Filosofia
Il rapporto dell'uomo col divino
La strada per la realizzazione
umana
Religione come fondazione dell'uomo
e religiosità
popolare come rapporto uomo-Dio nella comunità.
l. Sentimento religioso
In questo studio analizzeremo la risposta al "richiamo
metafisico", da noi definito come "elemento propulsore inesauribile e
fecondo che si introduce nella evoluzione ed opera
nella noosfera e che fonda lo statuto ontologico
della persona vivente"1.
Esso si concretizza nell'uomo attraverso la via del rapporto
col divino. Nello stadio iniziale dell'evoluzione umana non parleremo di religione
perché con questo termine si designa uno stadio superiore dell'homo religiosus in cui la stratificazione primaria si è
venuta concretizzando in una serie di atti strutturati2.
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1. Cfr. M. De Maio, Per una antropologia
edenica. Ermeneutica del racconto biblico di Adamo ed
Eva, in "Riscontri, 1-2, 1993, p. 102.
2. La parola religione è un derivato astratto di relegere = raccogliere composto di re- intensivo di legere = raccolta selezionata di atti
rituali (G. Devoto, Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico,
Firenze, 1970, p. 352). Cicerone le dà il significato di "leggere ad
altri", riferito a quelli che nell'attività culturale riandavano col
pensiero, rievocavano diligentemente e quindi rileggevano attentamente gli atti
del culto ("omnia diligenter retractare
et tamquam relegere" Cic., De natura deorum, 2,72). É chiaro comunque
che il termine nasce per indicare un comportamento non uno stato d'animo.
Parleremo invece di sentimento religioso, indicando
quello stato fondamentale dell'animo, che è correlato all'atteggiamento
primario dell'essere umano che avverte sé, altro da ciò che lo circonda (l'autocoscienza
primordiale) e nasce quando in questa situazione l'io
sperimenta la propria finitezza e imperfezione, in tensione razionale verso
qualcosa d'infinito e perfetto, permettendo l'innesto dell'evoluzione umana in
quella della specie.
L'esperienza della negatività - il proprio non-essere - genera una tensione verso il positivo, come
dire spinge a cercare un appoggio all'Essere, che produce essere, cioè
realizzazione umana3. Il compimento dell'uomo, dice Olivier Rabut, "non è distinto
da un'apertura verso l'Ultimo"4.
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3. Cfr. A. Gorres,
Ai confini della psicanalisi. Psicologia del comportamento religioso,
trad. it. di Ezio Bacchetta,
Brescia, 2970, pp. 9-40 che è uno stimolante tentativo di studiare, alla luce
di una psicanalisi poco conosciuta, le evoluzioni dell'intelletto e dello
spirito, ponendo in una nuova luce le idee centrali della tradizione filosofica
e teologica; e J. Danielou, La fede cristiana e l'uomo d'oggi, Milano, 1970, pp. 61 e sgg, in cui il cardinale francese, uno dei maggiori
esponenti della "nuova teologia", indaga il problema fondamentale
della dimensione religiosa dell'uomo. Importante è anche l'apporto di P. Louis Bouyr nel sottolineare il
carattere spontaneamente religioso dell'uomo in Il rito e l'uomo, Brescia, 1967. Il teologo protestante R. Otto (Il
sacro, l'irrazionale nell'idea del divino e il suo rapporto col razionale,
trad. it. E. Buonaiuti,
Bologna, 1926) ha chiamato questo essere fuori di noi numinoso ed ha
analizzato il sentimento di spavento e inquietudine in cui si avverte il "numen praesens" che genera
il senso del "misterium tremendum".
Ci sono religioni pratiche che si fermano al momento negativo della
constatazione della propria nullità come il buddismo e l'ascetismo. S. Agostino
invece sottolinea nel De vita religiosa questo momento per giungere a Dio.
4. O. Rabut, Valore spirituale della realtà profana, Brescia, 1964, p.
La psicologia del profondo ha studiato questa istanza di base della personalità umana - il "bisogno di trascendenza" - di natura essenzialmente inconscia, che porta
l'Io a superare il confine angusto della propria esperienza e a costruire
modalità nuove che si innestano su situazioni precedenti, trasformandole. Una
fondamentale tensione religiosa - "il richiamo divino" è
stato detto - è dunque tra le forze più
potenti della costituzione dell'Io5.
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5. Il maggiore rappresentante della
psicologia del profondo dice: "Il concetto di divinità è [...] un'insopprimibile funzione
psicologica di natura irrazionale [...], l'idea di un Essere di potenza
sconfinata, di un Essere divino, è presente dovunque, in maniera conscia o
inconscia, perché è un archetipo" (l'archetipo junghiano
è una forza della natura umana. Cfr. C. G. Jung, Psicologia
dell'inconscio, Torino, 1968, p. 122). Per i
problemi di psicodinamica, a cui faremo spesso
riferimento in questo tratto del nostro studio nel tentativo di comprendere la
realtà che è alla base del comportamento religioso, cfr.
A. Adler, Psicologia
analitica, Torino, 1972; C. G. Jung, Psicologia e religione, Milano, 1966; Id,
Psicologia dell'inconscio, Torino,
1968; G. Leevw (van der), Fenomenologia
della religione, Torino, 1961; L. Pinkus, Contributo della psicologia junghiana alla comprensione della "vita
spirituale"; R. Zavallone, Le scienze
della religione oggi, Roma, 1978.
Mircea Eliade dai suoi poderosi studi sulle religioni trae la
conferma che la coscienza sorse quando l'uomo riuscì a
"conferire un significato" ai suoi impulsi e alle sue esperienze. Fu
"attraverso l'esperienza del sacro" che "la mente umana afferrò
la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e pieno di
significato e ciò che non si rivela tale". "Questo processo
dialettico", continua lo studioso, "precedette e servì da modello per
tutte le forme dialettiche successivamente scoperte
dalla mente umana"6. Anche per Ernest Cassirer ogni forma
culturale trae sensibilmente la sua origine dal sacro7. Jean Daniélou parla di
"genio religioso" dei popoli e si riferisce ad una specie di campo pre-storico, assoluto, universale, in cui l'essere
religioso si configura come un'esigenza o una condizione dell'uomo in generale - il diltheyano Erlebnis
esistenziale, spontaneo e profondo - che
precede i contenuti storici in cui si cala e si concretizza8.
7. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche,
Firenze, 1966. Per il filosofo tedesco tutto il reale è una produzione
spirituale guidata da una energia essenzialmente
sacrale. La sua poderosa sintesi gnoseologica, condotta alla luce dei progressi
delle scienze esatte, allarga l'analisi kantiana a tutte le attività umane
delle quali individua le caratteristiche strutturali che si riconducono ad un
unico principio formale dell'attività del pensiero, dimostrando lo sforzo dello
spirito umano "di trasformare il mondo passivo delle semplici impressioni
in un mondo della pura espressione spirituale" (I, p.
13).
8. J. Daniélou, op. cit.
A questo punto possiamo accedere
alla definizione di religione o religione naturale che è lo specifico
rapporto dell'uomo con Dio, a quello di culto che è l'insieme degli atti
mediante i quali l'uomo realizza il suo contatto col divino e a quella di religione positiva che
è la determinazione concreta, legata a categorie culturali con cui gli uomini
hanno elaborato il concetto di Dio e determinato il culto9.
