifico. Si è prodotto così non solo lo
scientismo, il pragmatismo, lo storicismo, ma anche la visione meramente oggettiva,
come quella puramente soggettiva delle cose e altri compartimenti stagni: in
una parola, la frammentazione della conoscenza e della attività
umana. Molto diverso dalla specializzazione è il metodo della concentrazione,
che non divide in segmenti la totalità ma vi partecipa,
cercando punti di congiunzione di quegli aspetti della realtà che investighiamo.
Bisogna porsi a questo livello di critica radicale.
Non farlo è miopia. Si comprende però anche la reazione piena di senso comune
di gran parte della umanità: dato che non sembra si
possa far nulla per porre rimedio alla situazione mondiale, è meglio essere
miopi che cadere o nella disperazione o nel cinismo. Il cinismo si manifesta in
«menefreghismo» ed egoismo; ci spinge a essere complici
di qualunque cosa pur di venirne fuori. La disperazione porta alla violenza
fisica, morale e intellettuale. Si perde la speranza perché ci si sente in un
vicolo cieco. E da quel vicolo non si esce.
Condizionati dal mito del progresso, ci impegniamo a
proseguire per quel vicolo (più tecnologia, più armamenti, più soldi, più opzioni,
più conoscenze, più informazione, più scoperte, più partiti...). Smarriti nel
labirinto della modernità, come su un’autostrada, non possiamo tornare indietro
e non vediamo che solo una trasformazione radicale o metamorfosi (metanoia) ci può salvare. Quello che è grave è che l’uomo
non si è pentito ancora del suo progetto storico, che ha avuto il cinismo di chiamare
umano. È proprio per questo motivo che non arriva il regno di Dio, la cui
condizione è il pentimento. Non vogliamo, o non possiamo riconoscere i nostri
torti, rettificare la nostra traiettoria, cambiare
rotta. Dio si è pentito di aver creato l’uomo, dice
Ho così introdotto il mio tema, in
quanto la morte è il problema che medicina e religione hanno in comune. E
questo lo sfondo per trattare un tema tanto vasto e difficile quale quello di medicina e religione6.
Colligite quae superaverunt fragmenta, raccogliete i frammenti rimasti, sono le parole
di Cristo dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci. E io mi avvalgo di
quelle parole per dire che questa esortazione del
Vangelo non significa solo che dobbiamo raccogliere i rifiuti del festino del
«primo mondo», ma che dobbiamo ascoltare l’esperienza e le conoscenze acquisite
nel corso di questi millenni per incanalare non solo il destino della storia ma
l’avventura stessa della realtà. Queste coordinate mi sembrano le uniche
rispondenti al momento storico presente.
Il testo consta di tre parti:
nella prima cercherò
di presentare la mia tesi;
nella seconda citerò
i documenti umani più antichi e autorevoli,
nella terza illustrerò
alcune delle conseguenze che ne derivano.
I.
La loro relazione
A. Tesi
Per maggior chiarezza, anche se la tesi
è unica, la si può dividere in tre aspetti o, se vogliamo,
esporla con due puntualizzazioni negative e una positiva, prima di giungere
alla formulazione conclusiva.
1.
La non distinzione tra medicina e religione porta
all’esclusione della prima e favorisce l’abuso della seconda.
Se è pur vero che
esiste una relazione molto intima e inscindibile tra medicina e religione, il
confonderle non va a beneficio né dell’una né dell’altra.
La medicina è certamente un aspetto
pratico, negativo e immediato della religione. Mentre
la religione mira prevalentemente al benessere ultimo dell’uomo, la medicina
cerca prima di tutto di rimuovere gli ostacoli immediati al benessere umano. È
necessario concentrarsi sui problemi concreti a rischio di non risolverli. In
ultima analisi, il peccato originale o forse quello dei miei genitori, è forse
all’origine del mio mal di denti, ma questo non può fare dimenticare la cattiva
alimentazione, la poca cura della mia dentatura e così via, quali cause
prossime dei miei problemi dentali. In una parola, non è possibile uno sviluppo
della medicina senza una concentrazione dell’attenzione sui sintomi immediati
delle malattie. Si noti che parlo di concentrazione dell’attenzione sul
problema e non di una maggiore specializzazione a quel
proposito. Noi però non parleremo di verità e metodo. È chiaro che senza questa attenzione concentrata la medicina non si sarebbe
sviluppata.
È chiaro anche che, quando la religione
interferisce in modo indiscriminato nelle cause secondarie che impediscono
all’essere umano di raggiungere la perfezione interferendo sull’ontonomia dei mezzi, essa si
trasforma in una specie di tecnica della cura, dimenticando che la perfezione
dell’uomo è pluridimensionale e molto più complessa.
[Ontonomia è uno dei concetti alla base del pensiero di Raimon Panikkar. Si tratta del nomos tou ontos,
il nomos intimo e costitutivo di ogni
essere, un contributo «alla mutua intesa e fecondazione dei diversi campi
dell’attività umana e sfere dell’essere, che consente la crescita (ontonomica) senza infrangere l’armonia». È un concetto che
può essere cruciale tanto nell’ambito del pensiero (scientifico, filosofico, teologico-spirituale...), quanto per la politica,
l’economia e ogni altro ambito della vita. Si tratta di escludere sia
l’indipendenza separata o sconnessa delle sfere particolari dell’essere
(autonomia), sia il predominio di alcune sfere su
altre (eteronomia), per pervenire a un’armoniosa integrazione delle diverse
parti nel tutto (ontonomia). La persona è la realtà
che consente di raggiungere un ordine ontonomico, essendo
essa «la coniugazione di tutti i pronomi». Oltre a parlare della fase di eteronomia nell’antichità e nell’alto Medioevo (che
rappresenta un atteggiamento che potrebbe essere definito anche teonomico) e della critica umanistica che portò
all’atteggiamento di autonomia, il nostro autore parla anche di ontonomia quale nuova concezione della relazione tra la
creatura e Dio. (Per una spiegazione più approfondita
dei concetti di eteronomia, autonomia e ontonomia si
veda R. Panikkar, Mito, simbolo, culto,)].
Le possibilità di salvezza sono in certo qual modo non commensurabili rispetto alla situazione
di salute personale. Al limite: l’uomo può realizzarsi
(anche se non facilmente), ossia, può raggiungere una certa pienezza umana
anche in un ospedale e in un campo di concentramento. Il destino ultimo
dell’uomo non è in funzione univoca del suo stato di salute. Un malato, entro
certi limiti, può anche arrivare alla salvezza, anche intesa come pienezza personale
(sempre relativa), malgrado il cattivo funzionamento
psicosomatico del suo organismo. La magia è la grande
tentazione della religione e l’abuso di potere la grande trappola nella quale
possono cadere entrambi.
2.
La separazione tra medicina e religione è stata
degradante per la prima e alienante per la seconda.
Basandoci sulla storia della medicina e
della religione, riconosciamo che il processo di separazione è tanto lento e
modesto da non essersi ancora completato. Dalle istituzioni dell’antico Egitto
fino agli studi degli psichiatri contemporanei, l’aura del sacro non è scomparsa
dalla professione medica. Dallo sciamano, medicine
man, e dal sacerdote-medico dei tempi antichi e moderni, allo psicologo
direttore di coscienze non vi è soluzione di continuità. L’organizzazione
ecclesiastica della medicina di tutti i tempi pare essere un’invariante culturale.
Procediamo per gradi.
a)
La medicina senza la religione non guarisce: cessa di essere
medicina.
Qui, come sempre, dobbiamo metterci
d’accordo sul significato delle parole. Che cosa sia
l’autentica medicina è ancora in discussione. Diciamo tristemente e parenteticamente che ci riferiamo soprattutto alla medicina
occidentale, la quale, come pure le scienze naturali, persiste nella sindrome
colonialista di credersi culturalmente neutrale e quindi universale. E, di fatto, l’una e le altre stanno invadendo il mondo. È
indiscutibile che la medicina contemporanea, nonostante i non trascurabili
effetti iatrogeni, cura alcune malattie. Raramente guarisce il malato, quasi
mai l’uomo - il che è precisamente quello che afferma di fare. Non ci sono mai
stati tanti malati quanti ai nostri giorni e non si dica
che prima essi c’erano ma non se ne rendevano conto se non quando erano
prossimi a morire. Il malato non è un qualcosa di puramente oggettivo. Un
malato cui non sia stata diagnosticata una malattia
non è un malato. Ciò che abbiamo ottenuto ai nostri giorni, e anche ciò molto
relativamente perché la vita umana non si misura soltanto in anni solari, è il
fatto di aumentare la longevità e ridurre la mortalità infantile grazie
principalmente all’igiene.
[La
maggior parte dei trattati di medicina moderna offre un esempio flagrante di monoculturalismo e di etnocentrismo,
oggi inacettabili in un trattato di storia, di arte o
di filosofia. Come se l’Europa (e la sua colonia nordamericana) fosse l’unico
depositano efficiente della «scienza medica». Tutto il resto non appare che
stregoneria, magia o semplice ciarlataneria. Anche qui
la medicina non fa che imitare la fisica moderna; ma mentre questa ha il diritto
di postulare i suoi assiomi, il punto di partenza della medicina è l’uomo reale
e non un insieme di postulati. Si veda, come esempio della coesistenza di una
certa prassi della medicina occidentale con le teorie tradizionali aborigene,
le quali, malgrado tutto, resistono assai vive in
tutto il continente africano].
