Racconti
Capo San Nicola
Storia di una conquista moderna
. La prima volta che vidi capo San Nicola fu in un
giorno di primavera inoltrata, di quelli che si passano
in gita, col pensiero, libero dall’angustia dell’inverno, tutto proteso verso
un’estate senza confini. La passeggiata sul capo frustato dal vento che penetrava
in un mare increspato ancora tutto pieno del freddo dell’inverno
mi rinfrancava dell’alzataccia alle prime luci dell’alba. Soprattutto mi
ripagava quella cerulea estensione fusa con un cielo macchiettato, dove però il sole faceva già sentire la forza che avrebbe
avuto in quelle contrade. Lì gli elementi non avevano ostacolo a proclamare
la loro potenza. Con questi sentimenti potevo guardare compiaciuta
il suolo in leggera pendenza che precipitava a picco per oltre cento metri
dopo essere diventato impervio di rocce come per impedirci, affacciandoci, di
provare la vertigine sull’ampiezza sottostante. La strada costeggiava il
promontorio lungo la scogliera, dall’altra parte ancora una distesa, questa
volta di arbusti spinosi, erba non alta, ma impraticabile
per il terreno che s’intuiva sconnesso, e un mare argentato di ulivi, ma
anche ruvide querce rese possenti proprio dalla violenza che in quella
vastità i venti potevano assumere. Mentre la comitiva perlustrava
il luogo su cui sarebbe sorto il parco fino alla siepe, al fico e alla casa
colonica abbandonata, disegnando nell’aria la disposizione delle villette
tutte di fronte al mare, io cercavo il timido paese appollaiato là dove la
costa non aveva ancora deciso di diventare promontorio; sullo sfondo il dorso
bruno dei monti con rare chiazze di verde scuro. Seguivo il loro arco maestoso, che in onde
perpendicolari al mare lo abbracciava fermandosi però a rispettosa distanza
per lasciare il posto ad un lembo bianco di sabbia; poi tutto diventava una
striscia azzurra stretta tra il mare e il cielo. E l’anfiteatro mi narrava con le movenze dei
monti del loro lento inesorabile sorgere dal mare e m’indicava i mille rivoli
che avevano scolpito seni e valli, ed io gli svelavo
la lunga saggezza della natura nel fermare in una gravina l’insolenza di un
poggio verso il mare e come questo avesse infranto la resistenza della costa.
Un’isola stretta e lunga, rocciosa, a picco nel bel mezzo del golfo era la
prova di una strenua lotta col mare che non aveva voluto più oltre essere
penetrato fino a che entrambi avevano ceduto, ma lui
ora abbracciava l’isola e, nel separarla dalla costa, celebrava la sua
vittoria, e lei, sulle membra recava i segni indelebili di quella conquista. L’abitato difeso dall’altura invece rievocava i
remoti pericoli del mare, la torre sullo scoglio più in
basso altre tristi vicende, mentre i paesi distesi sul litorale
testimoniavano che quei tempi erano passati, e le nuove costruzioni che c’era
qualche vacanziere d’estate. E i monti, tagliati a mezza costa da una strada,
uniti da ponti i viadotti persino qua e là traforati, confermavano che l’uomo
vi era passato con i suoi macchinari e che pensava
di usare quei luoghi anche solo per godere di quel sole e di quel mare. Come avrei fatto io e tutti noi sul promontorio
selvaggio che fino ad allora aveva conosciuto solo
la grande voce della natura, gli straordinari racconti degli uccelli di mare,
i segreti di tutti gli animali della sterpaglia e dei boschi di querce e di
sugheri. Nell’allontanarmi quel giorno considerai come le
poche case nascoste là dove la vegetazione diventava più folta togliessero
all’ambiente quell’aria di abbandono
che i luoghi solitari hanno, epuravano, insomma, il selvaggio. Noi avremmo fatto altrettanto. In quegli anni andavo a villeggiare in una zona
vicina. Anche qui erano stati lasciati gli antichi
paesi appollaiati sulle colline, anche qui alcuni furtivamente erano giunti
da interne contrade. Qui i tentativi di insediamento
estivo, che col loro lindore sembravano voler prendere le distanze dagli
abitati locali, erano per me, abituata agli spazi brevi e alla falsa natura
della città, solo un incanto con le case tutte di fronte al mare. Ammiravo più di tutto la
splendida posizione di un costruendo ospedale, la cui sagoma si stagliava
sulla parte più alta di un promontorio tale da avere dinanzi da tre parti il
mare; immaginavo i malati guarire in quella quiete immensità d’azzurro. Un sogghigno di vittoriosa prepotenza sembrava
provenire dalle aperture sulla parete centrale della costruzione. Quei luoghi avevano il potere di suscitare in me
profonde sensazioni. Nelle gite di primavera, quando si era in cerca
dell’abitazione da occupare per l’estate, essi mi apparivano avvolti in un
placido torpore come quando si gode della siesta. Ed al ritorno portavo con me l’impressione di un mondo
dolcissimo in cui la vita scorre lenta e piana e dove anche i colori perdono
