Marta

 

 

IL NONNO

 

 

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Accanto al nonno sul sedile posteriore della carrozza Marta attraversava il paese.

Quel giorno aveva avuto il permesso di recarsi a casa dei nonni materni, dall’altra parte del paese, un privilegio accordato solo a lei, la più grande.

Il cavallo trottava senza fretta seguendo docile la guida del cocchiere, un vecchietto dal viso rosso e grosso, il capo coperto da un berretto con una breve visiera. La bimba ascoltava lo stridio sottile delle ruote sul selciato, più piccole quelle davanti, più grandi quelle di dietro proprio dove erano lei e il nonno e si lasciava cullare dal dondolio soffice sui cuscini del lungo seggiolino. Gustava quel lento passare per le vie del paese.

C’era chi salutava, qualcuno fermava la carrozza.

Il nonno le indicava tante cose: la fontana al centro della piazza, la torre con l’orologio che suonava le ore, il municipio con quelli che guidavano il paese come il cocchiere la vettura, la chiesa, la scuola ove i bimbi più grandi di lei imparavano a scrivere e a leggere, il convento con le suore. E lei era presa dalla voce flessuosa capace di destare una curiosità che non si chetava.

Guardò bene il suo nonno. Il viso rugoso ma disteso, la fronte larga alla base orlata da spesse sopracciglia, e i baffi, folti baffi grigi che facevano quel viso importante; e poi le mani, bianche e affusolate, le vedeva mentre carezzavano un bimbo malato o gli somministravano i medicinali, esse però tagliavano anche col bisturi e cucivano le ferite.

Sul ponte alla fine della discesa il nonno fece fermare il calesse perché la nipotina potesse osservare il fiume spumoso tra la folta vegetazione. Nel silenzio del mezzogiorno, chiaro le giungeva il fresco scrosciare, mentre una ferma presa la reggeva sul grosso parapetto di pietra. Lì c’era un mulino diroccato che l’acqua del fiume muoveva una volta. La bimba continuò a vedere ciò che il nonno le raccontava mentre, la piccola mano in quella più sicura, s’avvicinava al calesse che intanto s’era fermato all’ombra di un grosso tiglio dinanzi alla spianata di una chiesa.

Marta si rallegrava del cancello sempre chiuso per via di due brutti animali scolpiti ai lati della porta. In quella chiesa c’erano senza dubbio altri animali e demoni come il drago dalla lingua di fuoco che San Michele teneva legato ai suoi piedi oppure come quello di una Madonna che in un’altra chiesa del paese impauriva una bimba come lei.

Restava ancora un breve tragitto, una strada costeggiata da un alto muro verde di muschio dal quale si affacciavano sorridenti ragazze e poi lo stradone protetto da grossi blocchi di pietra.

Marta e il nonno salivano lentamente.

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La grande casa dei nonno era per Marta piena di attrattive. L’androne ampio e buio dal pavimento di lastroni diseguali, le rampe con i gradini di pietra che lei saliva correndo e poi la grande sala d’attesa su cui si aprivano porte e balconi. Questi davano sullo stradone, di fronte un monte roccioso che si stagliava obliquo nel cielo, quelle introducevano negli altri ambienti: la sala da pranzo con l’orologio a cuculo, le camere sempre in penombra, lo studio impregnato di odori e poi un lungo corridoio fino alla luminosa cucina da cui Marta scendeva nel cortile.

Quella casa era lì ad attenderla.

Avrebbe salutato la nonna, a quell’ora in cucina per gli ultimi tocchi al pranzo, con lei la vecchia domestica vestita fino ai piedi d’inverno e d’estate. E la nonna le avrebbe detto di andare nel pollaio.

- Le galline hanno cantato tutta la mattinata ma noi ti abbiamo aspettato - . E Marta felice sarebbe scesa in cortile con la domestica.

Il pollaio era un grosso locale chiuso a metà da una porta sconnessa. V’erano qua e là ammucchiati legna, carbone, fascine, e c’erano sacchi, ceste, tinozze, spaselle, un lavatoio e una cucina in muratura, un lungo sedile di pietra.

Proprio nel lavatoio pieno di carbonella spesso Marta trovava le uova oppure nel vano della cucina dove s’accede il carbone. Scovare tra quel nero la bianca sagoma ovale le provocava un grande piacere per cui entrando nella legnaia aveva sempre il cuore in tumulto.

