Marta
La conceria
.
. Tutte le volte che l’opificio sulla collina
l’aveva accolta, Marta era stata presa, pur nella
sicura mano del babbo, da un indicibile timore soprattutto per la grandezza e
per il rumore che incontrastati dominavano. Ma da quando la conceria aveva
occupato una parte della sua casa la fanciulla era
diventata attenta ad ogni segnale proveniente da quei luoghi della sua casa,
che erano stati suoi e ora che la escludevano. Aveva così scoperto l’assonnato andare degli
operai al mattino, il brusio diseguale della
colazione sotto il susino o nell’androne del cortile sulla panca di pietra e
lunghi e cupi rimbombi, inseguiti con inquietudine, che tacevano solo dopo la
chiassosa uscita della sera. Nel giardino le donne giravano al sole i
"telai" e sulla terrazza la lana veniva
stesa ad asciugare. E c’era il lento salire degli operai alla
"torre", in spalla le pelli pesanti di acqua,
e il loro discendere rumoroso con altre, più leggere. Un giorno dal balcone Marta assistette all’arrivo
di grossi involti, le "balle", su un carretto spinto a mano lungo
la salita. Due operai curvi e lenti le trasportavano nel deposito. Immagini di peso e di grande a lungo portate negli
occhi. Quello che il babbo chiamava deposito era il garage.
Dove continuava ad entrare l’automobile di famiglia
e dove una volta entrò anche lei, che non era potuta scendere dalla macchina
insieme ai fratellini dinanzi al portone di casa perché impegnata a
raccogliere dei coralli caduti non involontariamente dalla tasca. L’autista l’aiutò a scendere e s’immerse nel
lavoro di riordino dell’automezzo. Non si accorse perciò della ragazza
scivolata nella parte posteriore del locale. Gli occhioni sgranati
non riuscivano a contenere per intero quegli involti di una spanna più alti
di lei, capaci di raggiungere, gli uni sugli altri, il profondissimo
soffitto. Piatte corde di iuta o di ferro tenevano unito qualcosa di duro
come cartocci stecchiti coperti di lana o di pelo nei quali ella stentava a ravvisare le pelli che aveva cominciato a
conoscere. Quei peli nascondevano un terribile insetto che
provocava una pustoletta sanguinante, la "tracena" - così la chiamava il babbo parlando di una
grossa cicatrice sul braccio di un operaio - che guariva col ferro rovente come era avvenuto per quell’uomo.
E lei conosceva la storia di S. Rocco morso da quell’animale e nutrito da un cane. La statua del santo,
in paese venerato come un secondo patrono, ogni volta gliela ricordava. Nell’aria ferma proprio degli ambienti troppo
pieni, la colpì un odore forte, ma non sgradevole, che cancellava quello, per
lei più disgustoso, della benzina. Anche la storia non bella dell’insetto scemò
nella visione del terribile animale che affogava nelle vasche - così diceva la
mamma - dove le pelli venivano
immerse. Quelle vasche le erano proibite. Forse la mamma... Fece per uscire. "Chissà dove ha i paraocchi Lunella"
pensò Marta, giustificando così la dimenticanza dell’autista. Si configurava
sul viso sempre sorridente di quell’uomo i due
grossi schermi dei cavalli, come già aveva cercato di fare
quando in famiglia qualcuno si era espresso in quel modo riferendosi a
qualche balordaggine dell’uomo. Non doveva perdere tempo ora che poteva
approfittare dell’altra porta in fondo al garage che conduceva in conceria.