______
9. Per S. Tommaso (Summa Teologica,
II, 2, 81) religione è quel complesso di relazioni che
ordinano l'uomo a Dio. Per altre definizioni cfr. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, 1984 e Enciclopedia delle religioni, Firenze, 1973, s. v.
Citiamo la famosa definizione del sociologo francese E. Durkheim:
"Nous dison les faits religeus et non la religion, car la religion est un tout de phénomènes religieux [...]. D'ailleurs, il y a une moltitude
de manifestations religieuse qui ne ressortissent a aucun religion proprement
dit" in De la definition des phenomènes religieux in "Année sociologique",
n. 2 (1897-1898), p. 1. Quelli che sostengono che la religione è
semplicemente un fatto storico e quindi bisogna analizzarla tenendo presente
questa categoria ignorano il substrato religioso
fondante il processo storico delle religioni positive. A. Gramsci
afferma che "sia il partito che la religione sono
forme di concezione del mondo e che l'unità religiosa è apparente come è
apparente l'unità politica: l'unità religiosa nasconde una reale molteplicità
di concezioni del mondo che trovano espressione nei partiti. [...] Ogni uomo
tende ad avere una concezione del mondo organica e sistematica, ma poiché le
differenziazioni culturali sono molte e profonde, la società assume una
bizzarra variegazione di correnti che presentano un
colorito religioso o un colorito politico a seconda della
tradizione storica". A. Gramsci,
Religione e politica, in Passato e presente, Roma, 1974, p. 214.
Abbiamo citato per intero il passo del teorico italiano perché esso ci aiuta a
puntualizzare la posizione della scuola gramsciana di
cui parleremo in seguito.
La diversità delle religioni" dice Daniélou, "dipende essenzialmente dalla diversità nel
genio religioso dei popoli", "la parola di Dio", continua,
"è indipendente da ogni cultura e da ogni genio
religioso ed è ricevuta da ogni popolo e da ogni razza secondo la propria
mentalità", essa non distrugge allora "il genio religioso dei popoli,
lo porta invece al compimento supremo"10.
Lo studio delle religioni positive
fa emergere concretamente questo homo religiosus
che è al fondo di ogni popolo. Mircea Eliade ha potuto costruire
una fenomenologia dell'essere religioso proprio partendo dalla storia delle
religioni. Si è valso dell'apporto di tutte le scienze umane per individuare i
tratti comuni delle religioni, una specie di struttura religiosa dei popoli a
cui le diversificazioni storiche hanno dato solo una diversa coloritura11.
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10. J. Daniélou, op. cit., p. 74.
11. Cfr. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, 1948.
2. Analisi dell'esperienza religiosa.
2.1.
Il simbolo
In questo tratto analizzeremo le forme e g1i elementi
dell'esperienza religiosa seguendo una traccia necessariamente astratta.
Cominciamo dal simbolo, che è lo strumento necessario che la mente umana possiede per
realizzare quell'istanza
fondamentale - il rapporto con
l'assoluto - che è alla base della
costituzione di tutto il mondo dell'uomo12.
_____
12. Per gli argomenti che qui
si sviluppano fondamentale è l'opera di E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, cit.
Il simbolo è qualcosa di materiale che
rappresenta un qualcosa d'altro che ha valore assoluto, e si distingue dal
segno che rappresenta semplicemente un'altra cosa.
L'attività simbolica permette all'essere vivente,
immerso nella materialità, di trasformare, in virtù di questa valenza assoluta,
a grado a grado, il mondo caotico delle cose in realtà spirituali. Cioè di "costituire spiritualmente", dice Cassirer, "sia il mondo del 'reale'. che quello dello spirituale, il mondo dell'io"
______
13. E. Cassirer,
op. cit., I, p. 28.
14. Ibidem, p. 10.
15. Ibidem, p. 25 e
sgg.
Il simbolo appare allora "un organo essenziale e
necessario del pensiero", che fornisce alla coscienza dei processi sicuri
di costruzione spirituale, ed agisce in tutte le attività umane - nel mito, nella
religione, nella conoscenza, nell'arte -
secondo forme peculiari di quell'attività,
mediante le quali la mente fonda spiritualmente uno specifico aspetto del
reale. Queste costruzioni spirituali non sono "modi diversi in cui una
realtà esistente in sé si rivela allo spirito ma sono
invece le vie che lo spirito segue nella sua obbiettivazione
e nel suo manifestarsi"16 e tutte sono regolate da un'unica
funzione spirituale. Una fondamentale istanza
religiosa permette la costruzione spirituale di ogni prodotto umano e dello
spirito stesso. Per questa via il mondo dell'uomo emerge dalla
evoluzione della specie e si configura come "la continuazione e
l'intensificazione" di quella17.
______
16. Ibidem, p. 10.
"Nella funzione simbolica della coscienza, quale si attua nel linguaggio,
nell'arte, nel mito, si elevano per la prima volta dal flusso della coscienza determinante forme fondamentali che permangono sempre
uguali, in parte di natura concettuale, in parte di natura puramente intuitiva;
al posto del contenuto fluente sottende l'unità chiusa in sé e in sé permanente
della forma" (ibidem, p. 25).
17. Ibidem, III, p.
Nell'attività religiosa il simbolo, come
referente mentale della divinitá racchiude in sè una forte tensione che realizza
la vita mistica del singolo e del gruppo. Il simbolo religioso non è un mezzo,
ma un valore che evoca tutto un mondo di significati ineffabili che sono al suo centro, è come un'aureola che non determina né
circoscrive il centro, lo rende pertanto adattabile a tutte le realtà e a
qualsiasi grado di rapporto religioso. Se si cerca di determinarlo con un
intervento razionalizzato allora esso perde l'energia
valoriale e scade al ruolo di segno. Per converso nelle forme più evolute di
spiritualità che portano all'esperienza di tipo mistico, poiché è avvenuta una
"progressiva interiorizzazione" del processo religioso, la coscienza
non ha più bisogno del
simbolo18.
_____
18. Questo processo è
trattato in E. Cassirer, op. cit., II, pp. 215-363.
Introdotto nel culto, che gli crea intorno
un rituale, che gli dà una norma, che gli impone degli obblighi e chiede
che venga rispettato, il simbolo subisce una limitazione perdendo la pienezza
significativa. Il rito infatti, inteso come un cerchio
intorno all'atto religioso, rende difficile la sopravvivenza di uno spazio
libero, creativo nel quale poter salvaguardare la necessaria indeterminatezza.
Nello stesso tempo per essere tramandato e realizzare la comunicazione tra i partecipanti il simbolo religioso deve entrare in una
istituzione, subire questa limitazione rischiando la morte di se stesso19.
_____
19. Su questo
argomento v. C. Verhoeven, Dove va Dio?, trad. it. di L.
Van Wassenaer-Creocini,
Roma, 1970; C. Baudouin, Psicanalisi del simbolo
religioso, Alba, 1960.
2.2. La magia
La magia è da correlare a quello stadio primario in
cui s'innesta nell'uomo il rapporto religioso. Gli studi sul comportamento
umano hanno infatti posto in risalto come magia e
religione sorgono da un'identica situazione e quando non ancora sono netti i
contorni di distinzione tra l'umano e il naturale20.