[La
definizione di «malattia umana» fornita da un autorevole studioso di storia
della medicina: «La malattia è un modo doloroso di vivere dell’uomo, come
reazione a un’alterazione occasionale o a uno stato
permanente del suo corpo che rende impossibile la realizzazione nel tempo del
suo destino personale (malattia mortale), impedisce o ostacola occasionalmente
tale realizzazione (malattia guaribile) o la limita dolorosamente e
definitivamente (malattia residua o cicatriziale)»].
Il modello meccanicistico della
medicina e del medico quale ingegnere della macchina umana che ne garantisce il
buon funzionamento non è in teoria accettato ai nostri
giorni; di fatto, però, nella prassi, anche se con palliativi e cautele, questo
continua ad essere lo schema dominante. Pur ammettendo
che la medicina attuale ristabilisce la salute, l’uomo vuole rimanere sano per
qualcosa. Ma se ci si dimentica di questo qualcosa, la
medicina perde il suo obiettivo e la sua stessa identità.
Finalità della medicina è la guarigione
dell’uomo. Ma che significa guarigione?
Sarà sufficiente un esempio per farci
scorgere il degrado di una medicina che si pretende autonoma e di fatto si è trasformata in serva di un sistema esterno
che la domina. La medicina, con la pretesti di essere
autonoma, è diventata eteronoma: le impongono
dall’esterno ciò che deve essere, pagandola affinché si metta al servizio di
una determinata società.
In effetti la cura, per
la grandissima maggioranza delle istituzioni della medicina moderna, consiste
nel riuscire a rendere l’uomo idoneo al lavoro. «Dimettere un malato» è
sinonimo di dichiararlo sano. Essere in grado di lavorare è sinonimo di uomo sano, col che si vuol dire più o meno che uomo
significa lavoratore, e lavoratore significa schiavo economico di una impresa
estranea all’ideale del salariato. Bisogna fare un’attenta distinzione tra
«lavoro» e «opera». L’uomo è un ope raio, ovvero un artista, creatore
e co-creatore, nell’intero ambito della realtà, homo artifex, ma non è necessariamente un salariato, un lavoratore,
un torturato, come si evince dall’etimologia.
La degradazione dell’attività umana che
va dalla creatività, dall’arte, dallo studio, dalla scienza, al lavoro, sforzo
fisico o mentale per conto altrui, a un puro mezzo
indiretto per «guadagnarsi la vita» (come se la si dovesse guadagnare) è legata
alla maledizione della caduta originale: «Mangerai il pane con il sudore della
fronte», invece di mangiare il pane nella gioia dell’agape condivisa. La
creazione e l’attività sono il destino e la vocazione
dell’uomo, non il lavoro. La creatività non è peccato
e non ne è neppure il frutto, né deve essere penosa. È ironico osservare che quanto meno cristiano uno stato moderno pretende essere,
tanto più sembra credere nella maledizione della Bibbia. «
Il sillogismo è semplice. L’attività
umana è il lavoro: l’uomo è un lavoratore. Per lavorare deve essere sano, e
quindi la salute è legata al fatto che l’uomo possa lavorare. La medicina è la
tecnica volta a dare al sistema uomini che possano
continuare a lavorare per mantenerlo. La medicina si è trasformata nel grande mezzo che la società moderna ha per disporre di lavoratori.
Non critichiamo qui, ora, la nozione di uomo come homo faber, anche se
non è forse la più felice delle definizioni. La critica è rivolta in
particolare alla confusione tra lavoro come attività alienante e prassi, techne, arte, quale attività costitutiva che deriva dalla
natura stessa dell’uomo. La critica è rivolta all’homo laborans,
non al faber e tanto meno al creans.
Vediamo ora che cosa intende per salute
la maggior parte delle medicine tradizionali.
Il criterio di salute non è quello
della capacità di lavoro, ma la capacità di godere.
Quando l’uomo è in uno stato permanente di tristezza (nella tradizione
cristiana l’accidia era peccato mortale) lo si di-
chiara malato: non è capace di godersi la vita, lo invade il taedium vitae, il mal du siècle, la depressione, perde ogni voglia (di mangiare come
di vivere), non sopporta il dolore perché non sa gioire dell’esistenza. Sano
non è colui il cui organismo funziona come una macchina senza guasti, ma quello
la cui armonia con se stesso e con l’universo gli consente di gustare la beatitudo, fine dell’uomo, sia pure proletticamente.
Malato è chi è incapace di delectatio, ananda. La gioia è stata troppo spesso guardata con
sospetto in ambienti puritani, a differenza della più autentica tradizione
cristiana.
Ripeto: la medicina senza religione
perde la sua ragion d’essere. Perché far stare bene
l’uomo? Perché sia carne da cannone? Non senza un
motivo profondo la medicina moderna ha fatto grandissimi progressi sui campi di
battaglia. Intelligenti pauca!
Passiamo alla seconda parte.
b)
La religione senza la medicina non salva: cessa di essere
religione.
La religione da parte sua, avulsa dalla
medicina, cessa di essere ciò che ogni religione ha
sempre preteso essere: fonte di gioia, e deve differire la felicità, fine
dell’uomo, a un al di là sconnesso dal presente. La religione, separata dalla
medicina, si trasforma in una forza alienante che si rifugia nel «business
della salvezza» di un’anima disincarnata o nella speranza di un cielo proiettato
in un futuro lineare, ma che perde il suo valore sulla terra e persino la sua
stessa ragion d’essere, dal momento che non salva
l’uomo reale di carne e ossa. La religione degenera allora in una serie di
norme che l’uomo deve seguire sotto pena di castighi, in un destino che deve
accettare con la consolazione, forse, di un futuro migliore. La religione, nel
migliore dei casi, sarebbe una medicina per l’altro mondo a costo di abbandonare
questo.
Se l’altro
mondo, separato da questo, è l’unico che conti, allora quanto prima
abbandoniamo questa «casa maledetta», questa «valle di lacrime», tanto meglio
(«muoio di non morire»). La religione non riconosce dunque alla medicina
la reale funzione di guarire e la relega in pratica al compito esclusivo di
alleviare il dolore - a meno che non sia salvifico. Ci
troviamo di fronte ad atteggiamenti che sfiorano veramente la morbosità,
proprio per la divisione tra religione e medicina.
Non sto difendendo una concezione
naturalistica della religione. Per la religione il
sacrificio è essenziale: il cambiamento e anche la rottura di piani, il commercium, la morte e resurrezione, l’immolazione della
contingenza, o come altro si voglia chiamarlo.
La religione è invece risposta, nuova
vita, trasformazione delle strutture prime, ovvero la
guarigione, la salute. Una salvezza insalubre, una salvezza che non sia al contempo salute non è salvezza, anche se resta da
chiarire in che cosa consista la vera salute, che non è evidentemente solo un
buon funzionamento fisiologico.
Ripeto: la religione senza la medicina
è disumana, diventa crudele, aliena l’uomo dalla sua vita sulla terra, diventa
essa stessa patologica.
Passiamo al terzo aspetto (positivo) della tesi.
3.
La relazione tra medicina e religione è ontonomica.
Non si tratta di subordinare la
medicina alla religione né la religione alla medicina.
La relazione non è né di autonomia né di eteronomia.
Religione e medicina non sono totalmente indipendenti, ma neppure dipendenti l’una dall’altra. Come nella politica o nella
scienza, le due esperienze sono risultate funeste. La
loro è una relazione di ontonomia.
Religione e medicina non sono né dipendenti né indipendenti, ma intradipendenti; sono interconnesse perché formano parte di
un tutto.
La relazione ontonomica
si riferisce al nomos dell’on, cioè
alla regolarità intrinseca all’essere stesso nella sua relazione costitutiva a
un tutto di cui fa parte. Medicina e religione sono due volti di una stessa
realtà: la prima evidenzia l’arte di acquisire e conservare la salute (da
definirsi secondo le diverse tradizioni); la seconda accentua il carattere ultimo
di questo benessere o pienezza dell’essere umano e i mezzi che a esso conducono. In fondo, l’ontonomia
è la struttura della a-dualità.
Un esempio ci consentirà di essere brevi. E meglio entrare monco o
cieco nel regno dei cieli piuttosto che con un corpo integro essere allontanato
dal regno della vita. Esiste una gerarchia di valori e né l’occhio né la
mano costituiscono l’essenza della persona. È meglio
soffrire di stomaco e amare il prossimo (e sperimentare così che cos’è la vita
eterna) che odiare i nostri vicini e avere un’ottima digestione (e fare quindi
delle buone sieste). Chi ama veramente, però, è molto più portato ad avere uno
stomaco sano di chi invece odia. Esiste una relazione diretta (anche se non
immediata) tra amore e buon funzionamento del corpo, così come ne esiste una tra odio e disordine funzionale.