Avrebbe potuto vedere le vasche. Chissà. Una debole spinta e Marta
si trovò in un locale semibuio. Sulla sinistra un leggero sciacquio al di là dell’alto orlo di una vasca. Nella mente della fanciulla apparvero gli animaletti annaspanti nell’acqua. Girò il muro. Un uomo in piena luce
su un alto sgabello toglieva le pelli dall’acqua. Erano grosse e
gonfie, finalmente riconoscibili. E lei avrebbe visto
gli animaletti. Ma si trovò dinanzi l’uomo con i paraocchi, che
questa volta la vide e la portò a casa. Passò del tempo prima che
Marta entrasse di nuovo in conceria. Fu seguendo un
fastidioso odore proveniente dalla porta socchiusa, che, a metà della
scalinata di casa, introduceva in quei locali. Si trovò dinanzi ad una
pila di pelli poste a rovescio sulle quali veniva
spalmata una pasta verde. Doveva essere pericolosa oltre che puzzolente a
giudicare dalla lunga pertica con all’estremità una
specie di pennello che l’operaio aveva in mano. Costui appena la vide le
gridò di allontanarsi, né ella aspettò che glielo
ripetesse dato che da vicino il puzzo le faceva bruciare le narici. Ormai nessuno avrebbe potuto trattenere Marta che
il giorno dopo si ritrovò nel locale giusto in tempo per assistere alla
continuazione dell’operazione. Al centro c’era un grosso
asse leggermente ricurvo, il "cavalletto", retto dietro da
un triangolo di legno, su cui era distesa, questa volta dal diritto, una
delle pelli del giorno precedente. Lo stesso operaio passava una specie di
coltellaccio curvo, a due manici, sulla lana che se ne veniva facilmente, in
grossi pezzi. E Marta andava con la mente ai bianchi fiocchi
stesi sulla terrazza ed al carretto che portava lungo la
discesa grosse "balle" di tela di sacco con dentro - aveva
detto la mamma - proprio la lana. Questa volta l’uomo non gridò anzi, prendendo un
coltellaccio con la lama tagliente. "Vedi" disse
con disponibilità "queste sono le orecchie dell’animale e queste
le mammelle. Ora ti faccio vedere la coda" e mostrava alla fanciulla i pezzi che tagliava prima di gettarli in un
angolo. "E tutto questo si chiama carnume". Ne fanno colla. E ricomparve il carretto lungo la discesa, questa
volta con ai lati grosse sponde che mantenevano una
poltiglia viscida e biancastra dove certo non si distinguevano più né le
orecchie né la coda degli animali. Quel giorno Marta non osò oltrepassare il luogo
silenzioso. Al di là di esso c’era - lo scoprì in seguito - nel "casone",
che aveva occupato il suo giardino, in una luce intensa, una febbrile e
rumorosa attività di macchine e di uomini. Questi armeggiavano accanto a
quelle, stridule e veloci, ma soprattutto si muovevano sicuri sui larghi
rivoli d’acqua che percorrevano il pavimento in leggera pendenza scomparendo
in fretta in lunghe feritoie. Fu il grande bagnato
che la fece ritornare, quella volta, di corsa in casa. Scartando l’idea di ritentare quei luoghi troppo
pericolosi Marta progettò una visita al babbo in quello che era il suo regno,
i locali delle cantine, in cui aveva sbirciato dal giardino attraverso le
finestre divenute grandi dopo la ristrutturazione che aveva permesso alla
conceria di istallarsi sotto la sua casa. Se però era facile arrivare all’androne, dove si
aprivano quei locali, non altrettanto era entrarvi. Quasi a guardia di essi un macchinario mandava tanta di quella polvere da
sconsigliare chi non avrebbe avuto paura della sua voce. Di legno, simile al
mobile basso di una credenza, aveva sul piano, in ampie aperture, due grosse
ruote con la superficie rugosa e brillante. Servivano per "rifinire la
parte inferiore della pelle", le disse il babbo aprendo il portello
anteriore e mostrandole dove andava a finire la polvere. Fu proprio lui infatti
che le rese sicuro il passaggio avendone compreso il desiderio. In quei