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20. Cfr.
M. Mauss, Teoria generale della
magia ed altri saggi, trad. it. di F. Zannino, Torino, Einaudi, 1963; L. Lévy-Bruhl, La mentalità
primitiva, trad. it. di
C. Cignetti, Torino, Einaudi,
1975; E. Cassirer, op. cit.,
v. II.
Il comportamento magico come quello religioso è legato
ad uno stato fortemente emozionale determinato dalla
esperienza della individuale precarietà rispetto al mondo circostante che
sovrasta, per cui si genera una forte tensione verso qualcosa cui ricorrere per
risolvere il negativo. Se questo "spazio" viene
riempito di elementi che, pur presi dal mondo circostante, si caricano di
"senso perché sono riferiti ad un tutto, in modo che si possa approdare ad
una sintesi superiore, con il risultato che l'uomo cresce come persona e come
gruppo, siamo nell'attività religiosa; si è invece nella magia se questi
elementi restano quelli che sono, privi di forza, quindi non capaci di generare
alcuna tensione maturante, anzi provocando spreco di energia. La magia si
configura insomma una strategia che è sulla linea dell'"avere" e non
dell'"essere"21.
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21. Ci si riferisce all'opera
di E. From, Avere o
essere? (Milano, Mondadori,
1977, trad. it., di F. Saba Sardi) in cui l'autore analizza le due modalità
fondamentali d'esistenza: dell'avere, incentrata sulla brama di possesso
nel senso anche dell'incorporazione dell'oggetto, opposta a quella dell'essere,
basata sull'attività autenticamente produttiva e creativa, di processo,
attività e movimento quale costituente dell'essere.
Ernest Cassirer ha messo in
risalto come "in virtù dell'onnipotenza della volontà magica l'io cerca di afferrare e di piegare a sé le cose, ma proprio in
questo tentativo esso si rivela ancora dominato, ancora 'posseduto'
completamente da queste. Anche il suo supposto agire diventa ora per esso una fonte di patire"22. Per il filosofo
tedesco però l'attività magica costituisce lo stadio iniziale dell'attività
spirituale mitico-religiosa che permette all'uomo,
dominato dal desiderio di reagire alla passività sensibile, di far emergere dal
flusso indistinto del reale impressioni dì particolare
intensità.
Alcuni studiosi
indicano nella mentalità magica una "sopravvivenza del pensiero
collettivo" in cui "l'individuo perde la propria individualità e sì
confonde con la realtà", regredisce cioè sul
piano maturazionale23.
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22. E. Cassirer, op. cit.,
II, p. 221
23. E. Durkheim
e M. Mauss, Su alcune forme primitive di
classificazione. Contributo allo studio delle
rappresentazioni collettive, in AA.
VV., Le origini dei poteri magici, Torino, Boringhieri, 1951, p. 21, v. comunque tutto il saggio (pp.
19.21). Stimolante anche lo studio (nello stesso
volume pp. 95-131) di H. Hubert
e M. Mauss (La rappresentazione del tempo nella
relazione e nella magia) in cui gli autori dimostrano come il concetto di
tempo sia nato dalla rappresentazione religiosa e magica della vita.
Il comportamento magico è dunque proprio dell'uomo
primitivo per il quale "un numero di atti e di
credenze rituali già fatte, una tecnica mentale e pratica definita"
servono "a superare gli ostacoli pericolosi in ogni importante impresa o
in ogni situazione critica", con la funzione asseverante "di ritualizzare l'ottimismo dell'uomo, di rafforzare la sua
fede nella vittoria della speranza sulla paura"24.
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24. Cfr.
B. Malinowski, Magic, Science and Religion and Other Essay, Boston, Glencoe, 1948, p. 90; v. pure Idem, Teoria scientifica
della cultura e altri saggi, trad. it.
di G. Faina, Milano, Feltrinelli,
1971.
G. Frazer nel suo poderoso
studio sul comportamento dell'uomo, sottolineando le
ampie zone di collegamento, di continuità o coincidenza della magia con la
religione - e questo specie presso i
popoli primitivi - dimostra come alla
base dì questa originaria modalità ci sia "una errata associazione di
idee", e che la magia, adattandosi e modificandosi, arriva fino ai nostri
giorni nei comportamenti folclorici dei popoli
moderni e penetra nelle religioni più alte25. In questi casi si
parla di sincretismo, magico-religioso, da intendersi
non nel senso di una compresenza dei due elementi nello stesso momento bensì di
un passaggio dall'uno all'altro, poiché qualora all'atto religioso venissero a mancare le caratteristiche che lo definiscono
tale - fenomeno cioè del tutto interiore
in cui si genera una tensione maturante -
esso diverrebbe atto magico26, ovvero sarebbe semplicemente
un atto profano o folclorico.
_____
25. Cfr.
J. G. Frazer, Il ramo d'oro, trad. it. di L.
De Bosis, Torino, Boringhieri,
1973, p. 63 e sgg.
26. Cfr.
G. Le Bras, Studi di sociologia
religiosa, trad. it.
di G. Caputo e L. Pellegrini, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 270 e sgg.
Nell'uomo civilizzato il comportamento magico è una
reazione elementare -
la realtà non distinta dal soggetto o concepita come animata fa parte della
mentalità infantile - della coscienza che
sperimenta la propria insufficienza dinanzi a situazioni difficili. In questi
soggetti, che hanno carenze maturazionali,
l'atto magico ha valore catartico per la capacità di alleviare i meccanismi di
ansietà come abbiamo visto per l'uomo primitivo.
Levi-Staruss ha collegato la
cura psicanalitica con la magia, poiché entrambe portano ad un atto sublimatorio di transfert27.
La psicologia del profondo riconosce nella magia una
forma di quell'energia spirituale latente
nell'inconscio di tutto il genere umano, che è il bisogno di Dio e che l'uomo
non riesce a gestire in modo positivo28.
____
27. Cfr.
C. Lévi-Strauss, Il pensiero
selvaggio, trad. it.
di P. Caruso, Milano, Il saggiatore, 1964: Idem, Il
totemismo oggi, trad. it., di D. Montaldi, Milano, Feltrinelli,
1964.
28. Cfr.
C. G. Jung, Psicologia dell'inconscio, cit., pp. 5 e sgg,; Idem, Inconscio, occultismo e magia, Roma, Newton Compton Italiana, 1971.
2.3. Il mito.
La tensione verso l'assoluto diventa nel mito potente
forza costruttrice e ordinatrice29.
______
Il bisogno umano di trascendenza, la necessità di
dare forma all'inconoscibile e senso
alla propria esperienza che costituiscono il negativo,
provocano nell'uomo una tensione fortemente emozionale - la si è vista anche alla base del
comportamento magico - che non può
essere catturata dalle categorie dell'intelletto, ma solo "pensata" e
che la mente umana esprime con delle figurazioni mitiche cariche di significati
universali ed assoluti, che diventano archetipi. Il mito contiene infatti solo avvenimenti dotati di valore assoluto, modelli
esemplari di attività umane che non avvengono nel tempo, la cui funzione
asseverante è data dal rapporto con la divinità o con gli antenati. Esso allora
diventa un punto fermo di riferimento ed una guida per l'uomo che, appena
uscito dall'animalità, si trova immerso nel caos del mondo e
dell'indeterminatezza di azioni senza senso, e, poiché
deve essere "attualizzato", dà all'uomo la possibilità di ripetere le
esperienze descritte e in questo modo di "ricreare" la propria vita:
essere "come non era prima", correggere il proprio errore, riprendere
la fiducia e la forza per progredire, dare ordine al mondo.
