Lettura di opere letterarie

 

 

La Fiaccola che vive di Nicola Prebenna

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Questa opera di Nicola Prebenna è il racconto della ultima Olimpiade, un particolare racconto espresso in forma originale e ricca di suggestioni, ed essa stessa immagine di questa manifestazione moderna, che affonda le radici in un lontano passato, in cui il mito si fa linfa ed alimento. Assistere alla preparazione dei giochi olimpici nella terra che li vide nascere smuove l’animo di chi si è abbeverato a quella fonte e produce un’operazione straordinaria e riuscitissima che solo un poeta poteva immaginare e mettere in atto. Abbiamo così un’ode in cui si intreccia passato e presente, il mito subentra alle figure di oggi senza alcuna forzatura anzi, dimostrando la sua mai esausta fecondità. 

Se è vero che il poeta ha un particolare nervo scoperto che gli permette emozioni e sensibilità ai più precluse ed ha la capacità di trasmetterli agli altri, questa opera ne è la dimostrazione. Ben vengano allora i poeti e le situazioni che ne suscitano il canto. Qui dunque siamo dinanzi ad un evento sportivo particolare, che con il suo profondo portato tocca le corde più intime del sentire del poeta, che è sempre un sentire particolare e profondo; ed ecco che il vate prende la cetra e canta come facevano i poeti di Olimpia. Egli canta al sogno moderno, che è lo steso di quello antico, di essere il primo, di accedere con la vittoria alla dimora degli dei e degli eroi, di raggiungere, oggi, “nuove antiche costellazioni”.

Ne sono coinvolti anche coloro che partecipano alla preparazione della festa, all’allestimento dell’arena, all’addobbo del teatro dell’evento. Ed Atene, particolare città traboccante di storia, per l’occasione si rinnova, perché “bella sia la festa”, perché tra le sue mura il ritorno dell’antico evento possa rinnovare anche la “virtù greca”, con il suo grande potere fecondante. Il poeta si rende conto che la trasformazione di Atene, per accogliere il moderno rito di Olimpia, abbellisce la città senza soffocare l’antico, senza dissolvere lo storico, perché egli sa che quella virtù ha il potere di dare valore al “quadro rinnovato” della moderna Atene, in modo che si verifichi il miracolo di riuscire ad apprezzare la “lezione della storia”, di gioire del messaggio dell’Ellade, che ha forgiato il mondo, e di vedere rinnovata la “forza ateniese”, che è forza feconda di civiltà.

Diviene, il cantore, compagno di strada di tutti quelli che partecipano alla grandiosa trasformazione e nutre il segreto desiderio di vivere il grande giorno in cui, proprio lì, si sarebbe rinnovato il miracolo di Olimpia. Tuttavia o necessariamente, lì proprio lì, egli scopre che anche lui deve tagliare un traguardo, si scopre eroe tra gli eroi, si vede novello Odisseo. La sua gara, però, non avverrà tra le mura di Atene, il suo traguardo lo porta altrove, a realizzare una meta “attesa ed osteggiata”. Diventa l’omerico “ritorno a casa” finalmente attuato, per il quale non ci saranno medaglie, ma “impegni vecchi e nuovi”, e la tabella di marcia non dovrà subire ritardi.

Per lui incalza la “gara della vita”, che non è meno ardua di quella che gli atleti correranno per le strade di Olimpia. Ed ecco la metamorfosi, il poeta diviene Odisseo  - la trasformazione è generata dal luogo - , anche per lui il rientro “non è facile impresa”, anche lui ha qualche Poseidone che l’avversa e qualche conforto, anche lui non può lasciarsi sedurre da sirene o inganni, anche lui si legherà all’albero della nave. Ed eccolo fuggire, una fuga forsennata lungo le vie di Atene rinnovata, non senza aver prima dato un’ultima rapida occhiata allo stadio dove si sarebbe celebrato l’evento.

La fuga tuttavia è addolcita dal pensiero del ritorno, “a riannodare / i fili positivi di rapporti santi e antichi / come l’oracolo del dio”. Egli ritornerà in quel mondo dove tutto ha provato, e dove potrà attingere alle fonti nascoste che lo hanno riconciliato “con il mondo greco / di oggi, diverso dal passato / ma di esso estrema propaggine”. Una prova, la sua, che è acquisto di forze .“Non parto, come accade a tanti, / per non tornare; corro per allestire una nuova flotta e, a stagione rinnovata, / spiegare le vele e ripetere / l’onda, ionia e egea”.