locali le pelli subivano il riassetto definitivo con cure che a Marta
sembrarono operazioni femminili ingrandite: la
"rifilatura" che somigliava ad un suo gioco preferito, solo che qui
erano le pelli ad essere ritagliate con grossi forbicioni
perché acquistassero un preciso contorno; e la stiratura con un ferro due o
tre volte più grande e pesante di quello della mamma e che scorreva
facilmente sulla pagina superiore della pelle solo se questa era spalmata con
una polvere bianca. Finalmente tutto era pronto per
il babbo e finalmente Marta lo vedeva al lavoro. Poneva la pelle ben tesa su un tavolo e vi
calava dall’alto un telaio rettangolare capace di contenere nel suo spazio
anche le pelli grandi; al centro una rete di fili di ferro. La fanciulla seguiva con caparbia attenzione il babbo che
contava toccando uno per uno i quadrati della rete occupati dalla pelle, ma
poi si disorientava quando lui con un pezzo di gesso segnava sulla parte interna
di questa un numero strano che somigliava ad una potenza il cui esponente era
uno, due o tre, ma che l’uomo chiamava "venticinque, cinquanta,
settantacinque". Strano quel modo di misurare! Ma
i suoi studi l’avrebbero aiutata e lei sarebbe stata in grado di scriverli
sulla grossa calcolatrice. Avrebbe dovuto registrarli
mentre il babbo radunava, scegliendole, dodici pelli; avrebbe dovuto
staccare la striscia di carta con la somma complessiva e introdurla nelle
pelli piegate a portafogli. Le "dozzine", così si chiamavano le
dodici pelli ripiegate, erano in pila pronte per la
spedizione nell’ultima stanza con la scrivania ed un mobile pieno di
cartelle. In quei giorni Marta ebbe la non sperata
possibilità di visitare quella che era stata la cantina di casa che da quando aveva perduto il suo ruolo era rimasta chiusa
con lo stesso chiavistello. Vi entrava sempre il medesimo
operaio accompagnato dal babbo, ne uscivano barattoli, sacchi,
cartocci. Il locale non aveva subìto
alcuna trasformazione, restavano le scaffalature e qualche mobile. Era
però sparito il gradito profumo delle cose conservate. Mentre il babbo le diceva
che lì c’erano i veleni per conciare e colorare le pelli, l’operaio con mano
esperta prendeva della polvere da un sacco, ne misurava altra ad una bilancia
muovendosi con dimestichezza. Su una grossa bilancia "la bascuglia", il babbo le misurò il peso ed ella correndo a riferirlo alla mamma ebbe la sensazione di
fuggire da un pericolo. E fu così che il babbo entrò nella vita di Marta e
fu lui ad introdurla nel cuore pulsante della conceria. Un cuore che sembrava
non si fermasse mai. Lo ascoltava nell’attesa del
sonno, la sera, e lo ritrovava al risveglio. Financo
nel silenzio festivo le veniva il rombo prolungato e pesante del grosso
"bottale" o quello più leggero
dell’altro. Era domenica quando
Marta, dietro il babbo, percorse le vie silenziose del grande corpo dormente
in cui rombava quel battito. Bastò abbassare una leva che, rantolando sempre
più fievolmente, quel cuore si fermò, prima le cinghie, poi la grande botte. Il rumore cedette il posto alle dimensioni
delle forme e il babbo divenne piccolo piccolo
vicino al "bottale". L’uomo fece
pressione sui pioli posti all’esterno lungo la parte centrale della grossa
botte girandola fino a che la bocca fu alla sua
altezza, alzò l’asse che chiudeva la porta quadrata a mo’ di botola ed
estrasse dal buio con una pertica uncinata una pelle, la esaminò, rimise il
portellone. Questa volta però non ben chiuso in modo che la botte iniziasse,
girando di nuovo ma molto più lentamente, un gioco
d’acqua che prese tutta l’attenzione della fanciulla. In realtà il liquido
usciva dalla bocca solo quando questa si trovava
verso il basso, e cadeva nella vasca sottostante, ma il moto rotatorio della