É questa un'attività importantissima, perché per la
mentalità arcaica tutto ciò che avviene nel mito ha valore reale, è ricco di
senso rispetto al negativo che è fuori; ed è un'attività
totalmente religiosa con la quale l'uomo "fonda ontologicamente
il mondo" e realizza il suo processo maturazionale;
e attraverso il quale il sacro esplica la sua forza
costruttrice nel mondo dell'uomo insieme all'uomo stesso.
Prima espressione umana del sacro, primo campo di
sviluppo dell'umanità il mito indica come un determinato gruppo sente
l'universale, come risponde al bisogno di guida, di regolarità, di stabilitá, di unione tanto che,
analizzando le sue strutture, si possono individuare quelle mentali e
comportamentali del gruppo.
E la mitologia
acquista la funzione civilizzatrice di un potente disegno metastorico
o di un sistema istituzionalizzato, divenendo la storia epico-religiosa
di un popolo. D'altronde la ricchezza archetipica gli
permette di essere una struttura aperta che accompagna, in forme di volta in volta diverse, tutta l'evoluzione umana come un fecondo
nerbo guidante.
Ernest Cassirer ha sottolineato questa
funzione del mito considerandolo "un fattore indispensabile, un elemento
fondamentale nell'evoluzione della cultura umana" e ha dimostrato come il
mito sia "un elemento costante nella vita dell'uomo", non solo perché
prodotto di una struttura del pensiero umano, ma anche perché espressione di
un’esigenza della natura umana tanto che l'uomo, dice sempre il filosofo
tedesco, è anche "un animale" mitico30.
_____
30. E. Cassirer,
Simbolo, mito e cultura, cit.,
pp. 239 e 247.
E Mircea Eliade conferma: "l'uomo qual
è oggi è il risultato degli [...] avvenimenti mitici,
è stato costituito da questi avvenimenti"31, ma in questa
costruzione, anche se l'atto religioso mitico lega l'uomo ad una ciclica
ripetizione, egli progredisce solo quanto può nella libertà assicurata
dal sacro. Il Cristianesimo, sganciando l'uomo dalla costrizione del ciclico
rituale arcaico e immettendolo nella linearità della storia ha dato piena
libertà a questa umana edificazione32.
_____
32. Ibidem, pp. 183 e
sgg.
I miti d'oggi continuano ad avere la stessa funzione
organizzatrice dell'attività degli uomini, solo che il mito scientifico, quello
che "nasce dall'uomo e all'uomo ricorre senza soluzioni di continuità,
rinserra [...] l'uomo in un
circolo chiuso, narcisistico, in cui come in una galleria di specchi egli vede
rifrangersi da tutti i lati la propria immagine magari ingrandita e sublimata,
ma sempre la propria immagine33. Questo mito desacralizzato non ha
alcuna tensione valoriale, anzi costringe ad azioni fredde e ferme, è allora
sulla stessa dimensione della magia34.
_______
33. S. Cotta, La sfida
tecnologica, Bologna, Il Mulino, 1968, p. 96.
34. Cassirer
ha dimostrato "quanta pericolosa forza esplosiva"
abbia "il mito completamente razionalizzato" del mondo contemporaneo.
V. per questo argomento i lucidi saggi dell'ultimo
periodo (in Simbolo, mito e cultura,
cit.) che hanno la chiara profondità del pensiero maturo.
Questa attività umana è stata nel
passato variamente valutata. C'è chi vi ha visto uno sviamento dello
sviluppo del linguaggio o uno stadio dell'evoluzione sociale. Platone lo
considera un prodotto inferiore ma necessario dell'attività intellettuale e lo
mette in relazione al logos come l'opinione
alla scienza35. Tutto ciò contribuì a dare al mito l'accezione di racconto
favoloso, idea avvalorata dalla letteratura che se ne
impossessò, contribuendo ad allontanare il punto di vista dal quale il mito
poteva essere considerato. Fu Giambattista Vico che dette dignità al mito,
considerandolo come una forma autonoma di pensiero, diversa da quella razionale36,
posizione che venne ripresa e ulteriormente
approfondita da Ernest Cassirer
per il quale il pensiero mitico è un modo di essere dello spirito, in cui opera
essenzialmente il sentimento, le cui costruzioni sono una specie di materia
spirituale37.
Oggi il mito, per opera soprattutto dei contributi della psicologia
del profondo, della fenomenologia religiosa, degli
storici della religione è visto come "una realtà culturale, espressamente
complessa, che può essere analizzata e interpretata in prospettive molteplici e
complementari38.
____
35. Cfr.
Platone, Gorgia, trad. it. di
F. Zambardi, Bari, Laterza, 1941.
36. "Che i caratteri
poetici, ne' quali consiste l'essenza delle favole
nacquero da necessità di natura, incapace d'estrarre le forme e proprietà da' subbietti, e, in conseguenza, dovett'essere
maniera di pensare d'intieri popoli, che fussero
stati messi dentro tal necessità si natura" (G. Vico, La scienza nuova
seconda, a cura di F. Niccolini,
Bari, Laterza, 1953, p. 400).
37. "Il mito sorge
spiritualmente al di sopra del mondo delle cose ma
nelle figure e nelle immagini con le quali esso sostituisce questo mondo, esso
non vede che un'altra forma di materialismo e di legame con le cose" (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, cit. II,
p. 34).
2.4. Il rito.
Abbiamo visto come il mito sia direttamente legato
alla sua "attualizzazione", cioè al rito, entrambi momenti di una medesima attività
psichica39, poiché le figurazioni mitiche diventano reali solo nel
rito40 (il mito vive nel rito) e senza l'operazione archetipica
del mito il rito religioso non esiste, inoltre la ricchezza acquisita nel rito
si traduce in nuove figurazioni mitiche in una dimensione sincronica e
diacronica.
_____
39. L'antropologia culturale si pone il problema
della priorità del mito sul rito e viceversa riuscendo a dare risposte
soddisfacenti solo quando i due elementi vengono visti
come prodotti psichici. Cfr. C. Levi-Strauss, L'uomo nudo, trad. it. di E. Lucarelli,
Milano, Il Saggiatore, 1974; Idem, Antropologia strutturale, trad. it, di S. Moravia, ivi, q978; E. Durkheim,
Le forme elementari della vita religiosa, cit.
40. "Il rito non è semplice
rappresentazione di un evento, ma l'evento stesso e il suo diretto
compiersi" (E. Cassirer, Filosofia delle
forme simboliche, cit.,
II, p. 58).
Il rapporto religioso richiede una serie di azioni ferme e precise che devono ripetersi, non solo per
il particolare valore che, come vedremo ha la ripetizione, ma anche perché solo
esse come modelli di azioni primordiali o date dalla tradizione, assicurano
l'apertura alla divinità. Si hanno così gli atti rituali specifici del culto
che sono descritti nella liturgia di ogni religione.