Pareva che le galline della nonna volessero giocare a nascondino con lei perché deponevano le uova nei luoghi più strani, e poi fuggivano dinanzi alla sua ricerca: dietro le fascine, in un angolo lontano, sulla segatura che fuoriusciva da un sacco.

- Guarda in quel bacile - consigliava Angelica che conosceva i posti preferiti dalle sue galline.

E Marta si curvava, tirava da uno spazio vuoto sotto la cucina un bacile consunto di ferro ... tra la paglia c’era qualcosa ... e la bimba si scostava per far passare la luce.

La ricerca delle uova quel giorno fu molto fruttuosa Marta ne trovò nel lavatoio, in un cesto, persino accanto alla porta dietro una spasella appoggiata al muro.

 

- È stata proprio brava Marta - disse la domestica mentre versava la minestra fumante nei piatti.

La bimba era seduta alla sinistra del nonno, di fronte la nonna, poi la zia, mancava lo zio che studiava a Napoli, e a lei non dispiaceva. Due cuscini sulla sedia le permettevano di osservare bene le cose che erano sulla mensa: i sottobicchieri di acciaio, i grossi anelli di legno intorno ai tovaglioli, ognuno di un diverso colore. Marta ne aveva uno rosa tutto per lei. C’era un vasettino col sale, uno col pepe, quello degli stuzzicadenti, le bottiglie gemelle per l’olio e per l’aceto, quelle per l’acqua e pel vino, i bicchieri tutti con la base e l’orlo rigati di rosso. Anche i piatti e le zuppiere recavano il medesimo disegno.

Quell’ordine le piaceva e il silenzio mentre si mangiava interrotto da qualche pacata osservazione del nonno cui altrettanto pacatamente rispondeva la nonna.

Diversa era invece l’ora del pranzo a casa sua dove era difficile che tutti si riunissero intorno alla tavola perché il babbo saliva presto dalla conceria e subito doveva ridiscendere, lo zio tornava tardi dall’ufficio, e poi c’erano i fratellini che mantenevano tutto in subbuglio. Forse erano proprio loro ad impedire che la tavola a casa sua fosse imbandita con quell’ordine e con tutti gli oggetti cui la nonna tanto teneva. La mamma le aveva infatti spiegato che dai nonni non c’erano bambini e poi a casa del babbo dove lei era andata sposa c’erano altre abitudini.

- Anche quella di aspettare il pranzo per discutere - pensava Marta. E il babbo lo faceva animatamente e gridava con la mamma come con i suoi operai, giù in conceria.

Spesso all’ora di pranzo a casa sua si recava il nonno uscendo dal vicino ospedale. Si sedeva accanto alla finestra nella sala da pranzo mentre si era ancora a tavola, parlava con la mamma, si interessava a qualche nipotino, poi salutava. Tante volte quelle visite avevano interrotto discussioni troppo animate.

Nella pace del pranzo a casa del nonno Marta pensava a tutto questo.

- Voglio farti vedere qualcosa che ho preparato per te, vieni - .

Il nonno l’aiutò a scendere dalla sedia e aprì per lei la porta dello studio, mentre le donne riponevano nella cristalliera tutti gli oggetti che avevano accompagnato il pranzo. Marta volle deporre nel cassetto il suo anello e nel farlo si alzò sulla punta dei piedi per dare uno sguardo agli altri anelli accanto ai quali depose il suo, poi di corsa raggiunse lo studio del nonno.

Quell’ampio locale pieno di libri, quadri, armadi chiusi ermeticamente, poltrone di varia foggia e strani attrezzi, era come il giardino di Alice di cui il nonno conosceva i segreti.

Vi era entrata una volta approfittando della siesta pomeridiana, la domestica a rigovernare la cucina. La porta aveva cigolato lentamente, ma il silenzio che era seguito l’aveva rassicurata. La stanza era in penombra accentuata dal colore rosso scuro delle pareti. Marta pensò di aprire qualche imposta ma poi si accorse che ci vedeva.

Si diresse verso l’oggetto di quella visita, un grosso apparecchio accanto ad un lettino. Somigliava ad un lume: l’asse verticale terminava con quattro piedi che ne assicuravano la stabilità al pavimento, dall’altra parte invece c’era una grossa cupola di metallo bianco e, nell’interno, una lampada. Questa parte di certo nascondeva qualcosa, lo diceva la proibizione di guardarvi quando la lampada era accesa.

- Fa male agli occhi - aveva detto la mamma mentre la sua luce riversava un bianco di morte sul corpo nudo della sorellina distesa sul lettino. La mamma e la sorellina avevano spessi occhiali neri e Marta era stata costretta ad uscire dalla stanza.

