Le letture di
Mimma De Maio
Pietro Pelosi, Breviter,
sic et simpliciter regula ludi, prefazione di Gennaro Iannarone,
Ruggiero, Avellino, 2007, pp. 64.
.
In questa silloge Piero Pelosi non si allontana dai temi della sua precedente poesia che lo ha
portato ad indagare le radici dell’uomo, alla ricerca, dice l’ottimo prefatore, della “primordiale dignità dell’essere umano”,
spinto dall’anelito “ai cieli e alle galassie stellari, ma senza mai perdere
di vista il travaglio dell’uomo”. Con una tensione non comune il poeta guida
il lettore in un tragitto, attraverso la situazione umana nel mondo, verso un
possibile approdo umanamente degno. Breviter,
sic et simpliciter regula ludi, è infatti la
ricerca della regola del gioco, una regola semplice ed essenziale, che deve
governare la vita dell’uomo perché non si perda nella “vasta abbondanza” in
cui è immerso. Nell’accompagnare il lettore nel suo itinerario il poeta si pone
nella favorevole postura di chi guarda dall’alto e si curva sul mistero della
vita col necessario distacco favorito dalla lunga dimestichezza col problema.
Cerca nel disco a spirale della Galassia la nostra stella di media grandezza,
individua il suo terzo pianeta e lo caratterizza come il luogo “dove si vive
e si muore, / di continuo ignorando / da dove venga la vita”. È questa la
condizione umana di fondo da cui parte la
ricerca - il vivere e il morire, il
visibile che trasmigra nell’invisibile - , resa però meno greve dalla
coscienza, quasi consolatoria, che è unica la legge, che tutti governa e
unisce. Con una serie di belle immagini il poeta rappresenta il vivere
umano: quella della “gita”, di
un continuo andare e tornare, farcito delle negatività dell’uomo
(“incompetenze”, “vane credenze”, “tante saccenze”,
“troppe pendenze”) e quella della “botola”, un vuoto buio che risucchia e che
rende vana ogni ricerca, dell’uomo e dello stesso poeta, doppiamente
coinvolto in tale indagine come “attore-regista” (La vita e La vita infinita). Il grande arcano della vita si
concentra intorno ai due suoi momenti essenziali, la gioventù e la vecchiaia,
impregnati del mistero dell’origine e della fine, da dove si viene e dove si
va, che fa apparire il vivere una vasta burla, nascosta nel giro delle
galassie (“una presa in giro / solenne / quanto basta / per capire […] /
Così, qui resta / la parvenza, / che a poco a poco / si assottiglia, / con grande meraviglia / di chi credeva / e di chi rinnegava, /
facendo della vita, / cosa per sé impazzita, / un tetro gioco /. Il vivere),
oppure un “orpello” dietro cui si nasconde il male o
ne è distrutto, ma solo per poco, nel suo alternarsi con brevi spiragli di
bene (Resta l’orpello, Stelle vaganti, Milioni). In versi di lapidaria incisività il poeta indica il male del
mondo ma anche l’ultima e definitiva condizione di chi lo fa: “O tu /
che ridevi, / con le stragi / nel cuore […] anche qui sghignazzi ma di
dolore”; “Quando / col terrore / giocavo / (quello / degli altri, /
s’intende), / seguivo / l’idea / e non m’importava / di lacrime / o sangue. /
Ora, / contro voglia / incanutito, / non pentito / e curvo, / A metà della silloge la svolta con una penetrante immagine,
quella di un mare brillante di stelle su cui galleggia una bottiglia, “il
vuoto a perdere della vita”. Attraverso il “collo sottile” entra senza
ostacoli il buio dell’universo, l’enigma che lo avvolge e lo penetra. Ma quel buio ha una funzione, è un messaggio che la vita
invia a se stessa, poiché ogni tenebra può essere plasmata in luce: dal buio
del mistero la verità, dal male il bene, dal dolore la forza. Altissima meta possibile solo all’uomo: a chi è nel fondo di
quella bottiglia, a chi galleggia sul mare di stelle, a chi si abbandonerà al
fertile mistero dell’universo (“a chi / non / può / capire / quanto /
tremendamente / questo buio / lo / plasmi / interamente / in altra / luce.
Come), e non a chi si culla “in immagini / sonore, / flessuose / come
/ fianchi di nebbia / cinti di veli / dietro / i quali / comunque
/ è / nulla”. Non vince chi mistifica la verità, il superficiale, i tanti che
accettano i premi del mondo. L’uomo positivo non è colui che
s’affretta o si agita come in una gara, ma chi vive la propria condizione, di
piccola cosa sì, ma capace di fecondare, come il “lombrico”; o capace di
utilizzare, come il “millepiedi”, tutte le sue possibilità sulla zolla di
terra dove è messo. Non ha compreso la regola del gioco, chi accetta il
piatto e l’uniforme, chi subisce il banale, chi s’adegua al superficiale (Resto).
Bisogna invece “imparare / fino a scoppiare”, assorbire tutto ciò che il
mondo offre; “dimenticare, / imparando, ciò che serve / davvero”, perché lo si è tanto assorbito che è diventato parte di noi
stessi; “sperare”, aprirsi ed attendere accettando la propria condizione,
mentre si annaspa sul ciglio del burrone scavato nei millenni dagli uomini.