L'atto rituale ha alla base quel comportamento umano
che chiamiamo abituale. Esso riproduce atti efficienti ed essenziali che
costituiscono un substrato importantissimo a livello individuale e collettivo,
sia per l'economia di energia, che per dare sicurezza
contro l'infinitudine delle possibilità dell'azione,
ma anche per permettere l'innesto di azioni nuove e importanti. Si coglie
l'effetto psicologico dell'atto rituale se lo si
rapporta con l'atto tecnico, che ha solo uno scopo, mentre l'altro ha sempre
"un elemento significativo o simbolico"41.
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Questo comportamento nel contesto
sociale diventa un agire istituzionalizzato, come una traccia sul cammino
dell'uomo, che dal passato dà sicurezza al presente e promessa al futuro.
Diventa una norma della comunità, vive con essa,
integrandosi di nuovi elementi, complicandosi e trasformandosi in usanza
assicurata dalla tradizione. Creata dalla comunità l'usanza o rito costituisce
il legame del gruppo, ne accompagna i momenti
salienti. Ogni evento importante ha infatti un
rituale, che è come uno "strato protettivo intorno all'avvenimento",
un'azione che circonda l'azione di cui l'uomo vuole assicurarsi la
realizzazione42.
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42. Cfr. C. Verhoeven,
op. cit., pp. 54-60.
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Comunemente la parola rito o rituale si riferisce solo
al comportamento religioso, ma noi ne abbiamo voluto
sottolineare l'origine primaria, seguendo la linea lungo la quale ci stiamo
muovendo, di considerare cioè il comportamento religioso come una categoria
elementare umana. Nel campo religioso il rito infatti
conserva tutti gli elementi di qualsiasi rituale, acquista però un'importanza
sacrale per le caratteristiche che individueremo. Seguiamo per prima la
riflessione di L. Pinkus
che va alle origini psicodinamiche dell'atto rituale,
considerandolo uno spazio protetto che la comunità si crea, ove ripetere
l'esperienza positiva fatta precedentemente, dove
"i desideri, le speranze, i drammi fondamentali dell'essere umano vengono
agiti, dove si ricercano risposte, dove soprattutto [...] viene vissuta l'esperienza di maturazione e di
trasformazione della coscienza religiosa. In questo senso i riti sono
l'espressione della dinamica evolutiva o involutiva
della coscienza religiosa di un determinato gruppo"43.
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Il rituale religioso serve per preparare
l'avvenimento importante dell'uomo che accede al
divino. La ripetitività assicura che tutto si realizzi come avvenuto precedentemente, predispone alla concentrazione, quindi
all'apertura, crea l'atmosfera, dà forza. L'evento religioso ha bisogno di azioni significative e simboliche.
Il rito sacro corre però il
pericolo di scontrarsi con i processi abitudinari che addormentano o
distruggono l'adesione, inoltre, poiché diversamente dagli altri rituali questo
tipo di rito richiede cieca obbedienza, tende ad annullare la libertà
individuale. Il sociologo francese Gabriel Le Bras ha studiato l'ambivalenza del rapporto tra "la
religione e la pratica", dimostrando che se è vero che il meccanismo che
si instaura nella pratica religiosa contribuisce a far perdere la genuinità
all'atto religioso, anche "i gesti del culto" possono "suscitare
la fede". Comunque il rito religioso, essendo
"un fatto essenzialmente collettivo" che assicura ed esprime
l'identità etnica, lega "un popolo al
suo costume", è protetto dalla stessa comunità che esercita una sorta di
"sorveglianza costante"
con le sanzioni sociali, "il biasimo silenzioso, il sospetto morale"44.
Il sincretismo magico-folclorico-religioso
del rito nasce dalla centralità ed essenzialità sociale di questo
comportamento, in cui il gruppo convoglia le modalità essenziali della propria
realtà. Solo l'adesione intima in questo caso stabilisce, come abbiamo detto,
quando l'atto è religioso e quando è magico o folclorico.
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I riti per la loro essenziale
funzione devono essere protetti, perciò avvengono in luoghi circoscritti che
aiutano la realizzazione del rapporto col divino, al di fuori dei quali c'è il
completamente profano, e nei quali il sacro viene a contatto col profano; si
inquadrano in un contesto particolare, la festa45, durante la quale
ci si astiene dal lavoro, si indossano abiti diversi, si compiono azioni
particolari.
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3. Religione e società.
Il rapporto religioso, essendo essenzialmente un rapporto sociale, cresce e si trasforma insieme alla società
in cui si realizza.
Nella società infatti l'uomo
deposita i modelli comportamentali che costituiscono il patrimonio
storico-culturale del gruppo che egli stesso rinnova e ricrea continuamente.
Quel processo di trascendenza, che abbiamo visto operare a livello individuale si socializza ed il compimento umano diventa
compimento sociale, per cui c'è chi ha parlato di una "dimensione
religiosa della cultura" con "un potenziale che possiamo chiamare
utopico, rivoluzionario, innovatore [...], ma che esplica una funzione
insostituibile per la trasformazione umana dei processi di cambiamento
sociale"46. Nello stesso tempo il modello religioso, che si instaura nella società, assicurando col suo andare
ciclico e ritmico la essenziale regolarità della vita sociale, permette ed
agevola i processi trasformativi.
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La relazione uomo-religione-societá
è un paradigma sociologico, ove il religioso se è in rapporto di
priorità sul sociale nello stesso tempo vive e modifica le sue espressioni
nella società non senza che lo stesso contesto sociale
interagisca determinando l'evoluzione delle proprie strutture.
Nella storia religiosa di ogni
società troviamo questo processo per cui l'istituzione religiosa appare come
"un insieme in movimento" che si concretizza in forme aderenti alla
società, e mobili come può essere qualsiasi organismo vivente; ma per i
profondi processi psicodinamici che mette in essere
non può lasciarsi assorbire dai fenomeni costituendone anzi l'amalgama47.
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47. Cfr.
K. Rahner, V. Ranke-Heinemann,
N. Greinacher, Chiesa, uomo, società, Brescia,
Morcelliana, 1970. La concezione della religione che,
come istituzione influenza il comportamento sociale specie nella sfera
dell'economia e della politica, è legata agli studi di E.
Troeltsch (Le dottrine sociali delle chiese e dei
gruppi cristiani, trad. it. di
Sanna, Firenze 1969) e M. Weber (Economia e
società, trad. it. di P.
Rossi, Milano, Comunità, 1961).
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Anche la storia delle religioni dimostra questa essenziale malleabilità alla società della vita
religiosa che in essa si esplica e che si qualifica come sistema di pensiero
che si attualizza e quindi che presiede alle forme sociali, le guida con norme
e valori.
Nell'attuazione del modello religioso la collettività
si dispone come in una sorta di scala con comportamenti che sviluppano
tradiscono o deformano lo stesso modello, rispondendo a forze istintuali,
sociali o storiche. Comprendiamo la forte incidenza della collettività nel
determinare i cambiamenti nel comportamento religioso, se consideriamo che il comportamento collettivo può raggiungere i piani profondi
della costituzione dell'essere, dove emerge la spontaneità. L'adesione emozionale
collettiva, provocata dall'atto religioso, determina un momento di essenziale debolezza razionale, durante il quale si
instaurano atteggiamenti inconsci anche paradossali, che o elaborano elementi
culturali preesistenti o, li condensano, comunque li consolidano fortemente,
divenendo costumi di vita. É questo il processo attraverso il quale la
tradizione entra prepotentemente nell'atto religioso e siccome, tutto avviene a
livelli inconsci e primari, con altissimi gradi di incisività
e di amalgama, specie se meno forti sono le resistenze all'apertura emozionale,
è difficile l'individuazione degli elementi allotrî
introdotti nella pratica religiosa.