Stiamo toccando il tema della santità e
dell’infermità oltre che i problemi di psicologia della mistica. Senza
addentrarci oltre in questi problemi, possiamo dire
che non sempre salute fisica è sinonimo di salute psichica né questa sinonimo
di salvezza, anche se per una vita religiosa è necessario un equilibrio tra
anima e corpo. A che cosa gioverebbe la vista al cieco del Vangelo se non gli
servisse per il regno dei cieli?
La relazione ontonomica
ci dice che non si tratta di una medicina religiosa,
cioè condizionata o guidata da considerazioni «religiose», e nemmeno di una
religione «medica», cioè diretta alla semplice cura del «composto» umano. Per
meglio dire: nelle precedenti espressioni le due parole «religione» e
«medicina» sono impiegate in modo improprio. Se
rifiutiamo l’autonomia (dualismo) ripudiamo ancor più l’eteronomia (monismo).
Facciamo un esempio significativo
per evitare disquisizioni più prolisse: la morte. Non è convincente dire che la morte attiene alla religione e la vita alla
medicina che, cioè, quest’ultima serva per
peregrinare con un certo agio su questa terra e la prima per raggiungere
l’altra. La religione non può prescindere dalla vita così come
la medicina non può prescindere dalla morte. Religione e medicina si scontrano quando si confrontano con la morte, ma restano
ambedue attonite di fronte al mistero. L’una e l’altra si rendono conto che
l’importante è l’aver vissuto bene, avere, cioè, assaporato
a fondo la vita, e capiscono che l’essenziale è il saper morire bene: il
trovarsi nella condizione, cioè, di non cadere nella banalità di una semplice
estinzione delle funzioni fisiologiche.
Tutte e due, però, si trovano di fronte
a qualcosa di radicalmente incomprensibile. La morte come fenomeno è
inafferrabile dalla coscienza diretta. Essa rappresenta un punto di discontinuità
incommensurabile con quanto precede e quanto può seguire. Non esiste esperienza
né scienza della morte, ma solo credenza e speranza
nel suo significato. La morte è una infermità della
coscienza: non esiste coscienza possibile della morte perché essa, in quanto
tale è perdita di co-scienza (il morto non è più tra noi) anche se può essere
un risvegliarsi a una conoscenza superiore (scientia).
Ciononostante tanto la medicina quanto
la religione non possono eludere l’incontro con la
morte sia per allontanarla, eliminarla o trasformarla. Ci troviamo di fronte al
mistero del tempo e della tempiternità, chiave
segreta dell’esistenza umana. Lasciando però ora da parte questo mistero,
possiamo passare alla formulazione concreta e conclusiva della tesi.
B.
Corollario: la relazione tra medicina e religione evidenzia
la necessità di un superamento dei rispettivi concetti
Accade ora, qui, qualcosa di simile
alle celebri dispute tra la ragione e la fede, la natura e la grazia, la teoria
corpuscolare e quella ondulatoria, l’uovo e la
gallina, che rappresentano in fondo problemi mal impostati, per risolvere i
quali bisogna fare un passo avanti. Ci troviamo di nuovo di fronte al regressus che rifiuta l’idolatra del progresso. Quante
volte ci manca l’occhio dell’artista o il cavillare del filosofo! Per fare un
passo indietro e captare un’altra prospettiva! In fondo questo esige di non
stare attaccati al passato, al già fatto, all’inerzia dell’essere.
Esiste una relazione tra la libertà taoista, il distacco hindù e
l’indifferenza buddhista (per non citare che tre
casi) e l’atteggiamento fondamentale che vorrei illustrare. E
scritto che lo Spirito fa nuove tutte le cose, il che implica il non restare
attaccati al vecchio e accettare invece il processo di morte e resurrezione.
Nuovo non è ciò che è cronologicamente posteriore, come l’estate che viene dopo
la primavera, o ciò che è spazialmente distante, come
un prodotto esotico al mercato. Il nuovo non è l’«ultimo modello», né una
modifica dell’antico. Nuovo qui è il simbolo della creatività
dell’essere, della vitalità della realtà; è la comparsa dell’impensato in
quanto ritenuto impensabile; è la liberazione dell’Essere nei confronti del
Pensiero. E l’attributo della libertà.
Il fatto che manchino le parole per
descrivere ciò che vorrei è, da un lato, molto scomodo, ma
conferma, dall’altro, la novità di ciò che cerco di dire. Non si tratta di una
sintesi né di una riconciliazione tra religione e medicina. Non possiamo
eliminare i millenni trascorsi. Non è questione di un ritorno all’antico e
neppure al meglio delle religiosità tradizionali, anche se questo non significa
trascurarle o non valorizzarle. Si tratta di una fecondazione tra il nuovo e
l’antico (come diceva già il Vangelo), tra le nozioni tradizionali di medicina
e religione sia tra di loro sia con la nostra visione
contemporanea.
Forse due parole esogene possono
aiutarci a chiarire l’atteggiamento umano fondamentale che cerco di descrivere.
Se mi limitassi a propugnare una «religiosità per il
nostro tempo» o una «spiritualità contemporanea» come si fa tanto spesso, non
usciremmo mai dai vecchi schemi, né renderemmo giustizia alla situazione
attuale. Non si dimentichi che, superata la visione dell’uomo preistorico,
entriamo ora nella fine dell’esistenza storica e intravediamo gli albori di una
nuova mutazione cosmica. Le due parole che ci serviranno per descrivere questo atteggiamento umano fondamentale sono una greca, eudokia, e una sanscrita, dharma.
Che si lasci da parte la parola religione, così come fa il Nuovo Testamento, lo si comprende facilmente non solo per i suoi molti legami
con il passato, ma anche perché si cerca proprio di superare il dualismo tra
medicina e religione senza per questo eliminare l’ontonomia
esistente tra le due. Non pretendo di dare un senso religioso alla medicina (non sarebbe che una difesa conservatrice della religione) e
nemmeno di scoprire un significato igienico e medico-scientifico alla religione
(non sarebbe che una difesa conservatrice della medicina). Le due parole che
propongo vogliono simbolizzare il frutto di questo incontro.
Mi avvalgo di queste due parole come meri indicatori di un atteggiamento di
base.
Mi si consenta una considerazione
sociologica. Quante volte incontriamo persone deluse dalla medicina! E ancora
più spesso ci imbattiamo con interi strati della
società delusi dalla religione. Indicare loro una nuova medicina o predicare
loro una nuova religione risulta assolutamente
superato e poco convincente. Le nuove medicine sono poco efficaci e le nuove
religioni sette di poco valore.
E necessario un atteggiamento nuovo nei confronti della
vita, occorre instaurare un nuovo stile di vita. Semplici riforme non sono che il prolungarsi dell’agonia di una civiltà. Ecco
perché occorrono parole nuove che esprimano la novità di una nuova esperienza.
D’altra parte è ingenuo e impossibile
«voltare pagina»; non si può ignorare la storia e neppure limitarsi
semplicemente a fare marcia indietro. Bisogna connettersi con la tradizione. Si
chiede dunque aiuto a parole che esistono in altre tradizioni confidando nella
forza della mutua fecondazione di cui si è parlato.
Alla nostra attuale sete di salute e di
salvezza non si può rispondere semplicemente con una critica iconoclastica
dell’esistente. Bisogna cercare alcuni punti di aggancio.
La delusione nei confronti della religione dell’uomo medio di
queste latitudini è lampante.
Le restaurazioni non convincono. Le
innovazioni non attecchisco. La parola religio appare solo qualche rara volta nella Voigata e generalmente in un senso diverso dal senso moderno di religione. Alcune volte l’aggettivo
neotestamentario sòaa (eusebs)
è tradotto con religiosus. Da qui nasce la mia idea
della fecondazione e la giustificazione di questi due vocaboli al contempo
antichi e nuovi.
1.
Eudokia: sposare, buona volontà e benessere
(contentezza)
Eudokia con tutte le
sue connotazioni e i suoi derivati ci potrebbe servire
a esprimere questo atteggiamento fondamentale.
Il prefisso eu
indica positività, benessere, gioia, nobiltà. E il verbo dokeo
sta a indicare non solo apparire ma anche giocare,
sperare, credere nonché essere migliore, distinguersi, essere degno. Il
significato profondo di eudokia
coniuga in modo armonico l’aspetto individuale di piacere, felicità e
soddisfazione con l’aspetto sociale di essere d’accordo, acconsentire, riconoscere,
accettare, e quindi anche di giustizia, con una terza dimensione dinamica di volontà,
desiderio, selezione, «scelta», decisione.
E ben nota la frase evangelica di pace
agli anthròpois eudokias
tradotta con «gli uomini di buona volontà» o uomini in cui alberga
il favore, divino, in questo caso.
Senza addentrarci in dettagli
linguistici, l’area vitale di questa parola sta a indicare
quanto segue: quell’atteggiamento fondamentale di
buona volontà, decisione e aspirazione che risponde positivamente a quanto
viene da fuori (la trascendenza) e che, sapendolo accettare, lo assimila e vi
scopre la pienezza e la felicità personale. In certo qual
modo eudokia unisce armoniosamente, la libertà alla
felicità. Essa rappresenta il frutto di un’armonia tra ciò che siamo stati (natura) e gli effluvi che ci raggiungono:
accettandoli li trasformiamo per arrivare ad essere (ciò che veramente siamo,
ciò che siamo chiamati a essere...). La parola dignità (dignus),
che deriva dalla stessa radice, potrebbe forse esserne la sintesi senza dimenticare
che il vocabolo significa anche eleganza e anche bellezza (decus).
