Lettura di opere letterarie 

Ninfa plebea di Domenico Rea

 

"Io me la son vista brutta, brutta assai da quando sono nata" è l'intenso e discreto resoconto fatto dalla protagonista di Ninfa plebea all'uomo che accoglie e sostiene la sua nuova condizione, una nuova vita non frutto di una tolstoiana resurrezione ma risultato, evento naturale come la muta della crisalide a cui si riferisce il sostantivo del titolo.

L'ultimo romanzo di Domenico Rea è la storia di una ragazza, Miluzza, che, ravvolta nei gorghi di una infima condizione umana e         sociale insieme, ne segue le involuzioni, lei "pura vita, puro istinto, puro candore alla deriva" fino ad approdare legittimamente ad uno stato più degnamente umano.

La Nofi di Rea, quel referente della memoria fonte e topos della produzione dell'autore napoletano, è sfondo ed espressione in questo romanzo di una umanità bassamente istintuale e naturalmente primitiva ai margini del vivere civile.

Nei meandri di questo crinale la carnalità da una parte è ingenua vitalità o è avvertita come forza e "salute della terra" tanto che chi ne è invischiato la assimila alle altre urgenze o manifestazioni del corpo e consapevolmente si sente unito per questa via all'animale, dall'altra è sessualità malata, è vizio esaltato o subìto, mai tormento che migliora.

Questa carnalità popolare, grettamente naturale ma non malata e perciò capace di slanci e di riscatto è raffigurata nel pregnante quadro iniziale di un pellegrinaggio che si configura sia come orgia bacchica che esalta e soddisfa il delirio dei sensi sia come sagra popolare che lo purifica nella penitenza. Falsa, nascosta, pervertita è invece la carnalità piccolo-borghese, sepolcro imbiancato dagli esteriori ornamenti del perbenismo, espressione quindi di una condizione "senza slanci né prospettive".

Due facce di un unico mondo "il pozzo buio e nero di Nofi" che è il mondo di Miluzza in cui avviene la sua evoluzione sessuale che non è un processo educativo, ma un percorso naturale come quello della "ninfa".

Nei bassifondi di comportamenti ora pervertiti ora istintuali, "come un pollo da cortile senza troppe attenzioni e carezze", come un animale inviluppata nei propri odori e in quelli familiari, Miluzza subisce ed accetta l'ambiente e le esperienze cui è costretta ma. riesce a rimanere staccata quel tanto da non distruggere il SUO "candore alla deriva".

Anche quando l'esperienza più forte la sveglia ai primi e più urgenti problemi dell'uomo ella è costretta ad attingere agli unici referenti che        ha intorno, gli animali e la madre.

Quest'ultima unita agli altri nella prima conquista della fanciulla: "La sua testa andava dalla rana al rano, dalla vacca al toro e da sua madre a Di; pervenendo alla conclusione che era tutto così fra gli uomini e fra gli animali; che, forse, quella cosa era il motore della vita".

Animale e uomo accomunati nella ineluttabilità della conclusione di Miluzza che la porterà, senz'altro succube, ancora alla deriva, ancora a percorrere le strade basse dell'uomo fino al momento culminante in cui la sontuosità di un elegante albergo non riesce ad offuscare i lividi barlumi che l'infangano.

Qui in una bellissima pagina percorsa sulle vie della memoria Miluzza ancora sola attinge ai momenti crudi ma intensi della sua infanzia accanto alla madre - che in tal modo riscatta un suo ruolo - la forza per     risalire dal "pozzo sporco e buio" in cui era nata.

Pari alla "perversione" anche la salita avviene senza travagli interiori e senza aiuti, naturale e individuale processo come la muta del bruco, perché "la natura modifica la nostra natura a nostra insaputa". È infatti ancora sola nella Nofi svuotata dal bombardamento alleato la cui gente è significativamente rintanata nelle viscere contorte e spaventose della terra, un antro "grande quanto l'inferno", qui ammassata e disperata, turba formicolante, lamentosa in una morta litania senza speranza, quello stesso canto che aveva accompagnato, ma orgiasticamente, la medesima folla lungo il pellegrinaggio di cui precedentemente si diceva.

In questa Nofi, non più in grado di intralciare la "metamorfosi" di Miluzza avviene l'incontro con Pietro, un soldato ferito che fugge dalla guerra e che, altissimo, "non somigliava a nessuna delle persone basse di "Nofi". Miluzza lo cura e lo rifocilla, poi i due fuggono da Nofi tra i pericoli delle bombe e dei nemici, ella a sostenere l'uomo non viceversa, "come una donna vecchia [lui] e una giovane [lei]", entrambi però reduci. Sulla strada che porta al paese del giovane osservano Nofi bruciare ai loro piedi: "Sembrava una graticola, una rete metallica da letto, una branda. Così la madre Nunziata,per scacciare le cimici, dopo averle sbattute per terra, copriva le reti di petrolio e le dava al fuoco".

L'uscita dalla malsana Nofi corrisponde all'approdo in un luogo vivo e pulito, in una natura, sì genuina, ma elevata ad ambiente umano. Un ambiente opposto a quello di Nofi, dove l'animalesco che urge nell'uomo è diventato umano. Qui il calore di sani affetti familiari e amicali trasforma il lavoro in un comune operare, fruttuoso e solidale, dove i giorni diventano "distesi come teloni azzurri limpidi sulla campagna". E qui la "ninfa plebea", venuta "dall'intruglio del suo passato" si scopre non una estranea, legittimamente dunque approdata alla forma superiore.

Il ritorno di Miluzza a Nofi per "prendere due o tre cose che le erano rimaste attaccate alla mente" - il passato non può annullarsi - sancisce il nuovo stato di Miluzza. "Sono morta per Nofí", dirà ella alla buona Nannina da cui si sente lontana perché "s'identificava col pozzo sporco e buio di Nofi". E sul carro che la riporterà per sempre fuori da Nofi, una pagina significativa pone nei pensieri dei due giovani la misura di quel cambiamento; per lei è 1a coscienza di un netto taglio, irreversibile, per lui la costatazione che "la casa di Miluzza gli sembrava ben messa, chiusa a chiave, da aprire solo ad un uomo come lui, severo come lei".

Pensieri che suggellano il buon diritto per Miluzza di vivere una vita più dignitosamente umana di cui sono espressione e licenza le lacrime della giovane e la sua verginità, simbolo della legittimità di cui dicevamo, e che costituiscono la delicata e profonda chiusa del romanzo.

Con questa opera si può dire che quel "sentimento tragico della vita" che Giuliano Manacorda individuava nella produzione reaiana si dissolva, risolvendo in tal modo l'interpretazione che pessimisticamente Domenico Rea ha dato alla realtà da lui ritratta.

Il romanzo ha una sua forza e corposità per l'arditezza del linguaggio e delle immagini che si giustifica con il mondo che essa deve rappresentare. Sono modi e forme, gergali e colorite, che non diventano lascive o oscene perché non sono indugio malsano e infatti scompaiono là dove l'autore tratteggia l'ambiente opposto a quello di Nofi.

La vicenda e il linguaggio diventano entrambi metafora di un percorso più generale, dell'uomo più che dell'individuo, dell'umanità  cioè che approda alle forme mature del suo comportamento emergendo da quelle primitive, metafora però di un approdo meramente naturale, azione pura. In questo senso il romanzo costituisce la risposta ad una domanda che l'autore pone all'inizio della vicenda.

 In “Quaderni Meridionali”, anno VIII, n. 21. giugno 1993.

 

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