L'esperienza religiosa nella società diventa dunque
un fenomeno complesso, per cui deve essere regolarizzata
con norme etiche, fissata nei riti, definita nei ruoli, precisata nei
meccanismi, assicurata la ritmica ripetizione, deve cioè diventare istituzione.
Questa però per la fissità delle sue forme incontra difficoltà a seguire
l'evoluzione psichica e quella sociale, mentre la stessa ripetitività può far
subentrare processi adattivi che determinano lo
svuotamento dei simboli. Altri problemi legati alla religione
istituzionalizzata sono quelli che nascono nelle società complesse, poiché qui
è più difficile "creare spazi di esperienza per
tutti i contenuti umani" o seguire le leggi della massa, insomma dare alla
istituzione un carattere dinamico. Infatti spesso essa
resta lontana dai bisogni che hanno determinato l'atto religioso, per cui è
stato affermato che "nella istituzione il sentimento religioso si
irrigidisce e si congela" e "l'istituzione a cui ha dato luogo
sopravvive"48.
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48. Il problema del
"social and cultural lag" cioè dell'adattamento di una istituzione, che per molti
versi ha caratteri conservativi con l'evoluzione sociale, è trattato in L'adattamento della Chiesa alla società,
in K. Rahner ecc, op. cit., pp. 76-81. V. pure C. Verhoeven,
op. cit., pp. 9-10 e F. o'Dea, Sociologia delle
religioni, Bologna, pp. 145-156.
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4. Religiosità popolare
Se caliamo
l'essenziale rapporto dell'uomo con Dio nella realtà storica e gli diamo un
soggetto che lo realizza allora possiamo accedere al concetto di religiosità
intesa come la modalità, con cui si esprime concretamente una persona religiosa.
L'aggettivante popolare invece colloca quegli atti, caratterizzati da
spontaneità creativa e fortemente determinati dalla tradizione, nella
spiritualità elementare e profonda dell'uomo49.
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49. Per la problematica
terminologica v. V. Bo, La religiosità popolare, Assisi, Cittadella, pp. 13-17; D.
Sartori, Panoramica critica del dibattito
attuale sulla religiosità popolare, in AA. VV., Liturgia
e religiosità popolare, pp. 17-20; AA. VV., Dizionario
di sociologia, Alba, Paoline, 1976, s. v. Religione;
A. Sombrero e M. Squinllanciotti, Analisi di alcune categorie di lettura della religione
popolare in F. Saija (a
cura di), Questione meridionale, religione e classi subalterne, Napoli,
Guida, 1978, pp. 369-387.
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Nell'individuare le motivazioni di
fondo del comportamento religioso abbiamo visto che in esso agisce
potentemente il fattore emozionale su cui si introduce la determinazione
storico-culturale e che l'atto religioso "vive" nella società.
Abbiamo visto insomma che il comportamento religioso, essendo un comportamento primario, assorbe tutti gli elementi di cui è
ricca la complessione dell'uomo e della società, è un comportamento
essenzialmente tradizionale. Abbiamo visto anche, e la storia delle religioni
lo conferma, che l'uomo ha sentito il bisogno di proteggere o di attuare in
esperienze collettive tutte le situazioni essenziali o fortemente
emotive della propria esistenza. Inoltre ha esperito
una gamma di tentativi per porsi in relazione col divino insieme al gruppo.
Possiamo allora definire la religiosità popolare come
l'espressione dell'essenziale cammino religioso di un
gruppo, che diventa tradizione, cioè si realizza in quella struttura portante
in cui il gruppo deposita i "valori" scaturiti da quel cammino che lo
guidano nella storia50.
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Religione e tradizione vengono ad unirsi essendo la
prima la spinta verso il compimento umano, la seconda
il risultato di quel cammino, l'esito della risoluzione dei problemi
esistenziali del gruppo, la risposa al bisogno di significato. Il rapporto con
Dio di un gruppo, essendo un comportamento di base, che dà significato, è la
prima modalità a diventare tradizione e tramite essa a
fecondare anche il non religioso.
La tradizione, improntata di valori religiosi, si
qualifica come forza dinamica, perché strutturata in modo funzionale, che guida
il cammino dell'uomo, l'equivalente della spinta
istintuale che agisce nella evoluzione della specie.
Nel culto non c'è dunque unione di due elementi - religione e
tradizione - ,e neanche la loro fusione, c'è semplicemente la religiosità
attuata di una comunità, dove l'esigenza primaria - il rapporto col divino - s'è realizzata. Il culto asettico non esiste,
immaginare una serie di atti liturgici "a
parte" è un'aporia sociale. La storia delle religioni evidenzia il lento
"formarsi" del culto, il crescere sociale del rapporto uomo-Dio51.
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Quando nella comunità
la convivenza è più strettamente
relazionale, quando la consistenza sociale è più compatta e gli archetipi culturali sono
ben definiti allora si determina unità di comportamento. Quando invece una
comunità passa a forme sociali più organizzate e complesse e numericamente crescenti,
quando in questo gruppo si introducono forme culturali non prodotte
autonomamente o forme divergenti come quelle della massificazione, allora il
culto perde la propria compattezza e si formano e affiorano le stratificazioni
cultuali.
La religiosità popolare appare come una stratificazione quando il gruppo sociale non è più compatto,
dove l'aggettivante "popolare" non indica una parte della società,
magari distinta da un'altra, come due schieramenti antitetici, ma indica che
quella stratificazione orizzontale (caratterizzata da spontaneità, creatività e
tradizionalità), interferendo con l'asse
paradigmatico delle differenziazioni culturali, determina sull'ascissa una
varietà di risultati in cui le caratteristiche della religiosità popolare sono
presenti in vario modo. In altre parole in una società complessa la religiosità
popolare è quel prodotto di base che emerge con caratteri propri52. D'altronde gli strati più maturi della società introiettano
nella tradizione più facilmente elementi di cambiamento, là dove invece ci sono
debolezza culturale e forme elementari di spiritualità questa conserva maggiore
solidità. L'istituzione religiosa diventa una struttura che lo stesso
gruppo si crea e che ha la medesima funzione nerbo-guidante che abbiamo
individuato nella tradizione.
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52. Gli studi storici hanno
messo in risalto che i fatti religiosi hanno nel loro fondo qualche cosa di
popolare. F. A. Isambert, studioso di etno-storia, afferma:
"Une masse d'historiensse sont aperçu que les
faits religieux qu'ils étudiaent avaient quelque
chose de popoulaire" (Le sens du sacré, Paris,
Les editions de Minuit, 1982, p. 13). Questo
problema, emerso dagli studi che dal 1970 si erano tenuti in Francia sulla
Religiosità popolare, fu oggetto di particolare attenzione in seno al Congresso
Internazionale tenuto a Parigi nel 1977 dal CNRS.