Vere dignum et iustum est, aequum et salutare dice l’introito del rito latino cristiano
giocando con quattro aggettivi relazionati a questa nozione di
eudokia. Essa rappresenta l’unione armonica
tra l’immanenza e la trascendenza. La nostra dignità risiede in questo.
Quando medicina
e religione si fecondano, danno luogo all’eudokia
come quell’atteggiamento umano fondamentale che ha
superato, senza disconoscerle, le dicotomie tra individuo e società, questo
mondo e quello a venire, l’interno e l’esterno, la conoscenza e la volontà.
2.
Dharma
È la parola chiave di tutta la
concezione hindu e probabilmente asiatica. Stabilisce
la relazione con la nozione vedica di rta e quella latina medievale di ordo e ha a che fare con la concezione greca dell’universo
come kosmos. L’etimologia evidenzia la radice dhr, che significa prendere, conservare, mantenere in
coesione. Dharma è ciò che mantiene i popoli in coesione
armonica, dice il Mahabharata.
L’idea implica un ordine sociale
vincolato ai quattro stadi della vita asrama-dharma e
un ordine cosmico al quale deve adeguarsi l’uomo al di sopra
di ogni altro conflitto morale come è vivacemente descritto nella Bhagavadgita. Chi turba questo ordine
si danna. Il dharma è l’ordito stesso dell’universo. È
la rete i cui nodi sono le persone stesse.
Nelle lingue derivate dal sanscrito
nell’India contemporanea si suole tradurre religione con dharma,
che vuoi significare anche dovere, diritto, consuetudine, legge, giustizia,
moralità, norma, virtù, merito, condotta, carattere, dottrina, armonia. Dharma è anche il carattere di realtà di ogni
cosa e così via. L’essere umano è nella misura in cui riconosce il suo svadharma, che costituisce la sua
appropriazione personale e specifica del dharma
universale. Dharma è ciò che mantiene ogni essere al
proprio posto nell’universo.
L’introdurre questi due vocaboli vuol suggerire un triplice superamento della modernità:
dell’individualismo da una parte (medicina e religione limitate all’individuo),
dell’antropocentrismo dall’altra (medicina e religione
limitate all’uomo) e del dualismo da una terza (medicina per questo mondo:
salute; religione per l’altro: salvezza e così via).
Eudokia e dharma, invece, esprimono una relazione diretta, da un lato
con tutta l’umanità e dall’altro con tutto l’universo. L’armonia universale dei
cinesi e dei greci, il corpo mistico di Cristo dei cristiani, la spiritualità antropocosmica dell’Africa, sono vicini all’atteggiamento
che intendo descrivere e che ho altrove chiamato intuizione cosmoteandrica.
Forse l’homus
religiosus è stato sempre eudotico
e dharmico, ma ha voluto esserlo anche lo sciamano, il medicine man. In ambedue i casi
bisogna superare il riduzionismo che lo limita all’individuo o all’uomo.
Medicina e religione, anche nel
migliore dei casi, sarebbero rimedi parziali ciascuno nel proprio campo. Ciò di
cui abbiamo bisogno è un’ermeneutica creativa che ci consenta
di superare queste barriere senza finire in un pelago privo di ogni possibile
orientamento.
Abbiamo patito una tale
erosione di parole che i nostri due vocaboli di medicina e religione non
servono né per indicare ciò che volevano significare all’origine né per
veicolare una visione dei mondo che integri gli apporti di altre culture e
l’impatto della modernità.
Religione ai nostri giorni suggerisce
più l’idea di un’istituzione che non quella di una dimensione più profonda
dell’uomo.
Medicina suggerisce una tecnologia e
anche una istituzionalizzazione molto lontana
dall’arte di conservare o acquisire la pienezza umana cui l’essere umano non
può fare a meno di aspirare fin da questa vita.
La seconda parte ci aiuti a vedere
quanto detto sinora con maggiore chiarezza.
II.
La verità della cosa
Fedele ai parametri menzionati e alla
prospettiva adottata, ricorrerò ora ai documenti più degni di fede in questo
campo: quello che si autodefinisce «la scienza della verità», ovvero l’etimologia. Nelle parole, infatti, sono
cristallizzate le esperienze più profonde e antiche dell’umanità.
Ogni parola è un mondo e ogni radice linguistica un seme di tutto un universo di
discorso.
Lo vedremo molto sommariamente,
analizzando le tre nozioni di cui ci occupiamo.
Non abbiamo detto ancora che cosa sia
la medicina, anche se ne abbiamo criticato implicitamente
una certa concezione. Medicina ha a che fare con medicare e quindi cominceremo
da lì, consultando la saggezza stessa delle parole. Medicina ha anche a che
vedere con salute e ci renderemo di seguito conto che la stessa parola ci
suggerisce salvezza che sembra essere il compito specifico della religione.
Analizzeremo dunque, anche se molto succintamente, il significato di questi tre
gruppi di vocaboli.
1.
Medicamento, meditazione, misura
Che ci dice la
parola medicina di per sé?
Medicina,
medico, medicamento e tutti gli altri derivati provengono direttamente
dal latino medeor (mederi),
che significa prendersi cura, curare, medicare. E non dimentichiamo che, se in castigliano la medicina è la scienza o l’arte che cerca di
curare le infermità, cioè le debolezze (infirmitates), la mancanza di vigore, di forza (il greco asthenes, asteneia), nella
maggior parte delle lingue romanze la «medicina» cerca di curare le malatties (catalano), maladies
(francese), malattie (italiano) - anche se esiste pure infermo -, e così via, vale a dire «i cattivi habitus» (male se habens), senza
dimenticare il sarcasmo del catalano che chiama il veleno metzina e anmetzinador l’avvelenatore: il
medicamento trasformato nel suo contrario. Si delinea
già così il campo in cui medicina e religione si fanno concorrenza nella lotta
contro il male. Ma è una lotta intelligente.
Il medico in sanscrito è il vaidya, cioè colui che sa, che
conosce, che vede. La radice vid significa conoscere e la si
ritrova nel latino videre
e nel nostro vedere. Ai nostri giorni
il dottore per antonomasia, cioè l’uomo dotto, che sa, ancor meglio che insegna (docet), è il medico
(non il filosofo né il teologo). Così pure il tedesco Artz, dal latino tardo archiater, derivato
dal greco arch-iatros, capo-medico (medico di corte, primario).
Un altro vocabolo sanscrito è cikitsaka, da cikitsa, curare,
ottativo di cit,
percepire, essere cosciente, conoscere. Medico è colui che
accudisce e cura perché conosce, è colui che ha conoscenza, il saggio. Si cura
mediante la conoscenza, non con un intervento - quasi un esperimento.
C’è però dell’altro. L’iterativo
di medeor (mederi) che
abbiamo appena commentato è meditor, da cui meditare, meditazione. La medicina è
una meditazione. E, se Platone definì la filosofia meditatio mortis, la
medicina ayurvedica definisce etimologicamente se stessa
meditatio vitae, scienza della vita: ayur-veda. La vera meditazione è la grande medicina. Non dimentichiamo che stiamo «meditando»
sul tema «religione e medicina».
L’essenza della medicina non è la
conoscenza obiettiva nel senso moderno, ma la medicatio e meditatio, ovvero
la partecipazione esistenziale alla sistole e alla diastole della realtà che è
la vera meditazione: prendersi cura della realtà stessa partecipandovi in virtù
di questa conoscenza partecipativa o partecipazione cognitiva che è l’amore.
Quanto siamo vicini all’autenticamente religioso e
quanto siamo lontani da qualsivoglia religione ufficiale! Quanto vicini alla
medicina e quanto lontani da un ospedale!
Ma in che
consiste questa medicina che è meditazione e, quindi, conoscenza amorosa? Se
seguiamo il filo conduttore della radice indoeuropea
scopriamo che, oltre che curare, guarire e meditare, med sta a significare in effetti
misurare, così come indica anche la stessa parola castigliana
medir. La
medicina è quindi anche una misurazione, riflessiva, pensante, quindi
giudicante. Lo iudex
latino, il giudice, nell’osco latinizzato diviene meddix (in
origine meddiss),
dalla stessa radice med.
In persiano e in medio avestico si dice vi-mad. Ancora una volta la stessa radice med e il prefisso
vi che suggerisce il prendere le
distanze, e forse anche autorità. Anche il «medico»
giudica, è iudex.
Del pari, il vero giudice è anche medico. Ambedue meditano. In irlandese midiur (che
deriva dal latino medeor)
significa «io giudico».
Tocchiamo qui un punto cruciale di
tutta la cultura indoeuropea degli ultimi tre millenni e oltre. Esistono due
modi di esercitare quell’attività umana intellettuale
che siamo soliti definire pensare: una è misurare e si
esprime in sanscrito con la radice men (man) e i suoi
derivati mantra,
manana, manu, manyate, manas, mimamsa, ecc.; memona, mimnesko, ecc.,
in greco; memento, memini, moneo, ecc., in
latino. La radice me (m-e-t)
significa proprio pensare nel senso di misurare.