Nel lasciare, come Icaro, il suolo greco, con le ali dei moderni congegni, gli corre incontro, prepotente, l’immagine dell’antica Olimpia, “meta agognata di potenti ed atleti / venuti da vicino ma anche d’oltremare / […] occasione d’incontro / dello spirito greco e del valore”, e si accorge che lo spirito delle grandi imprese non è mutato. La certezza acquisita lo consola nel lasciare il suolo greco, che “incolpevole” lo aveva trattenuto, e che può dissolversi tra “le perle dello Ionio”, mentre appaiono “le avvisaglie dell’Apulia”. Resta “nel recesso segreto / del cuore che non smemora” il grumo di una ferita che lo segna.

Anche lontano dal teatro della grande competizione l’eco di quell’evento straordinario ha il potere di suscitare le immagini delle gare olimpiche che la mitologia ha tramandato, racconti di eroi che accedono alla casa degli dei. Così in questo andare dal vicino al lontano, i versi tracciano le tappe di avvicinamento all’evento moderno, a cui l’antico fornisce immagini e significato.

Anche se “non era così ad Olimpia, ed Atene / non è Olimpia”,  la festa moderna “ne ha aspirato / l’anima, ne incarna il messaggio / e tutto per forza di cose è grande”. Tutto diventa “cicladica bellezza”, “equilibrio perfetto di movenze e sguardi, finchè forma, fatta / bellezza, perfezione diventa / e sapienza matematica e di pensiero / ”. In quell’atmosfera avviene il miracolo di una “fusione intonata di storia e presente, / di attimo ed eterno, di frammento / e composizione, si squarcia al mondo / la storia dell’uomo, la storia / dell’anima greca, l’embrione / del mondo moderno, ed ebbra / di tanta accoglienza l’immagine / di Olimpia, fattasi Atene, estasia / le menti ed il mondo abbacina /”.

La festa iniziale ha permeato tutti: gli atleti di oggi diventano gli eroi di Olimpia, la nuova Atene fiorisce all’ombra grande dell’“albero sacro alla dea”, come allora “la tregua / si fa sacra, e per poco nuova / visone s’afferma del mondo / e della terra”.

Più che in ogni altro luogo qui ad Atene il poeta avverte la commistione di passato e di nuovo, un passato che torna, “scuote le menti , corrobora il corpo”  e dà a tutti il premio di essersi abbeverati a quel rito di purificazione, di aver partecipato al generale rinnovamento.

Durante lo svolgimento dei giochi  - non conta quali e quanti siano –  la magia della gara prende e travolge tutti, gli atleti e gli astanti, tutti avvertono il peana della partecipazione.  “Ritorna il gioco al patrio sito / e come allora il sole, i colori, / l’ulivo di Olimpia congiunti / sprigionano l’urlo che festeggia / ed incita, ed eco si fa alla palma / agguantata.”  Così, in un alternarsi di gare avvincenti, si giunge alla regina delle gare, che fa rivivere la corsa di Fidippide, e che “si copre di itale / note” nell’entusiasmante vittoria “del pugnace Baldini”.

E siamo al commiato, quando nella festa d’addio l’“ellenica armonia” cede il passo alle “fantasmagorie d’oriente”. Pechino prende la palma che Atene gli consegna. Ma prima che la fiaccola sia “sospinta” “nel cuore della città proibita”, il poeta ricorda una novella Olimpia, quella che accoglierà gli eroi della neve a Torino.

L’ode lascia nel lettore quella stessa sensazione che l’ottimo prefatore scopre nel poeta che “si abbandona al gioco sottile del desiderio che muove l’animo e dà piacere proprio in quanto desiderio vivo”. Rinnovati dalla poesia e dal contatto col mito, si avverte che si può chiedere all’uomo antico un modello di valore e che lo sport è l’ambito in cui questo più facilmente si può realizzare. Si scopre allora che l’operazione del Prebenna non è solo il gioco di una mente impregnata di classici, alimentata da un cuore che ha vissuto nella patria del mito. Si scopre che il grande valore della Olimpiade ateniese  - questa più di ogni altra -  sta in quella miriade di giovani di tutte le nazioni che nella tensione della gara ricevono alimento alla fonte della classicità.

 

 

 

Da “Riscontri”, anno XXVIII, n. 1-2. gennaio-giugno 2006, pp. 144-146.

 

Nicola Prebenna, … e la fiaccola vive, ode, Delta, Grottaminarda, 2005.

 

 

 

 

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