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Raul Manselli ha
individuato nella pietà popolare del Medio Evo i caratteri della
religiosità popolare che possiamo assumere perché sono gli elementi della
religiosità di base e perché sono presenti in tutta la vasta gamma della
tipologia della religiosità popolare. Essa si esprime in forme semplici ed elementari,
aperte a sentimenti immediati, legati al passato e comunque
in forme che si riallacciano a esperienze precedenti; forme che curano gli
atteggiamenti esteriori e verbali, che coinvolgono interamente la collettività;
è una religiosità ansiosa, allusiva, che accetta il miracolo e tende alla
immediata esaltazione. Nella sfera colta invece la religiosità è più sobria, più
intima, più controllata criticamente53.
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53. R. Manselli,
La religiosità popolare nel Medio Evo, Torino, Giappichelli,
1974; W. Schmidt ha messo
in risalto il progressivo passaggio a forme più interiori di religiosità in Manuale di storia comparata delle religioni, Brescia, 1933. Le espressioni
caratteristiche della religiosità popolare sono state analizzate da A. M. Di
Nola, Aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna, Torino, 1976 e V. Lanternari,
La grande festa, Bari, Dedalo, 1976. Per una tipologia
della vasta gamma delle manifestazioni di religiosità popolare pur tenendo
presente le differenziazioni culturali v. C. Valenziano, Sulla religiosità
popolare: osservazioni per una tipologia nelle culture cristiane, in
"Vita monastica", n. 132 (1978), pp. 74-96.
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Se consideriamo
la religiosità popolare come il porsi dell'anima semplice in rapporto con Dio - non una religione in tono minore o
deviante, ma un tipo di religiosità - non
solo si chiariscono tutte le manifestazioni individuate, ma scompare anche la
pretesa subalternità, perché quegli elementi e quegli atti, che si indicano
come tipici della religiosità popolare, rispondono ad esigenze precise
dell'anima semplice, manifestazioni dell'immaturità spirituale di chi le
esprime. Allora anche il folclore può acquisire valore religioso, se dietro ad
un qualsiasi atto folclorico c'è l'adesione propria
del rapporto religioso. L'accentuato tradizionalismo, mentre è spiegato dal fatto
che dà sicurezza e chiarisce perché la religiosità popolare subisce profonde
differenziazioni locali, spiega l'eccessiva ritualità - emulando il rito la fissità del
tradizionale - o le forme essenzialmente
collettive, essendo la tradizione un prodotto sociale.
Si comprende allora che la "religiosità popolare
non è una categoria, non è un concetto rigido, che noi vogliamo calcare sulla
realtà: la vita religiosa, nel concreto suo muoversi, è così varia e profonda
che non soffre alcuna schematizzazione, alcuna
riduzione sociologica o strutturalistica"54.
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Il fenomeno della
religiosità popolare è sempre esistito, su di esso si
è indirizzata l'attenzione degli studiosi, quando, s'è visto, che il
comportamento del popolo resisteva ai mutamenti epocali e quando la
deprivazione spirituale della società tecnologica ha fatto emergere la valenza
spirituale di quelle forme di religiosità più genuine.
Contemporaneamente la maggiore maturità delle scienze
umane ha permesso di studiare con mezzi nuovi anche metodologici il
comportamento religioso del popolo, dando un contributo notevolissimo alla
stessa religione. Particolarmente l'indagine storica è stata feconda di
risultati55. Vale la pena citare i fruttuosi studi sulla "pietà
popolare" nel Medio Evo, che hanno permesso di conquistare categorie e
tratti fondamentali del vasto campo della "cultura popolare"56.
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56. Gli studi sulla pietà
popolare del Medio Evo hanno portato alla luce "il grande assente",
permettendo una vera e propria scoperta del secolo. Valgono per tutte le
indagini di E. Delaruelle,
che, come dice André Vauchez
nella prefazione al volume citato che contiene molti saggi, "ha dato
dignità storica allo studio delle manifestazioni della pietà popolare", p.
XVI; v. pure la feconda analisi di A: Ja. Gurevic, Contadini e santi. Problemi
della cultura popolare nel Medioevo, Torino, Einaudi, 1986.
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Vogliamo porre termine a questo nostro contributo
riprendendo una delle motivazioni indicate come causa dell'interesse alla
religiosità popolare e cioè la ricerca del sacro nella
società contemporanea. Dinanzi agli esiti fallimentari dei prodotti della
razionalità scientifica e tecnologica si scopre che la costruzione dell'uomo è
edificazione spirituale e che la razionalità è una forza
distruttiva se non fecondata dallo spirito che cresce nella tensione verso il
sacro.
Lo studio della religiosità popolare, che è lo studio di una
storia profonda in cui si esprime l'uomo nudo, solo a contatto con Dio,
permette di scoprire l'animus religioso che si agita nel vasto e magmoso ambito della memoria popolare, e di individuare in
tutti gli starti dell'esistenza quel nucleo di verità che, al
di là di ogni esteriore
paludamento, esprime la tensione dell'uomo verso Dio. Si ha allora la conferma
che la vita umana può essere costruita a tutti i livelli. Si ha una guida ad
andare oltre la bruta "corteccia" alla ricerca del "vero"
di ognuno, dove preme quella forza che dal passato porta al presente, in una lenta, ma sicura, ascesa del fenomeno umano verso la
conquista di tutto ciò che è a lui consono e possibile.
La religiosità popolare permette, se la si guarda da una prospettiva corretta, di analizzare il
rapporto uomo-Dio con un cammino kantiano, partendo cioè dall'uomo come membro
di una comunità e di scoprire il significato che Cristo ha dato alla concreta
vicenda umana, poiché solo in essa l'uomo può, consumando il bagaglio di
"natura" risorgere nella nuova realtà spirituale, figlio di Dio.
.
Approfondimento Gli studi sulla religiosità popolare L'attenzione al comportamento popolare iniziò in chiave
negativa con -------- 57. Cfr. V. Bo, op. cit., p. 5 e in particolare le pagine pp. 52-56 che
contengono un’esemplificazione del dualismo cresciuto e consolidatosi in seno
alla Chiesa. -------- Nello stesso tempo si diffondeva, favorita dalla scoperta dei popoli fuori della civiltà europea, un
interesse positivo per la religione del popolo, in
cui, pur se di queste attiravano le forme folcloriche,
si scopriva un valore da portar fuori, ma che inizialmente sfociò in studi
condotti in modo acritico. Solo con l'Illuminismo iniziò l'analisi critica del
comportamento religioso che considerò superstizioni molti atti cultuali e che
spinse la reazione romantica a ricercare i valori del comportamento popolare. L'approccio scientifico vero e proprio fu dato dalle scienze positive prima con Comte58, poi con Tylor59
e Spencer60 che considerarono il comportamento religioso un fatto
psicologico dovuto a mentalità primitiva. -------- 59. E. B. Tylor
pone l'animismo alla base di tutta la cultura e la
civiltà primitiva (Il concetto di cultura, Torino Einaudi,
1970). 60. H. Spenser, allievo di Darwin introduce la religione nel
processo evolutivo (Principi di sociologia, Torino, Utet, 1970). --------- Un altro passo avanti fu dato dalla scuola sociologica francese
di Durkheim, che sottolineò
gli aspetti collettivi del comportamento religioso e considerò la religione
popolare come un insieme di pratiche che operano in un ambito in cui il
comportamento religioso non è organizzato61. L'indirizzo
sociologico con M. Weber62 si interessò
anche delle espressioni etiche dei popoli, sottolineando come l'ordine
sociale ha bisogno di poggiarsi su fondamenti stabiliti che sono dati dal
sacro e dalla tradizione, con Le Bras mise in
relazione il comportamento religioso con quello folclorico63.