Da qui proviene il sanscrito manas, l’inglese mind, il latino mens-mensis, il
mese. La luna in tedesco è Mond, in inglese moon, perché ci serve per misurare il tempo. Meto vuol dire anno:
la misura. Meti
significa prudenza o, come abbiamo già detto, moderazione. Lo
stesso dicasi per l’indoeuropeo menot (genitivo meneses). Il latino è metior e il greco metron. Platone
chiamava la giusta misura metrion.
L’altra è la nostra radice med, che
significa sia pensare sia misurare, ma in modo diverso. La prima mette pioli o
pali per misurare quantitativamente (Pokorny), misura mediante strumenti; la seconda mediante moderazione (Benveniste), cioè essendo modestus, colui che è pieno di
misura (Benveniste), masvoll, bescheiden (Pokorny).
Questa misura è la misura del giudice, è quella che si attiene a un ordine perché crede, come dice
I Settanta traducono con metron, arithmon, stathmos, però è
evidente che non si tratta di un metro quantitativo né di un numero matematico,
né di un peso gravitazionale. Si tratta del riconoscimento di un ordine
cosmico, rta,
che fa sì che il mondo sia un kosmos e non un chaos. «La misura dell’uomo è quella dell’angelo», dice l’Apocalisse. La radice stessa med significa
dunque anche governare ed ha il senso giuridico di cui si è detto. Modo significa «la misura accertata che
ristabilisce l’ordine in una situazione agitata».
La cura non è frutto di un esperimento
quantitativo ma del ripristino di un ordine in una situazione perturbata.
Ho detto che
nel contrasto rappresentato da queste due radici si è giocato il destino
dell’Occidente. L’uomo è, infatti, un essere pensante, nonché
un roseau pensant, per
citare Pascal, o una res cogitans,
per dirla con Descartes, ma pensare può significare
molte cose. Può significare misurare,
ovvero realizzare un esperimento sulla realtà a patto
di conoscerne i moduli quantitativi, ovvero moderare,
cioè entrare in una esperienza di ciò
che è, giudicando secondo un paradigma superiore. Pensare, in una parola, può
significare men,
misurare, calcolare, o med,
meditare, riflettere. La prima formula sperimenta: la seconda si basa
sull’esperienza. La prima creerà le cosiddette scienze naturali; la seconda le humaniora.
L’Occidente moderno, da Galileo a Descartes, tra gli altri, ha optato
per la misura quantitativa, per il calcolo. E così una
persona calcolatrice è considerata prudente. La prudenza, la sophrosyne, cioè lo «stato sano dello spirito o del cuore» (Bailly) è degenerato in calcolo invece di essere moderato. Pensare è calcolare. La scienza
è calcolo. Bisogna trovare un modulo quantitativo per ogni cosa. La medicina
consiste allora in analisi cliniche. Il resto non è scientifico. I computer
governano la finanza, anacronisticamente chiamata economia, e con questa la
politica. La contemplazione è un lusso; l’arte un
passatempo. Poco importa in questo caso che i metodi di produzione siano nelle mani dello Stato o degli individui più intelligenti.
Si tratta sempre di metodi di produzione.
La cultura indoeuropea - limitandoci a essa - ha conosciuto, prima che i suoi ritmi fossero alterati
dall’introduzione dell’accelerazione, un’altra forma di pensiero quale la morfe, propria
della vita umana. È una forma sovrana di pensiero che non misura, ma modera; è
un conoscere che non interviene, ma spera, e sperando osserva e ama. Ciò che è
quantitativo lo si può calcolare; ciò che è
qualitativo deve essere gustato: occorre una estimatrice non una calcolatrice.
Non si tratta di optare
per le matematiche, dimenticando che i numeri per Pitagora erano le archai delle
cose. Non è questione di essere inclini alla tecnica,
dimenticando che per Platone techne era anzitutto l’arte della vita. Non dobbiamo
scegliere esclusivamente tra men e med.
Il nostro compito consiste nel realizzare una simbiosi positiva
e feconda in cui bios
supera la teoria e la prassi perché trova zoe, quell’altra
vita che perdura nei secoli.
Ecco dunque che
cosa è la medicina, stando al significato stesso della parola: medicamento, meditazione, misura. In altre
parole: la medicina è medicamento
quando opera attraverso una influenza esterna, sia questa la
trascendenza o una mano più esperta; è meditazione
per crescita interna e conoscenza interiore della situazione personale; è misura quando opera nell’ordine modesto
(pieno di misura) delle cose e per il mantenimento o per il recupero
dell’armonia che, in ultima istanza, costituisce la realtà. Passiamo ora a
vedere se siamo o meno vicini alla religione.
2.
Salvezza, salute, fiducia
Se la medicina presenta le tre componenti menzionate, anche la religione annovera i tre attributi
citati. La saggezza delle parole ci condurrà per mano anche qui ma, grazie alle
riflessioni precedenti, possiamo ora essere più brevi.
Il latino salus come stato di chi è salvus, in greco
è detto soteria. Il vocabolo sta per salvezza,
salute, salutare e, di conseguenza, sicurezza. C’è una radice sanscrita che
significa vigore, potere, forza. Il suo senso primo lo si
riscontra nel significato del sanscrito sarva, intero, completo, intatto e, di conseguenza, tutto. Salut in francese
significa l’azione di essere salvato e l’azione di salutare, Heil in tedesco
significa sia salvezza che salute. Fino al III secolo
d.C. salvare e salutare conservavano ancora un flesso:
salvare, salutare. L’idea di salvezza e anche di riscatto e, quindi, di
perdono gioca essa pure un ruolo nella storia di soteria. Il re salvatore non solo
salva, ma anche perdona. La salvezza è il ristabilire la totalità, l’essere
completo. Il primo significato della parola tedesca ganz (Ganzheit) è lo stesso di heil, quello di
essere salvato e di essere sano per essere completo,
per essere genug,
colui che ha sufficienza di ciò di cui necessita. Salvo è chi è sano e salvo, cioè unverletzt,
vollstanding,
sicuro, protetto.
La radice fa pensare a holos, totus, completo,
«olistico», ed è in relazione con l’omnis latino,
traduzione del sanscrito visvah.
La relazione tra solius
e solidus
non è meno interessante. E solido ciò che è completo, che non ha fessure, che è compatto. Insanus in latino non è un semplice malato, ma un demente.
Ciò che è malsano è più che infermo, è
cattivo. La parola indoeuropea per sano è formata da kal (kali, kalu) che significa anche bello.
Ricordiamoci del greco kallos
bellezza e del sanscrito kalyana,
bello, salutare.
Tanto la medicina quanto la religione,
dunque, vogliono salvare l’uomo nel senso che abbiamo
detto: renderlo completo. La religione, inoltre, vuole dargli la fiducia che lo
salva. Per farlo, chiede fede. Possiamo però accontentarci della dicotomia che
l’una salva il corpo e l’altra salva l’anima? O si può
ammettere che la medicina cerchi di ristabilire la salute su questa terra e la religione la salvezza nell’altra? Neghiamo questo dualismo
senza per questo cadere nel monismo. E, questa, l’ontonomia o l’advaita.
Anche ammettendo però questa dicotomia letale, non per questo
medicina e religione cesseranno di avere una relazione intrinseca e
costitutiva. Malgrado tutte le dovute distinzioni,
l’uomo è un’unità e non può essere salvato se è frantumato. Non è possibile
l’autopsia di un essere vivo non solo perché lo si
ucciderebbe ma anche perché essa perderebbe la sua ragione d’essere.
Riassumendo:
non esiste salute
senza salvezza né salvezza senza fiducia. Può esistere un organo sano e una
salvezza transitoria. La sicurezza non è la certezza di una conoscenza
oggettiva. Non ci basiamo sugli oggetti, ma sulla realtà. La fiducia è cosmica
o, meglio, cosmoteandrica. In una parola, non esiste
salvezza individuale. La salvezza è un’equazione armoniosa tra il mio essere e
la mia vita ovvero tra l’Essere e
3.
Religione, religazione, ri-elezione
È ben noto che non esiste un vocabolo
universale per definire ciò che chiamiamo religione,
neppure nell’area linguistica indoeuropea. Dopo tutto
ciò che abbiamo detto possiamo essere anche più succinti.
Il successo stesso che ha avuto la
parola religione per designare un insieme di miti, credenze, simboli e azioni
che pretendono portare l’uomo alla sua destinazione finale, è stato, per
paradosso, la causa della sua limitazione e, in certo qual modo, del suo
discredito.
Le origini della parola sono molto più
modeste. Grammaticalmente, ciò che sembra più probabile è che religio derivi da re-legere,
secondo l’interpretazione di Cicerone, cioè cogliere,
raccogliere, anche se in campo filosofico si è preferita l’accezione di
Lattanzio che propende per religare, qualcosa, cioè,
che unisce, lega, l’uomo alla sua divinità. Xavier Zubiri
più di recente specula sulla religazione dell’uomo.