botte la rendeva completamente grondante. Intanto il babbo, indossato un grosso
grembiule, aveva preparato un "cavalletto", uno di quei sostegni
per pelli, numerosi in conceria, su cui, quando la botte si fermò di nuovo,
cominciò a mettere le pelli che estraeva con la pertica dall’interno, dove però, ella indovinava, c’era ancora molta acqua. Da quel giorno cominciò a rilevarsi a Marta un
babbo esperto in ogni parte del lungo lavoro della concia delle
pelli. Dopo quella esperienza la
fanciulla si sentì più sicura ogni volta che ritornava nel "casone". Pian piano la grandezza ed il rumore
scemarono nelle dimensioni della normalità, e fu per il muoversi di tutti
come in un luogo familiare o per il loro parlare composto, sia che fossero voci di lavoro oppure semplici familiarità. Anche le sue visite, all’inizio osservate con
attenzione o accompagnate da raccomandazioni - ci fu anche chi la prese per mano
una volta che era in corso un trasferimento di pelli grondanti - , divennero normali
e lei non si sentì più estranea. Ebbe modo di scoprire, in una delle grandi vasche
all’inizio del locale, una strana ruota: lunghe pale parallele ad un asse centrale, che percorreva tutta l’ampiezza della
vasca, portavano da una parte all’altra le pelli lisce e lucide come la cute
dei mammiferi che vivono nell’acqua. Più oltre c’era la pericolosa
"rasatrice" con una ruota piena di lame d’acciaio che girava
stridendo. Qui terminava la zona scivolosa
e Marta più libera, anche dagli sguardi degli operai, si avvicinava ad
una macchina dove sapeva che c’era qualcosa per lei, qualcosa che brillava
alla base di un lungo braccio di ferro simile ad una proboscide. Sapeva che
l’operaio avrebbe fermato il rapido movimento del braccio e le avrebbe dato
un grosso cilindro di vetro non più in grado di lucidare la pelle, ma capace di essere per i fratellini il segno di un
viaggio permesso solo a lei. Ora non c’erano più macchine e Marta procedeva
come invisibile fra il lavoro degli altri. Si avvicinava ad una specie di
lavatoio con due lastre di marmo, lisce lisce,
poste obliquamente l’una di fronte all’altra proprio come le tavole delle
lavandaie, che però non terminavano su una tinozza bensì su un canaletto. Non c’erano donne, ma
uomini per quel lavoro, né era sapone ma un pezzo di legno quello che i due,
senza interrompere l’alterna cadenza dei loro discorsi, passavano sulla pelle,
e che aveva all’estremità una lama capace di rendere liscia e distesa la
superficie rugosa e gonfia di quella. Sottili fili d’acqua correvano sul
piano con imprevedibili disegni prima di raccogliersi nel canaletto. La prova della sua sparizione in quel grosso
locale veniva a Marta quando passava dinanzi al fornellone pieno di un fuoco, che si intravedeva e si
sentiva al di là del chiuso portellone, un fuoco vivo e diverso da quello
pacato e silenzioso del suo camino. Nessuno si preoccupava di allontanarla.
Nessuno si prendeva cura della fornace. Un giorno, decisa a saperne di più, si fermò
dall’altra parte, in attesa. Scivolò così dietro un
grosso mucchio di pelli riverse su un cavalletto. Finalmente la portella di ferro fu aperta e le apparve uno spazio
enorme completamente invaso da fiamme di un biancore mai visto che
rumorosamente giravano. Grossi pezzi neri scomparivano tra le fiamme per dare
loro più vita. Marta sentì il bisogno di uscire e scappare. Si
trovò invece accanto al vecchio della mezzaluna che altre volte l’aveva
aiutata. Era un operaio con le braccia ancora piene di muscoli che si gonfiavano mentre facevano passare la pelle sulla lama di
una mezza sfera di ferro posta al termine di un asse di legno, simile al
disco del sole che, tramontando, resta visibile a metà sulla curva del monte.
