Marta
La baita nell’Abetaia
(Le costruzioni della
maturità)
.
. Chiuse la porta con la
sensazione di portarsi via la morbida dolcezza in cui si era rasserenato il
suo animo, come ogni volta. Mettendo la chiave in tasca guardò
col solito trasporto quella sua particolare abitazione. La sentiva
emergere come da un denso magma dentro di sé e nello stesso tempo irradiare
su questo il pacato riverbero della sua accoglienza. "Sono tanti anni!". Non aveva voglia di riprendere le attività
normali. Il fresco dell’abetaia l’invitava ad un salutare abbandono ai suoi
pensieri e lì, nella breve radura orlata da un cordone di ruvidi tronchi
resinosi, c’era il ceppo su cui soleva sedersi. Il tetto di tegole verdastre, i muri neri con le
finestre chiuse si velarono di dolce tristezza mentre
nella mente affiorava il contorno di un porto al di qua del turbinio delle
onde. Andò col pensiero - quante volte l’aveva fatto! - al travaglio di
quegli anni. Le amarezze degli ultimi tempi le parvero inarcarsi acute in una
consonanza di mille piccoli tocchi di tutte le intonazioni ed intensità. "Quanto diversi questi tuoi suoni dagli
stridori della città che avvolgono, trascinano e stordiscono!". I suoi suoni erano dentro di lei tutti involti in
un moto circolare... "...che ha
accompagnato con altalenante tonalità le tue vicende..." ... come la colonna sonora di
un film. Ed ora allargava le sue braccia concentriche sicché tutto di lei ne era coinvolto. Nei momenti più duri quando
l’onda emergendo come da profondità abissali calava con subitanea potenza e
lei giaceva prostrata allora... "...allora correvi, correvi col fiato in
gola in questa abetaia. E
imparasti nella baita a trovare conforto". Marta seguiva assorta la voce senza suono che era
come un’altra se stessa. Ora le descriveva il vortice e il suo roteare. "Un denso fermento che mai esauriva la
lena". ... come di forza contro pareti
troppo strette. Ferita d’iniquità o inesauribile premura che non s’appaga. Tante volte aveva cercato di precisarne i
contorni o di trovare un riscontro in qualche recondita affezione umana, ma
tutto sembrava inadeguato per cui era cresciuta in
lei la sensazione di prendere parte, come in una proiezione, ad una vicenda
che avveniva chissà dove ma certamente lontano da lei della quale di lì non
riusciva a vedere i confini. "I tuoi giorni..." ... come di fuoco che avviluppa
e consuma ... e affina ... "Accolsi con gioia il frastuono del mondo ma quel moto era dappertutto, fuggii, quel moto
divenne la mia ombra, imprigionai i pensieri ma ugualmente riuscivano questi
a martellare la mente". "Quanto più da lontano vengono le voci
nell’uomo tanto più coinvolgono". "E il mondo mi fu d’aiuto, mi prestò i suoi
eventi e tanti ne ebbi, ma l’idra altre teste
metteva". "Poi il tempo ti rese tutto più
familiare". "Rimase però un velo di mistero a rendere
più denso il mio vivere". "Avevi una cetra. Sulle sue corde provasti
degli accordi". "Allora la baita diventava tutta uno
sfolgorio di parole e di note intorno al mio ciglio bagnato". "Con esse
costruisti la tua isola...". Questi colloqui con la sua voce profonda facevano
bene a Marta. Lo scavare, il raggiungere tanti profili. La voce ora le parlava della mamma. Era un giorno
d’estate e lei bianca sull’assito nella penombra della camera mortuaria.
L’ultimo bacio, un brivido nella carne che da lei aveva preso la vita e il
cuore traboccò più d’ogni altra volta. "Le mamme sono creature straordinarie anche
quando muoiono danno la vita". Marta si rese conto che la sua mamma non l’aveva
lasciata. "Questa nostra corteccia che si chiude
intorno a noi ! La tua mamma ne era libera, a
te s’era assottigliata". Madre e figlia mai così vicine. E Marta andò alla ricerca d’un legame pel filo che s’era appena spezzato, andò attraverso tanti
anni, troppi, senza toccarli. Lasciando l’obitorio la forma mortale immobile
sembrò a Marta solo una cara immagine mentre
gelosamente chiudeva in sé un riverbero che le toglieva dentro qualcosa. In seguito per tanto tempo ebbe la sensazione di
avere dinanzi un ponte. Sotto le arcate correvano i suoi anni, tanti suoi anni. Una mano la guidava, la medesima che stringeva
la sua mano di bimba. Seguiva di nuovo il filo fino ad un chiarore lontano. Le si apriva dinanzi una via. "E s’aprì il dono
di mamma" riprese la voce profonda "s’aprì nello strato sottile...
e lontano c’erano i tuoi viali infiniti tra zolle umide e nere... fino al
chiarore". Nella baita silenziosa e sola
Marta nel pianto chiese tante volte perché... perché i suoi campi...
perché quel dono. "Vedesti nella luce lontana il giardino
fiorito, lo vedesti col tuo canto triste rinnovarsi di fiori". "Era l’isola d’oro". "I regni di sole sono stupende ninfee
sull’immobile stagno, sono il supremo portato dell’uomo, qual picco ardito
d’imponente massiccio alle porte del cielo". Il giardino e l’isola e tra
loro una parte della sua vita trascorsa come la bella dormiente. Era bastato un evento. "Avrebbe dovuto costituire, invece, la
rottura definitiva con una parte della mia vita". Ad alta voce Marta
aveva continuato il dialogo interiore rompendo il silenzio del bosco. La donna si scosse, cercò
di liberarsi dal sopore. Le sembrò d’aver visto uno scorcio della sua vita
come una vicenda a lei estranea. Ora le erano chiari i suoi sogni di fanciulla, la luce che avanzava nel buio, i viali che
s’aprivano ogni volta che cominciava a inseguire i suoi pensieri. Ricordò che
quelle immagini s’erano fatte pesanti ed erano calate a picco in un opaco brunore, bruchi senz’ali. Non riusciva a trovare qualcosa nella sua
esperienza a cui paragonare quel giardino. "Ci sono luoghi che devono
stare fuori del mondo e di là fecondare i nostri aridi giorni" avrebbe
assicurato la sua voce. A quella voce Marta doveva la riscoperta del regno
creato con gli occhi di fanciulla, dimenticato per
tanto e che, ora s’accorgeva, non era rimasto inattivo. Pensò alla costruzione della sua maturità,
l’isola, stupenda come Venere sull’acqua, edificata nella baita silenziosa, grano a grano ad ogni sistole del suo cuore che diventava
sempre più grande. Una conquista della vita. Pensò a quelli nella città
affannata. Essi non avrebbero capito la sua isola. Eppure tutti hanno una casa nel bosco, basta cercarla. "Tutti abbiamo bisogno di una baita"
continuavano a dire i pensieri di Marta. È lì che il dolore, prendendo la
consistenza delle cose che si toccano, ingrandisce il cuore e nascono
giardini e isole, le costruzioni dell’anima. Realtà che non
si vedono con gli occhi della terra. Il sopore era completamente
scomparso. Ora la donna sentiva nettamente le voci del bosco, vide ai suoi
piedi le lunghe ombre degli abeti. L’aria s’era
fatta pungente. S’avviò verso le occupazioni della città dove la vita
imponeva il suo tumulto e mostrava i suoi vortici. La casa restò lì ad aspettarla nella frescura
dell’abetaia. . |
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