La parola ha avuto illustri difensori. E anche nota l’interpretazione di sant’Agostino, che fa derivare religio
da re-eligere quale lo sforzo e la scelta che fa
l’uomo per arrivare a unirsi a Dio, per riallacciare
il rapporto interrottosi con il peccato originale.
Senza ulteriori
disquisizioni e senza commentare il fatto che la vera religione sia o meno
quella che ci libera dai legami che, cioè, ci dà la libertà, prima di legarci,
ciò che si deduce dall’insieme linguistico accennato, è che esiste qualcosa,
nell’uomo e fuori di lui, e forse nei due ambiti, che è necessario all’essere
umano per arrivare ad essere sano e salvo. L’uomo è un essere incompleto. La
fede è la sua capacità di arrivare ad essere più (migliore) di quanto non sia.
La medicina e la religione sono, nel peggiore dei
casi, due istituzioni e, nel migliore, l’espressione di una dimensione umana
che deve essere colmata, sanata, salvata, riscattata, portata al completamento,
benché sia relativa e supponga anche la rinuncia a tale sogno.
Concludiamo quanto ci
eravamo proposti sottolineando l’intima relazione tra i due vocaboli e traendo
da quanto detto alcune conclusioni.
III.
La vocazione all’armonia
Abbiamo già detto
che non vogliamo arrivare ad una concezione magica delle cose o cadere in una indiscriminazione acritica nelle diverse sfere della
realtà. Non è questione di sentire nostalgia per il caos primitivo, ma di
superare piuttosto la frammentazione della vita, dovuta alla specializzazione
cancerosa della civiltà moderna. Si tratta di ristabilire l’armonia tra le
diverse dimensioni della realtà, quella armonia che
tra gli altri i presocratici, i taoisti
e i seguaci del vednta hanno cantato con parole
profonde ed eloquenti.
Porteremo, per cominciare, un esempio a
proposito della religione:
la perdita della
funzione medica della religione, ossia la meditazione. Si tratta di trovare
l’armonia interiore della persona. Non dimentichiamo che il nome tradizionale
di quest’arte è medicina.
Proseguiremo poi con un esempio a proposito
della medicina: la perdita della funzione religiosa della stessa, ovvero della salute-salvezza. Si tratta qui di trovare
l’armonia esterna della persona. Non dimentichiamo che il nome tradizionale di quest’arte è musica.
Concluderemo prendendo in
considerazione una medicina tradizionale quale stimolo per la nuova sintesi che
auspichiamo.
1.
L’esperienza personale
Vorrei illustrare un’esperienza di cui
quasi tutti siamo capaci, ma che solo pochi di noi conoscono.
E stato detto più volte che a quarant’anni
siamo tutti responsabili della nostra buona o cattiva cera. Ma v’è di più. La nostra salute dipende non tanto dalla nostra «volontà» - quale facoltà di scelta (o di far buon
viso) quanto dal nostro essere. La nostra salute dipende tanto dalle cause
estrinseche che la condizionano, quanto dalla nostra disposizione intima (dal
nostro essere più profondo, al di là dell’arbitrio
condizionato da stimoli esterni).
Il funzionamento del mio corpo è in
relazione diretta con il funzionamento della mia anima - per usare questo
linguaggio vecchio stile. Non esistono solo disturbi somatici né disturbi solo dell’anima.
La meditazione non è un rimedio solo
per la pace dell’anima e per la chiarezza dell’intelletto; è anche un benessere
per il corpo.
In altre parole: non esiste eucaristia
senza pane, ovvero non c’è salvezza senza nutrimento,
non c’è salvezza senza salute. Annam brahman, dicono le upanisad. Brahman è nutrimento. Quando i genitori dicono al bambino
che se dirà bugie gli cadranno i denti, esagerano, ma
l’asserzione racchiude una grande verità. Sono gli errori della nostra vita la
con-causa del decadimento del nostro corpo. Certo, l’errore può essere quello
del nostro vicino che ci sferra un pugno e ci fa cadere un dente o che ci investe con l’auto e ci rompe un braccio. Ma anche in
questo caso esiste una interdipendenza.
I miracoli di Cristo non sono tanto le
azioni di un taumaturgo per attestare la sua missione quanto l’effetto diretto
tra medicina e religione, ovvero tra salute e
salvezza. Gli infermi, invalidi o miserabili, riacquistano la salute perché si
salvano. Cristo non fa giochi di prestigio, né si preoccupa solo dell’aldilà.
Le sue guarigioni sono i simboli stessi della
salvezza, dicono i Vangeli. Proprio per questo richiedono la fede, ovvero la fiducia, l’abbandono, la purezza di cuore, tutta
la forza del nostro essere.
In una parola: noi siamo gli artefici
del nostro destino e ciò grazie non tanto a una
volontà a sé stante, quanto alla forza integrale del nostro essere. Forza che
non viene solo da noi, ma che noi dobbiamo ricevere e trasformare. E per questo
che dobbiamo conoscere veramente noi stessi, come
esortava l’oracolo di Delfi. Come però faceva notare Zhuangzi:
«Gli uomini non possono vedere il proprio riflesso nelle acque agitate, ma solo
nelle acque tranquille». La parola consacrata per questa autoconoscenza esistenziale
è quella della meditazione. «Diventiamo quello che
meditiamo», dicono i Sathapatha
Brahmana.
«La vita eterna è questo - dice Cristo -, che conoscano
te e colui che hai mandato». Questa conoscenza non è una semplice percezione
intellettuale, ma consiste nell’identificazione, potremmo
dire anche incorporazione, alla realtà teandrica di
cui parla l’ultimo testo.
Non bisogna intendere la meditazione
come narcisismo spirituale o chiusura in se stessi. Essa è, al
contrario, quella attività dello spirito che va oltre il mentale, ma non
lo reprime, anzi lo accoglie. Da qui l’importanza di «sapere» meditare, che non
è il pensare quantitativo né calcolatore, ma la partecipazione totale alla
realtà stessa sia oggettivamente e soggettivamente.
[“ Molte parabole
di Cristo riecheggiano questo tema.
Pavel Florenskij (che morì nel 1943 dopo undici anni di
deportazione in Siberia): «Non bisogna tuttavia confondere il carattere sovrarazionale della vita spirituale, e il carattere irrazionale
della vita naturale quale fenomeno biologico»].
Partecipazione che inizia con i buoni pensieri sulla
realtà circostante, cominciando dal nostro corpo fino ai confini dell’universo.
La medicina migliore, quindi, è la
meditazione, ovvero la reintegrazione armonica al
reale. Riuscire a entrare nel flusso e riflusso della perichoresis
trinitaria, entrare, potremmo dire, nella choreia, nella danza di tutta la
realtà, ristabilire l’armonia con la forza stessa dello spirito: Sana quod est saucium, ... rege quod est devium.
Nella tradizione giudeo-cristiana
esisteva un tempo la cosiddetta custodia del cuore (phylake kardias) o anche
la custodia dello spirito (teresis noos), pratica basata sull’esegesi più o meno letterale del
Libro dei Proverbi: Omni custodia serva cor tuum,
quia ex ipso vita procedita
(custodisci il tuo cuore con diligenza perché da lui nasce la vita). Ciò
che interessa qui a noi, oltre il fatto che lev (leveo) in ebraico sta a significare sia il centro intellettuale che volitivo e
spirituale dell’uomo, è l’ammonimento di prendere la nostra vita nelle nostre
mani e renderci responsabili e forgiatori del nostro destino.
Non è ora mio compito citare le
tecniche, orientali o meno, di meditazione, l’importanza delle infermità
mentali e la comparsa della psicologia quale branca medica. Vogliamo ricordare
solo l’aspetto più semplice, ma fondamentale.
L’abbiamo chiamata la funzione medicinale della religione e la incentriamo sulla conquista
dell’armonia interna della persona. La parola che vorremmo usare per un attimo sta a indicare forse la medicina migliore, ma essa è
talmente cara - e talmente efficace - che non la si può comperare neppure con
la volontà: la pace.
Chi è in pace è
sano, è allegro; non ha paura di nulla e di nessuno; non teme la morte e, soprattutto,
non desidera inconsciamente l’infermità affinché gli risolva i problemi, non
favorisce involontariamente la guerra con le sue insicurezze e le sue ansie. La pace è
interiore ed esteriore, è la pace dello spirito e anche la pace
del corpo, quella della vita personale sia intima sia comunitaria, la pace
sociale e quella politica. E la pace che non innalza baluardi
i quali, come affermava Platone, non garantiscono la salvezza né della vita né
della città.
La pace si riceve, la pace si dà, la pace si conquista e si merita; essa è il
frutto della profonda eris
(lotta) eraclitea. Ma la
pace non si conquista con la forza. Se ho vinto il mio corpo, il mio spirito
non avrà pace; se la mia anima è stata sconfitta, il mio corpo si vendicherà;
se noi vinciamo, voi, prima o poi, vi vendicherete o
lo faranno i vostri figli; se abbiamo soggiogato la terra, essa non ci lascerà
in pace, se non c’è pace in famiglia non tarderà a manifestarsi un’ulcera allo
stomaco, se non c’è pace sulla terra, le infermità non cesseranno né gli uomini
saranno salvi, cioè sani. La pace non è frutto della vittoria perché vi sono comunque dei vinti, non è il trionfo dei buoni. La pace non
è il trionfo di nessuno. La vittoria reca il trionfo, non la pace. La pace è
frutto della meditazione. E un frutto dello Spirito,
dice la tradizione cristiana. Parlando in termini medici, non bisogna uccidere
i microbi, dice la medicina ayurvedica. Una medicina
a-dualistica non mette sullo stesso livello il bene e il male, la salute e la
malattia. Quest’ultima non deve essere vinta ma
superata, eliminata e magari rimossa. Meglio, il concetto stesso di malattia è una astrazione e, ciò che è ancor peggio, un’astrazione
oggettivata.