La ricerca fruttuosa è quella che si rivolge alle cose interne, che matura
lentamente come avviene per il lombrico intento alla sua opera e non
distratto dalle cose che fanno rumore (“l’astronave / in pieno giro
galattico” senza accorgersi che questa “è piena di rifiuti: / anche umani”. La
regola). Attraverso una delle più forti immagini di tutto il poema il poeta stigmatizza, con il distacco permesso dalla
sua postura e dalla sua condizione di poeta, la situazione dell’uomo nel
mondo: “Immersi / nel pantano / di questo / universo, / ci voltoliamo / col
fango / cosmico. […]. Caduti / nel fosso, / credendolo / un baratro”. (Immersi).
In questa situazione di immobilismo ed uniformità
l’uomo è alla mercé di un istruttore, una specie di
signore del fosso, anche se “provvisorio / e fasullo”, anche se non sa di
essere “vittima / eterna / della sua stupida / bestialità”, ma un demone che
tiene imprigionato l’uomo tutto intero
- corpo, anima e spirito - e
blocca le sue facoltà senza che possa rendersene conto (Quale). La condizione dell’uomo nel fosso, invischiato nella melma
uniforme e grigia, è quella dell’uomo fermato al suo non essere. Condizione
primordiale assunta dall’uomo edenico, che, rispondendo all’invito del
serpente, ha rinunziato al suo vero essere, divenendo schiavo di questo
domatore di serpenti, che ora lo guida tra le
“spire” dell’”universo-serpente”. Si chiarisce dunque la figura di quello che
il poeta chiama “istruttore” e che si qualifica con la sua principale
funzione di addestratore, che asserva,
vessa, opprime e che poi impronta, attraverso l’uomo, il mondo. Un’entità
malefica, che compie con precisione la sua opera, che esplica
con diligenza il suo mestiere, usando idonei strumenti sempre adattabili ai
nuovi soggetti e non sola, perché il pantano non resti vuoto (Ma forse,
I figli). Dalla sua posizione privilegiata di poeta che diventa profeta Pietro Pelosi ha la possibilità di capire e di
indicarlo al lettore che questo demone si è intrufolato nell’universo per
distogliere il suo più alto prodotto “dal bersaglio vero”, ha smembrato
l’unità-uomo disperdendo in mille frammenti le sue parti, lo ha riempito di
bisogni, pensando di poterlo governare, ha creato per lui un universo non
fatto a sua misura, in cui l’uomo soffre e lui ne gode, in cui nascono
continuamente liti, uccisioni, lotte, morbi, tutto il negativo che domina
l’umanità; che nell’aldilà la condizione del fosso, ogni sua voce e progetto,
non ha alcun senso. E lancia l’avvertimento a chi
può imparare quel poco che basta e che è ancora possibile (Domani). In
verità bastano solo poche regole di convivenza, serve la giusta misura, serve non aver paura nel fare le cose, serve non strafare.
Al di fuori di ciò c’è tutto il male del mondo, dominato dall’uomo che segue
il suo non essere, e non c’è altra strada per non essere ingoiati dal buio e
per trovare invece l’uscita da sempre cercata (Bastava, Su quel,
Avevo, Questa). L’ultimo tratto dell’opera è pregno di speranza
quando si considera che l’uscita da questa situazione non la si trova
fuori ma dentro l’uomo. Questo essere, reso grande dal pensiero, è infatti il solo in tutto l’universo in grado di guardare
dentro di sé, di prendere coscienza della vera realtà del suo demone e di
immaginare un mondo e un universo senza il male, dominato da qualcosa di più
grande. “Più grande dell’istruttore / è l’uomo capace di pensare / a un universo senza male,
/ senza istruttori / e colmo solo di se stesso / e della bellezza buona di
Dio” […]; “qui nel fosso a sacco, / sappi che c’è un’uscita. / Non sprecare
l’occasione: / disubbidisci all’istruttore” (L’istruttore).
“E quanto più grande / è Dio / del cosmico sacco e
dell’istruttore / e dell’umana creatura” (Tempo fa). Ecco l’ulteriore scoperta del poeta che gli permette di “rivedere
il Sole” - non “la stella / di media
grandezza / che intorno attorce / i pianeti / e il terzo fra essi / in
particolare” - , a cui è approdato attraverso l’esperienza della “fogna del
mondo”, mediante la conoscenza del suo “puzzo” e delle sue “deformazioni /
degli imbratti / e le bevute stomacanti / e inutili / dei liquidi cloacali”. Dalla presa di coscienza la certezza che c’è chi
è venuto a dare una mano a rappresentare un punto fermo in tutto il vasto
movimento che domina l’universo, ad indicare la quarta dimensione, cui deve
tendere l’uomo e che è impressa dentro di sé, quella dello spirito, anch’essa
avvolta dal mistero, perché la zavorra della carne non permette di
oltrepassare le “spesse mura di tenebra” (“Avvolto dalla notte è il Giardino:
/ l’interno e l’esterno, / il luogo vero e il dentro al nostro cuore”). Una certezza asseverante, che però non può far dimenticare
che “è / questa l’età oscura, / l’età perdente e
perduta: / è la più breve, ma da troppo dura”, perché ognuno possa sempre
tenere presente, “anche con dolore, / lo scempio innominabile compiuto”
dall’insania dell’uomo che ascolta il suo demone. (Forse
ho chiuso in modo usuale). |
P. S. Questo studio è pubblicato su “Riscontri”, 3, 2007
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