Tenendo fermo col piede l’asse orizzontale che, ad angolo retto con quello
verticale, poggiava sul pavimento, l’uomo distendeva sulla lama le fibre
della pelle. Così aveva spiegato il suo lavoro, la prima volta.
Poi i due erano diventati amici. Le visite di Marta gli schiarivano il viso e
lo rendevano loquace. Forse era troppo solo nel suo angolo. Una volta le
portò un riccio che subito aveva fatto una tana in giardino e poi delle mele “granate”
e le castagne. Le parlava della nipotina che non poteva camminare e non
andava a scuola come lei. Si soffermava soprattutto il vecchio operaio sul
lavoro di una volta. Poche cose erano cambiate da quando
lavorava alla conceria del nonno. E Marta gli aveva
detto del suo giardino scomparso. La vasca con i pesci rossi e le ninfee era proprio là, dove ora c'era quella con la calce. E gli aveva raccontato della sua vite distrutta dalla
conceria. Quella volta l’uomo le svelò il segreto della grande caldaia nascosta dietro il muro di mattoni dalla
quale dei tubi permettevano il prelevamento dell’acqua. Sempre con rammarico la fanciulla
si allontanava dal vecchio anche se ad attenderla c’erano le donne che
inchiodavano le pelli sui telai. Col bel tempo esse si trasferivano col loro
lavoro in giardino. Nelle lunghe giornate estive Marta le raggiungeva, esse si interessavano un po’ a lei, poi riprendevano le loro
storie - il film della domenica,
episodi di tutti i giorni - tessute da entrambe, come quel lavoro che
doveva essere eseguito in due. Mentre quei racconti,
non rivolti a lei, le portavano la vita del paese Marta seguiva il misurato
maneggiare delle tenaglie nel tendere la pelle. Una donna dalla parte della
testa, l’altra da quella della coda ne inchiodavano
l’orlo sul legno morbido dove i chiodi lasciavano tanti buchetti. Poi era la
volta della parte centrale, a destra e a sinistra, fino a che la pelle era
interamente tesa. Nell’ora della colazione, quando quei racconti si
spostavano all’ombra del susino frammezzati da grossi bocconi di pane col
pomodoro o con lardo venato da sottili strisce di carne, la fanciulla provava quegli attrezzi. La tenaglia di ferro
pesante con la punta larga e rigata faceva anche da martello, i chiodi lunghi
e puliti entravano facilmente nel legno di pezzi di vecchi telai messi
insieme per gioco. Un cigno, un’aquila, un aeroplano, oggetti che si disfacevano lì sui gradini di cemento che conducevano alla
terrazza. Un’altra parte della conceria era collocata sotto
il tetto, la "torre", dove le pelli salivano due volte: umide per
essere appese alla "purgadera" - lo spanditoio di travi di legno e assi con chiodi ricurvi - nel vento delle ampie aperture senza imposte
né vetri; asciutte per subire l’operazione della spruzzatura
che dava un colore brillante alla loro pagina superiore. Più volte vi saliva Marta per via della voce
fastidiosa del grosso "compressore". Come un torello - il corpo un
cilindro tenuto a terra da quattro piedi di ferro - quando era in moto permetteva ad una pistola
di spruzzare sulla pelle il liquido colorato posto in un recipiente alla sua
base. Allora l’aria diventava irrespirabile anche se
c’era una grossa cappa che avrebbe dovuto far uscire sul tetto la nebbiolina
che si formava nell’aria. Le pelli lucide e belle non potevano essere toccate
e allora venivano prese dalla parte posteriore con
una "verga" di legno e poste, distanti tra loro, su due assi nel
vento. Quel vento che, entrando anche nelle parti non
praticabili ed ancora intatte della soffitta, vi portava i profumi della
primavera o i fiocchi di neve in inverno quasi volesse
ridestare a nuova vita le cose lì accantonate perché la forza antica non si
perdesse. . |
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