Abbiamo detto
che la religione deve essere medicina e che questo medicamento è la meditazione.
Dobbiamo ribadire
però che una meditazione che non cura non è reale meditazione, ma evasione
dalla realtà. Ordunque, il reale non è solo il
temporale e ciò che è oggetto di verifica (o falsificazione) sperimentale. La
prima funzione della meditazione è forse quella di liberarci dalle angustie
temporali. Meditare significa entrare nell’esistenza tempiterna
superando l’assolutizzazione del tempo. La
meditazione ci guarisce dalle angosce temporali e quindi dal «terrore della
storia» (Eliade). Non si medita per, per il futuro o
qualcosa d’altro. Proprio per questo la meditazione è considerata
tradizionalmente un dono, dato che va oltre al potere della volontà. Voler meditare
come se si trattasse di prendere una medicina,
«Tutte le medicine e le terapie che
comprendono le misure preventive prescritte nell’ayurveda mirano a condizionare i tessuti e non a
uccidere gli organismi invasori». Bhagawan Dash,
falsa il significato
stesso della meditazione. Chi medita scopre la dimensione transtorica
della realtà e quindi non vive più proteso al futuro. Si vive perché si vive e non per continuare a vivere. La vita non è lo
scorrere del tempo, ma il cavalcare con il tempo e il
perforare l’involucro della temporalità, scoprendo il regno della tempiternità. Vivere è un’attività al contempo transitiva e
intransitiva.
2.
La eterostasi
A omologare
l’uomo all’universo non sono solo le cosmologie della Cina, dell’India e
dell’Africa; anche
A questo elevato
grado di astrazione, l’intuizione appare sublime e raccoglie il consenso generale.
Ma le difficoltà compaiono quando si va più nel
concreto.
Cerchiamo di farlo all’interno del
nostro tema. E, per evitare anche l’astrazione medica, non domandiamoci se il
medico sarebbe disposto a curare anche l’anima o la
società malata (dato che l’uomo è anche comunità); ci permetteremo invece di
avanzare una ipotesi che ferirà forse la sensibilità medica. Ecco di che si
tratta.
Dire che la
malattia è una manifestazione della disarmonia umana e anche di quella cosmica
non è che ripetere ciò che la maggior parte delle tradizioni dell’umanità ha
detto e creduto. Aggiungere che esiste una relazione poco meno che ontologica
tra la casa come habitat umano e il corpo dell’uomo, è solo ricordare che anche
in Cervantes e Fray Luis de Leon la parola castigliana vivienda sta per
ambedue le cose cioè la casa, l’edificio materiale, e
lo stile di vita, il modo di vivere. La connessione è tanto stretta che in
molte lingue indoeuropee lo stesso verbo esprime sia il fatto di essere vivo che quello di abitare. Direbbe uno spagnolo:
io vivo perché vivo (abito) nella mia vivienda (casa)
coi mio proprio stile di vita (vivienda).
Leggere nella storia delle religioni
che il mondo non è un involucro esteriore, una specie di spazio newtoniano in cui sono inseriti
gli esseri umani, è senz’altro interessante: come per i sermoni religiosi
tradizionali, però, tutto ciò è assolutamente irrilevante per l’attività scientifica
e, nel nostro caso, per la pratica della medicina. Né Dio né la religione devono intervenire in un lavoro scientifico serio! La storia
è troppo piena di amare ingerenze! Miguel
Servet non è, disgraziatamente un’eccezione. Credo
che sia risultato abbastanza chiaro che la posizione è
lontana tanto da eteronomie asfissianti quanto da autonomie letali. Né monismi, né dualismi, ma l’a-dualismo dell’ontonomia! Ma non ho ancora
presentato la mia ipotesi.
Una delle cause del cancro che decima
la popolazione del mondo industrializzato è da ricercare proprio nella perdita della omeostasi sociale e cosmica
che caratterizza la modernità.
Per modernità intendo il complesso
tecnocratico che domina i destini del mondo attuale e detta i ritmi della vita
quotidiana nonché le forme di pensiero. Non è
necessario ricordare qui che caratteristica del cancro è la perdita della
funzione autoregolatrice di un determinato gruppo di
cellule dell’organismo vivente: esse hanno perso la capacità di
auto limitarsi. E nessuna omeostasi
esogena ha dimostrato di essere in grado di impedire la proliferazione
cellulare.
La tecnologia moderna (che è molto più
che scienza applicata) e che si basa sull’accelerazione e la moltiplicazione
(non ha senso costruire migliaia di chilometri di autostrade,
tonnellate di leghe metalliche e di liquidi carburanti per una sola automobile)
genera la società dei consumi, esige l’attuale ritmo di vita, distrugge il
concetto circolare del tempo e, in una parola, colloca sul piedistallo più alto
il principio del più, del più quantitativo. Non esiste limite intrinseco, cioè ontonomico, al guadagnare più
soldi, andare più in fretta, produrre di più. I soli limiti
esistenti sono come tariffe doganali artificiali, per così dire, siano esse
considerazioni morali o paura del prossimo. E neppure
la corsa agli armamenti, che tutto il mondo riconosce essere superflua ed
economicamente un peso per i popoli, sa autolimitarsi.
La nostra cultura ha perduto la sua omeostasi.
E poi ci chiediamo meravigliati quale sia l’origine del cancro e ci chiediamo perché i popoli non
ancora sprofondati nella voragine tecnologica presentino un indice cancerogeno
più basso. Abbiamo dimenticato che la terra è un organismo vivente e ne stiamo
infrangendo l’equilibrio. La convinzione dell’anima mundi da un paio di secoli a oggi era poco meno che universale. Tutto si ripercuote su
tutto e non solo sul piano fisico, come la «pioggia acida» che distrugge i
boschi o il Concorde che, per far guadagnare un paio d’ore a
una manciata di signori, brucia anni di energia accumulata nelle viscere della
terra. Tutto è in relazione con tutto anche sul piano fisico e spirituale. Non
si può restare naturalmente sani in una megalopoli. Per farlo, occorrono
medicine artificiali. La megalopoli, infatti, non è un’immagine
dell’universo, non è un habitat umano adottato dall’uomo e adattato alle
necessità del corpo e dell’anima. Non esiste un’armonia possibile. Si capisce
quindi perché l’anima si senta imprigionata nel corpo come lo è il corpo nella città. Non c’è flusso, non c’è commercio, non
c’è armonia. L’uomo si è alienato dalla terra. Abbiamo quindi bisogno della medicina
artificiale, della tecnologia, nonché di tutto
l’insieme di protezioni che abbiamo dovuto inventare. Abbiamo cercato
«certezza» basandoci su noi stessi (Descartes) e
siamo andati a finire nell’ossessione della sicurezza nazionale ancora
basandoci su noi stessi. Forse ora risulterà più
comprensibile ciò che abbiamo detto prima a proposito di religione e medicina.
Riuscite a immaginare il significato di un
elettroencefalogramma di Gesù di Nazaret, un’analisi
del colesterolo del Buddha o una psicoanalisi di
Confucio? Posso anche capire la curiosità scientifica, ma converrete anche con
me sulla totale irrilevanza di questi esperimenti.
E significativo
constatare che la massiccia ricerca oncologica si trovi come impantanata nello
studio dei mezzi, nella obiettività dei dati. Al più essa
sfocia nella sociologia e forse nella psicologia del problema ma, a mio avviso,
non ha ancora visto una connessione cosmica e teologica della questione.
Abbiamo perduto l’autolimitazione
naturale perché l’abbiamo eliminata dalle nostre vite e dall’ambiente nel quale
viviamo. Abbiamo provocato artificialmente il cancro della materia con la
fissione del nucleo atomico. La reazione atomica è provocata dalla distruzione
dell’omeostasi che mantiene le cose nei loro limiti.
«Il sole infatti
non oltrepassa la sua misura», dice uno dei frammenti di Eraclito. L’uomo invece li ha oltrepassati. È questo il significato della hybris: il desiderio
dell’uomo di essere più che uomo. L’orgoglio dell’uomo, secondo
[Malgrado l’ammonimento
dello stesso Eraclito (Fragm. 40) e della Bibbia: «Altiora te ne quaesieris»,
«Non indagare le cose per te troppo grandi» (Sir
3,22)].