nell’immenso biancore i contorni tale che il mio ambiente diventava stridente
di forme e di tinte, ma soprattutto invaso da fretta e rumori. Come me però
c’era un’altra sensazione, e questa volta sgradevole, di una violenza che noi
preistorici vacanzieri del mare facevamo. Mi vedevo come profanatrice di un tempio che porta alla luce antichi tesori. Ero approdata su una costa deserta e selvaggia
lambita da un mare limpido e azzurrissimo e contribuivo a svegliarla al
turismo estivo. Presto infatti entrai in quella
terra a pieno titolo e credetti di esserne
diventata parte integrante. Ebbi invece la sensazione, che tante volte in
seguito ritornò, d’essere un’estranea che s’arroga
diritti. Tanti negli anni passati erano approdati su quei
lidi avocando a sé indebite prerogative. Non mi sentivo diversa. Avvertivo quella gente, adusata alla
profanazione, chiudersi in sé, paziente subire la nostra violenza, a volte
assente, ma sempre in attesa che la vita abituale si
ricomponesse, come la superficie di uno specchio dopo essere stata trafitta
da un sasso. Ricordo una vecchietta, di quelle sul cui viso il
tempo cesella il suo passaggio, che trascorreva i lunghi
pomeriggi seduta dinanzi la sua casa, una sedia di paglia posta di
traverso, le mani nel grembiule a sgranocchiare qualcosa, gli occhi
socchiusi, composta nel chiassoso via vai della strada. Quel contrasto mi
aveva attratto e più volte, passando, le avevo sorriso
fino a che i nostri sguardi si erano incrociati. Nei suoi occhi gravi e
severi c’era la solennità di una divinità mitologica, custode e ministra di
un tempio. E ancora una volta mi sentii profanatrice. Intanto calavano altri gruppi di vacanzieri.
Chiedevano spazio, sole e mare, e divertimento per
le vacanze. Il paese allora produsse case e case
sulla piana che i fiumi avevano reso fertile e che il mare facendosi dietro
aveva ampliato. L’antico borgo invece restava fermo, chiuso nel breve ed irto
spazio della collina con le stradine che conoscevano il sole solo d’estate e
che non sarebbero mai state profanate. Capo San Nicola restava solitario e selvaggio,
disposto ad accogliere i miei colloqui col suo mare. Lì non si era riuscito a
costruire. Poi qualcosa avvenne sull’altro promontorio, quello dominato dal
solo ospedale. Come per magia quel selvaggio dominio di rovi, serpi e vipere,
fu invaso da civettuole villette, subito ornate da un pregiato verde adulto,
e scomparve. Restò solo lo scheletro dell’ospedale, squallido, non più ultimato; triste per la sfida perduta.
Se ne era abbandonato il progetto pensando più
saggio prevenire i mali col sole e col mare? Così seguendo l’esempio del vicino fratello anche
il mio promontorio assistette alla inesorabile
avanzata delle case per il riposo estivo. Scomparvero anche qui rovi e serpi,
ne presero posto eleganti magnolie, colorati
oleandri e mimose, ombrosi salici e tutta la gamma delle conifere. Regalammo un manto di verde all’incolto poggio
come mai natura pensò, e profumi; gli demmo le nostre cure
quando le sue estati lo rendevano arso. Lasciavamo gli affanni, il
tedio agli altri mesi affidato, per godere delle sue
estati. E lui, come la sua gente, ci accolse paziente. Non
fu avaro del suo panorama. Né del suo mare. Lui che
conosceva la sferza del vento, lo sdegno del tuono, l’ira del mare, ci
comprese. Capì noi che sopportavamo l’urto del fare, il giro del traffico, la
città che frastuona, l’ansia che tende, comprese
che eravamo sbattuti e affannati perciò ci donò le sue ore pacate,
la quiete, e lo spazio che distende i malanni. Ci dette i suoi doni e si fece
in disparte. E ancora ci comprese quando
attutimmo il suo silenzio che addolorava l’orecchio con i nostri rumori. Quando ritoccammo con la nostra premura il suo pigro andare;
oppure se vegliavamo chiassosi le sue sere e le sue notti; persino capì se al
lento mutare del suo mare non prestavamo attenzione, se non ascoltavamo il
parlare del cielo di giorno, e di notte la sinfonia delle stelle. Comprese ch’era la
nostra città a dissipare i suoi doni. Questa sera ho mirato il suo arco di monti che
una volta solo qualche lume specchiava nel mare e l’ho visto brillare di luci
come di lacrime lungo una gota. Allora ho cercato il mio poggio, e non c’era. Ho sentito intorno frastuoni
come di gente che s’esalta per una conquista. Ahimè, siamo ancora invasori, più ancora, invasori
dagli occhi bendati, invasori seguendo una moda, e diveniamo
predatori, tra una gente che attende paziente chiedendo alla sua annosa
saggezza pareri su chi viene e va via; quella gente che ci ha fatto sedere
alla sua mensa. Questa sera ho visto una grata là nel buio, una grata grossa di ferro tra il cielo ed il mare. . |
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