Racconti
L’emigrante
Nei
momenti determinanti della vicenda umana l’uomo ha
bisogno di attingere alla sorgente che ha nutrito i suoi primi passi, una
specie di discesa agli inferi, perché se ne chiarisca il senso.
La necessità della discesa agli inferi.
. La campagna scorreva ai lati della strada
ferrata e i pensieri correvano nella sua mente. Volle fermare quel movimento e fissò con gli
occhi un punto, ma fu costretto a muovere rapidamente il capo. Andò allora più lontano, scelse un albero solitario.
Questa volta ci volle più tempo prima che l’albero
uscisse dal suo campo visivo. - Così i miei pensieri: alcuni scompaiono
velocemente, altri restano più tempo nella mente, altri, come questi monti in
lontananza, sembrano non volermi abbandonare - . Più che pensieri erano
immagini, figure, scorci.
Provò ad esaminarli. Tutto era fisso su di un unico sfondo. C’era il suo
paese, la casa, la chiesa dove per la messa si riunivano le ragazze, c’era il
bar con le sedie lungo il muro per parlare con gli amici. Ed
c’erano i campi messi di sbieco sulle colline ove era difficile portare il
trattore, e c’era lui che zappava sotto il sole. Sentì lo stridore della
zappa sulle pietre nascoste nel duro terreno come quello delle ruote sulle
rotaie. Si scosse, ma la mente ritornava ai momenti
della decisione e vide quel giorno in cui fu stabilito che doveva accettare
il posto alla fabbrica dove lavorava lo zio Vincenzo, a Milano. Ai campi ci
avrebbero pensato gli altri, e poi per quello che si guadagnava. Vide la
decisione su volto del padre e non osò opporre resistenza. - Accompagnerò io le donne ai mercati - aveva concluso il vecchio con tono secco come se quelle parole
fossero state la fine sonora di una lunga discussione silenziosa. - Tu qui sei sprecato. Hai la gioventù e tanta
voglia di fare. A noi servono i soldi, quelli che vengono tutti in una volta a fine mese - . La madre aveva cercato di riempire con
queste parole il silenzio del marito. Quell’uomo era di poche parole però queste quando
gli uscivano di bocca erano come le sentenze al
tribunale. Le decisioni di papà Pietro, precise, inevitabili, resistevano ad
ogni attacco. Somigliavano alle fascine della legnaia, formate da tanti pezzi
di sarmenti ben uniti insieme. Era passato un anno da quella decisione, ma quel giorno gli restava vivo come ieri. Uno di quei giorni in cui prende corpo qualcosa a lungo temuta e
che si sa ineluttabile come il destino. Antonio il destino lo aveva
sempre immaginato come una grande anima che
aleggiava su tutto il paese persino sui campi. E quando il suo si era portato
al di là delle colline all’orizzonte anche lì aveva
sentito quel respiro denso come venire dalla profondità del tempo,
protendersi nei giorni dinanzi a lui e dare alla sua gente una promessa di
cose che dovevano accadere, come le decisioni di suo padre. Quel destino lo aveva portato in una città
così grande da mozzargli il fiato, ed era sparito. Si, perché in quelle
strade tutte colorate, tutte movimentate, tutte
fredde, tutte sconosciute c’era qualcosa di diverso che provocava gli
avvenimenti. Era come se un invisibile burattinaio si divertisse a muovere
altrettanti invisibili fili e gli uomini entravano ed uscivano dai negozi,
dai bar, dalle fabbriche, andavano e venivano per le strade come avviene
sullo schermo quando si fa andare avanti velocemente
la pellicola. Aveva anche cercato di immaginare nella fumosa
pianura una qualche platea intenta ad osservare il grande affannoso
spettacolo degli abitanti della città. Ma ciò che maggiormente sentiva come
viva muoversi nelle strade era una grande sensazione
di solitudine. Nei campi che isolavano la sua casa Antonio aveva conosciuto la solitudine in cui gli
spazi chiusi dai monti mai troppo alti e dai dossi delle colline erano vuoti
di suoni e di parole. Quella però non sembrava solitudine. Nella grande città invece la solitudine era come un pesante
mantello portato nei giorni di afa, ed era dovunque, tra il frenetico via vai
della folla del marciapiedi, in mezzo agli operai che si recavano al lavoro,