Il sole però non oltrepassa i suoi metra, mantiene
la sua misura perché segue un’orbita circolare. La
civiltà moderna si è presa gioco del concetto ciclico del tempo delle altre
culture; ha preferito un progresso rettilineo e ora la sua sete di infinito diventa cancerogena. Dove
sta la medicina e dove la religione? Per dirla con Platone e con il Nuovo
Testamento, la nostra malattia è la pleonexia, l’appetito insaziabile, il desiderio del più
assoluto, letteralmente «il desiderio di avere
(sempre) più». Il cancro è la risposta del nostro organismo che riecheggia la
civiltà pleonastica che abbiamo creato. «La medicina è interamente governata da
questo Dio» dell’Amore, diceva già Platone.
Dall’eros, non dalla proliferazione quantitativa
che è Mammona, il Dio dell’avarizia o pleonexia.
In altre parole: il cancro è un
prodotto secondario di ciò che potremmo chiamare l’imperativo
tecnocratico.
La civiltà di oggi,
proprio a causa del complesso tecnocratico, è vittima di questo imperativo, che
non è né morale né umano e neanche culturale, ma solo tecnocratico. Lo si potrebbe esplicitare così: se qualcosa è possibile,
bisogna farlo. Se è possibile volare più velocemente
bisogna farlo, se è possibile trapiantare un organo, cambiare un gene, dividere
un atomo, calcolare più rapidamente, produrre di più... bisogna farlo.
La tecnicultura
non riconosce alcuna ontonomia,
autoregolazione o omeostasi. Solo una
imposizione dall’esterno, un fattore esogeno (potere dello Stato,
dittatura, paura, pressione esterna...) può costringere a non realizzare ciò
che è diventato possibile. La potenzialità, potremmo dire, non ha uno statuto ontologico, è solo un passo intermedio e
provvisorio per l’attualità. «Sarete come Dei!»; ma non un Dio che si limita,
si concretizza e si incarna, ma un Dio illimitato,
assoluto, supremo. La correlazione nel nostro organismo è il cancro.
La correlazione non esiste solo tra lo
sviluppo cancerogeno della società e il corpo umano. Essa si manifesta anche
nel primato della funzione calcolatrice della mente dell’uomo.
Pensare è diventato poco meno che sinonimo di calcolare, di misurare in uno dei
due significati citati. Non a caso anche le macchine calcolatrici e i computer
prolificano come cellule cancerogene. Quanto più si calcola e
con quanta più precisione, tanto meglio. L’«esattezza» del pensiero si
misura con la prova esterna, ovvero non con
l’intelligibilità interna, con la trasparenza raggiunta, ma con l’apparizione
«in re» di ciò che abbiamo «pensato» (calcolato) in precedenza.
Il criterio di verità è la ripetizione
e non l’unicità. Ciò che tanto sfacciatamente si chiama «verifica» non è la
scoperta o la manifestazione della verità di uno stato di cose, ma la mera
prova esterna di una ripetitività calcolata precedentemente.
Questa forma di pensiero manca di omeostasi.
Per assurdo, potremmo dire che il numero non ha
misura.
Anche se ben poco meditata e ancor meno
praticata, è la descrizione che il medico Erissimaco dà della medicina nel Simposio di Platone: «La medicina
dunque è, in breve, la scienza (delle fluttuazioni ritmiche dell’amore di cui
il corpo è la sede, sì che colui che sa diagnosticare
sia l’amore buono che il cattivo è il medico migliore».
Risulterà forse ora più
chiaro del perché ho parlato di eudokia e di dharma.
3.
La voce della tradizione
La relazione tra medicina e religione acquista nelle medicine tradizionali un carattere molto
diverso da quello moderno, non tanto perché altro è il concetto della
relazione, quanto perché altra è la nozione di ciò che sono medicina e
religione. Si commette molte volte l’errore di affermare che la relazione tra
medicina e religione, per esempio in India, è diversa
da quella che si ha in Occidente senza rendersi conto che la differenza sta
nelle nozioni stesse di medicina e religione. Non è di avere un altro concetto
filosofico, ma del fatto che la nozione stessa di filosofia non esiste o è
radicalmente diversa.
Ci soffermeremo qualche minuto a
parlare della medicina tradizionale in India, limitandoci a ciò che è più
elementare e più fondamentale.
Quando ci si addentra nella cultura
dell’India, ciò che per prima cosa salta agli occhi è
l’errore del cliché che la presenta come una pura
speculazione filosofico-mistica molto spiritualizzata,
quasi senza interesse per le questioni concrete ed empiriche della vita
dell’uomo sulla terra.
Il Caraka,
uno dei due trattati classici di medicina, scritti dall’autore che porta lo stesso nome, afferma che l’Ayurveda
è un Veda tra gli altri quattro e più di un upanga o
appendice dell’Atharva-veda, perché ci propone la
base della «buona vita» in questo mondo e nell’altro. Come abbiamo già detto,
lo stesso nome Ayurveda significa «scienza della
vita» e il suo fine specifico, esposto all’inizio del Suruta
Sambita (I 1,1), è proprio quello di «curare le
infermità, proteggere la salute e prolungare la vita». Ci sono quattro specie
di vita: quella felice (sukha),
quella infelice (dubka) , quella buona (hita) e quella
cattiva (ahita).
La medicina prende in considerazione le quattro moksa: salvezza, o liberazione
nel senso più ampio, è il fine tanto della medicina quanto della religione;
meglio ancora, è la finalità di ogni scienza e di ogni
attività umana.
Questa liberazione, però, non deve
essere negativa nei confronti della vita di questo mondo. Al contrario, invece,
l’Ayurveda vuole salvare l’uomo aiutandolo a
recuperare la salute.
Le descrizioni della vita felice (sukham ayus) sono di
grande bellezza e realismo. Felice è la vita senza
malattie, né fisiche né psichiche, ricca di energia,
intelligenza, bontà, successo, forza, piacere e gratitudine da parte degli
uomini. La buona vita è la pienezza umana che reca seco
amicizia con tutti gli esseri, correttezza di condotta, piacere nell’azione,
armonia con se stessi, vitalità in ogni campo, vita gradevole e felice. La
felicità, dice Caraka, non è la liberazione da questa
vita, ma la libertà di viverla in pienezza. Infermo, ripeto, non è l’in-firmus ma
colui che non è capace di godersi la vita. La definizione stessa della medicina
è così espressa: àyir veda yati
iti àyur-vedah (ayurveda è ciò che ci dà insegnamenti sulla vita; Caraka, 1,30,20). Il Sidruta
(1,1,14) la interpreta in due possibili modi: «Ciò mediante cui si conosce la
vita» o, meglio, ciò mediante cui «si ottiene la vita».
Salute significa l’equilibrio,
l’armonia fra i tre fattori (dhatu): vayu (aria), pitta (bile) e kapha (linfa, flemma) e i cinque elementi. Quando c’è una giusta (svamana) proporzione, c’è salute.
Finalità dell’ayurveda è quella di conseguire la dhatu-samya, l’armonia tra tutti i fattori che compongono
la vita umana. L’importante è l’equilibrio tra le varie componenti
e non che esse siano buone o cattive. Tutto ciò che esiste è buono
anche se il rapporto può risultare nocivo.
Vorrei insistere sull’importanza di
questa visione. Non esiste un male da eliminare distruggendo i fattori o gli
elementi nocivi, ma piuttosto un equilibrio da ristabilire, ritrovando la
giusta proporzione. Tutto nell’universo ha una funzione da svolgere.
La causa della malattia è duplice: la
cattiva dieta e i peccati. C’è per tutto un rimedio, ma esiste una relazione
tra questi due tipi di cause. Quando siano definite le
cause, tutto si riduce poi all’esame dei diversi ritmi.
Le tre cause principali sono dunque: i
sensi, il clima e la mente.
I sensi possono funzionare in modo
eccessivo (troppo rumore, luce, cibo), in modo non efficiente o in modo errato.
Il clima può essere caldo o freddo.
E, infine, può
esservi un uso eccessivo dell’intelligenza che porta all’abuso dei sensi e
anche all’adharma (peccato, trasgressione,
disordine).
La concezione ayurvedica
profonda è ben lungi dalla magia. Essa crede nella possibilità di ristabilire
l’armonia tra il materiale e lo spirituale, l’individuale e il collettivo,
questo mondo e l’altro.
Tre sono le cose che desideriamo: la
vita, una buona vita, l’altra vita.
L’ayurveda
vuole collaborare a questo equilibrio.
Epilogo
Ho parlato in diverse occasioni di
mutua fecondazione. Una mera restaurazione non sarebbe una soluzione
convincente. La fecondazione è duplice: in primis tra le culture del mondo. La
mentalità coloniale, che si distingue per la convinzione che una sola cultura
sia la depositaria di valori universali, è al giorno
d’oggi per lo meno un anacronismo indifendibile. Né la medicina né la religione
possono, al giorno d’oggi, avere lo stesso significato
che ebbero nell’Europa del secolo scorso. Continuare a
imporre il senso delle parole chiave della cultura attuale o a formulare
unilateralmente le categorie umane, è un’impresa inaccettabile. In secondo
luogo, come si è già detto, si deve anche mettere in atto una fecondazione tra
il tradizionale-antico e lo scientifico-moderno. Questo studio vorrebbe essere
un contributo in tale direzione.
(da R. Panikkar, La
Religione, il Mondo, il Corpo, pp. 69-107)
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