Ora si avvicinava a quel magico oggetto come magnetizzata. All’interno del cupolone un foro oscuro s’apriva in un piatto di metallo. In quel foro la lampada magica ... come quella di Aladino ...

La mamma sapeva raccontare così bene le avventure del ragazzo arabo. Ora era lì quella lampada, aveva curato la sorellina. Magica veramente da eliminare una malattia che non si vedeva. La sorellina camminava, rideva, giocava e non aveva la febbre, eppure era malata, e la lampada l’aveva guarita.

Si accostò. La mano non raggiunse il lucido cupolone. Se riuscissi ad accenderla, forse potrei chiedere ... chiederei...

La bimba ricordò che quel cupolone era sempre coperto da un panno chiuso con un elastico. Forse il nonno l’ha usata da poco oppure è pronta per qualche malato del pomeriggio ... forse potrei...

Un filo elettrico si dirigeva verso il muro. Cercò il grosso bottone su uno dei piedi dell’apparecchio e lo pigiò come aveva visto fare quando la lampada si accendeva per la sorellina.

Un lampo ... poi niente ...

- Devo ritentare? - .

Guardò di nuovo nel foro ... un filo di luce ... come venire da lontano ... ecco si faceva più vicino ... e più forte ... un filo rosso tremolante ... diventava violetto...

Sempre più presa Marta guardava quel prodigio. Aladino ... ecco viene di là il brutto ceffo e le dirà: - Comanda padroncina, io sono il servo tuo e di tutti quelli che hanno la lampada in mano - .

Improvvisamente una luce intensa invase la cupola e gli occhi di Marta ... come Aladino... La bimba si sentì presa dalla luce ... non vide più nulla. Aspettò Aladino e il brutto ceffo...

Sentì solo una mano dolcemente tirarla. La luce forte era scomparsa, intorno a lei un buio denso in cui danzava un punto rosso.

- Non aver paura - diceva il nonno - passerà presto - .

- C’è la luce che s’allontana! Perché s’allontana? - gridava Marta mentre il nonno la faceva sedere sulle ginocchia.

Questo episodio aveva permesso a Marta di capire che i raggi ultravioletti, se guardati, provocano un momentaneo accecamento, ma anche di provare una cocente delusione avendo per un attimo sperato di essere come Aladino.

Lo studio del nonno d’allora sempre chiuso aumentò la sua attrattiva.

Ora il nonno l’attendeva proprio lì e Marta era ancora Aladino che seguiva lo zio mago nel bosco.

Lo trovò seduto dietro la scrivania. Sul piano una scatola lunga e stretta. Gli si avvicinò ansiosa.

- Guarda - .

La scatola si aprì. Dentro due palline grosse quanto un pisello. Un movimento leggero. Le palline cominciarono a correre velocemente di qua e di là scintillando. Si toccarono, divennero un’unica più grande pallina. Ora questa si divideva, erano due, tre, quattro, tante palline più piccole, secondo il movimento più brusco o più leggero. Si riunirono di nuovo, ma in qualcosa che si appiattiva, per ridiventare pallina.

La luce della finestra accanto alla scrivania faceva brillare l’argento del mercurio e il nonno spiegava a Marta a cosa serviva quel metallo nel termometro quando lei e i fratellini avevano la febbre.

Quel giorno Marta portò a casa il tesoro e rispettò le avvertenze del nonno fiera di aver partecipato ad uno dei prodigi di quello studio.

 

Attraversò l’ultima volta lo studio insieme ai fratellini, dietro la mamma.

La porta della camera era spalancata, anche la finestra aveva i vetri aperti. Il sole entrava a fiotti. Il nonno era disteso, il viso bianco, negli occhi la stanchezza della vita. La mano tremante accarezzò i fratellini sul capo, sulla spalla, poi fu la volta di Marta. La bimba sentì una forte presa sul braccio, il nonno la guardava intensamente. In quello sguardo c’era una richiesta. Si inginocchiò per essere col viso all’altezza di quello del morente e comprendere meglio ciò che quegli occhi volevano dirle: era qualcosa che le raccomandavano.

La mano tremante riuscì a raggiungere il suo capo: - Questa testa piena di cervello - sentì in un soffio, ma gli occhi le dicevano quello che la voce non poteva e Marta capì e aprì il suo cuore per farvi entrare tutto quello che il nonno le consegnava.

Fu la sua ultima lezione.

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