persino nei grandi magazzini dove le ragazze ai banconi gli ponevano la roba
nelle buste e il resto come se al suo posto ci fosse stata un’ombra. - Manco ti vedono mentre
fanno tutto così in fretta - . Altre volte era ritornato in quel supermercato
con le ragazze tutte carine, ma loro sembravano solo preoccupate a mandare
via la gente, lontane. E gli era venuto di pensare
agli operai della sua fabbrica dinanzi alla catena di montaggio. - È diversa questa gente! - . Al suo paese invece... Lì ogni negozio è
amico, tutti si conoscono, si salutano. Il paese è un’unica grande casa. Erano ancora tanti i motivi per
cui non riusciva a sentirsi a suo agio in quella città. Faceva le cose
come oppresso per mancanza di aria. Forse per quel
cielo basso, sempre bianco... Il brusco arrestarsi del treno ad una stazione
fermò anche i suoi pensieri e l’immagine del cielo bianco e dell’aria pesante
contrastò col cielo azzurro e profondo e col verde dei campi che si
stendevano fino alla breve muraglia dei monti, netti nell’aria trasparente
del mattino, nonostante la lontananza. Anche se era passato del tempo da quando aveva lasciato sua madre alla stazione del
paese, in quel paesaggio al di là del finestrino Antonio riconosceva ancora
la sua terra. Gli era persino facile immaginare la gente che vi abitava. Le
donne dai bruni capelli e dal colorito sano, le ragazze dagli occhi sinceri e
schivi, e le risa i canti, e il forte passo
dell’uomo sul selciato. In quel cielo pieno di sole, nell’aria pulita
e silenziosa, in quella natura a volte restia e a volte docile, Antonio
riconosceva l’indole sua. Sentiva come se quella natura avesse impresso
un timbro nella sua pelle o come se egli fosse fatto di alberi,
di cielo, di sole, di monti, di campi e spazi aperti. Alla mente si affacciò l’immagine di un
affresco della chiesa del paese, dove in mezzo a tanta vegetazione, Dio
creava Adamo con la terra di quel giardino e si rese conto che tutti siamo tanti Adami fatti della
terra in cui siamo nati. - Ecco perché sto bene solo al mio
paese ! - . In quel momento sentì che il suo non poteva
essere un marchio di vergogna e non doveva nasconderlo. - È come se ognuno porta con sé una valigia
piena di cose proprie. La gente del nord ha altre cose nella propria valigia
- concluse convinto. Gli ritornò alla mente l’immagine di Adamo, e questa volta lo vide curvo sotto la sentenza
divina, sradicato pure lui. Quell’Adamo però aveva
sul viso una smorfia che sembrava uno strano sorriso mentre
si avviava a vivere nel mondo con la sua valigia. La certezza che avvertiva dentro di sé gli aveva tolto ogni amarezza e gli faceva vedere le
cose con un’altra faccia. Certamente era libero dal senso di
oppressione che aveva provocato tutti i precedenti pensieri. Non
c’erano più le paure, né la timidezza, come i legacci delle fascine. Gli
sembrava anzi di essere diventato un grande polmone
capace di sentire leggero anche lo smog. Come ad
Adamo gli venne nel cuore il misterioso sorriso. Ora lui, Antonio, l’anonimo operaio della grande fabbrica milanese, che per una anno intero era
vissuto come chiuso in un guscio, sentiva di poter aprire il suo cuore dove
ardeva un fuoco e intorno farvi sedere gli altri perché si riscaldassero e
gli facessero compagnia. Ricordò che don Carlo nella predica della
domenica alla messa del quartiere diceva che bisogna
imparare a vivere con gli altri. Quelle parole gli erano sembrate inutili. Cosa c’era da imparare? Ora solo capiva. Da un pezzo il treno aveva ripreso la corsa.
Ad Antonio sembrò che avesse accelerato l’andatura. Oppure
era quell’ansia che gli premeva nel petto? Pensò al suo solitario lavoro nelle notti
bianche di nebbia. Vide le strade piene di gente che non conosceva. Respirò
profondamente. Guardava dal finestrino, gli occhi fissi in un punto... Si
vedeva in quel supermercato... Sapeva le parole da dire a quella ragazza
bruna che gli piaceva Era bruna come le ragazze del suo paese. . |
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