Quando nacque la classe operaia ci si interessò del
processo di secolarizzazione64. ---------- 61. E. Durkheim,
Le forme elementari della vita religiosa, cit. Il sociologo francese sul n. 2 della rivista
"Année sociologique" aveva affermato:"il y a dans toute
societé, des croyance et des pratriques éparses individuelles aù locales, qui
ne sont intégrée dans aucun système déterminé" p. 1. Fin
dall'ottavo numero la rivista, ad opera del
direttore Henri Hubert,
prese il titolo di "Legendes croyances et pratiques populaires" dove
"peuple" ha significato di gruppo locale,
per cui quando le pratiche del popolo coincidono con quelle della Chiesa cade
l'aggettivante "popolare". F. A. Isamberta chiama Hubert "théoricien de la religion populaire" sottolineando
che 63. La vasta inchiesta
di Gabriel Le Bras, un questionario inviato ai
prefetti in cui si chiedeva di elencare una serie di costumi in relazione al
comportamento religioso, scoprì nel popolo una vitalità ed un fondo di
religiosità che andava molto più in là del cattolicesimo canonico (cfr. G. Le Bras, Studi di sociologia
religiosa, cit., pp.
29-175). 64. La concezione evoluzionistica, che
considera la religione un fenomeno primitivo dello sviluppo psichico
dell'essere umano, rappresenta il processo di secolarizzazione come
l'inevitabile declino di ogni atto definito
religioso fino alla completa scomparsa in uno stadio di assoluta razionalità.
Cfr. S. S. Acquaviva e G. Grumelli, Secolarizzazione,
Bologna, Il Mulino, 1973; R. Caporale, e A. Grumelli, Religione e ateismo
nelle società secolarizzate. Aspetti e problemi della
cultura della non credenza, Bologna, 1973; S. S.
Acquaviva, L'eclissi del sacro nella civiltà
industriale, Milano, Comunità, 1975. ---------- L'indagine sociologica apriva alla religiosità popolare
l'analisi antropologica che ha permesso di penetrare nel sottofondo dei
comportamenti religiosi del popolo e di scoprirne la concezione del mondo, la
religiosità di fondo e la vitalità creativa.
L'indagine storica ha cercato di risalire alle origini dei riti. In Italia
chi per prima ha condotto la ricerca in chiave storica
è
stato
Renato Pettazzoni che si pose il problema
dell'evoluzione del pensiero religioso65. ----------- 65. Cfr. R. Pettazzoni, Italia religiosa, Bari, Laterza. La sua rivalutazione del mito come "storia
vera perché storia sacra" si poggia sulla
concezione che "il pensiero umano è mitico e logico insieme" e
quindi prodotto storico; Idem, Miti e leggende, Torino, Utet, 1963, pp. X-XIII. ----------- In Francia M. Bloch, usando la storia
per spiegare il comportamento popolare, dimostra come dalla storia comparata
si può giungere alla conoscenza della mentalità degli uomini del passato, "di quella psicologia retrospettiva che
è la stessa sostanza della storia"66; insieme a L. Febvre porta la storiografia
francese all'avanguardia acquisendo agli studi storici definitivamente il
dato popolare e collettivo. La scuola francese insomma sposta il fascio
d'indagine all'intero quadro che è dietro il fatto, al contesto
sociale che l'ha prodotto e che è il solo capace di dare chiarezza. In questo
contesto il comportamento religioso e popolare
occupa un posto importante. Tra gli altri studiosi bisogna citare Raul Manselli che mette in evidenza i
problemi culturali che interferiscono nei due sistemi - popolare e ufficiale
- che non sono insiemi separati, ma due strutture in connessione con
distinzioni solo culturali67. Gli studi tedeschi - maggiore
rappresentante è Schnürer - danno alla parola
“popolare” il significato di uomini presi
collettivamente in rapporto alle istituzioni e agli uomini che le rappresentano. --------- 67. Cfr. R. Manselli, La religione popolare, cit. Sullo stesso
piano è J. Le Goff (Culture ecclesiatique et culture folklorique au Moyen Age in Ricerche
storiche ed economiche in memoria di C. Barbagallo,
L. De Rosa, Napoli, 1970, v. II),
mentre J. G. Schmitt afferma che il criterio di
differenziazione è doppio: culturale e sociale (Le sant
lévrier, saint Giunefort guerrieur d'enfants depuis le XIII siécle, Paris, Flammerion,
1974). ---------- Altro campo indagato è quello dei movimenti dissidenti dove la
religione popolare non è più un insieme fatto di credenze e di costumi, ma un
movimento di opposizione politico-religioso, una
rivolta paesana e un'eresia68. In Italia le tradizioni popolari restavano fuori degli studi.
Spetta a Pitré l'aver posto per primo, a cavallo
del secolo, con precisione scientifica i complessi problemi delle tradizioni
popolari69. --------- 68. E. Delaruelle
indagò le manifestazioni collettive del Medio Evo non vedendovi
un'opposizione con "l'eglise sauvant" (op. cit.). Anche
Norman Cehn ha studiato
questi movimenti rilevando il carattere limitato di queste insurrezioni (The
Pursiut of millennium,
Londres, 1957). In Italia V. Lanternari
ha condotto uno studio comparato sulle forme profetiche messianiche e
millenariste che si sviluppano in situazioni di dipendenza. ---------- Lo studio del comportamento popolare fu affrontato in campo
laico da Antonio Gramsci che si rifece ad
un'affermazione marxiana secondo la quale "la miseria religiosa è per un
lato l'espressione della miseria reale e per l'altro la protesta contro la
miseria reale"70. Per il teorico del marxismo italiano il folclore è una non elaborata e sistematica
"concezione del mondo e della vita" che appartiene a quegli strati
della società non colta, costituita da elementi non solo stratificati in
gradi diversi di grossolanità, ma "giustapposti" tali da formare
"un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo
che si sono succedute, delle quali nel folclore sono rimasti i documenti
futili e contaminati". Questo "dominio popolare" trasforma
persino la scienza in folclore per cui realmente
esso appare "un riflesso della condizione di vita culturale del
popolo". Anche la religione subisce la stessa
trasformazione, diventa folclore solo che per questa, essendo "elaborata
e sistemata" dagli intellettuali e dalla gerarchia ecclesiastica, si
pongono problemi diversi, che sono di convenienza a mantenere certe
situazioni. Questo immenso deposito determina la morale del popolo
caratterizzata da forti imperativi, molti costituiscono strati fossilizzati
di condizioni di vita passata, altri sono nati da concezioni più aperte in
contraddizione o diversi dalla morale degli strati dirigenti. Il folclore,
quindi, è una cosa "molto seria" di cui il popolo dovrebbe prendere
coscienza così che possa nascere nelle grandi masse popolari una
"cultura popolare" che sarebbe "il
folclore filosofico"71. ----------- 70. K. Marx, Dialettica
dell'individuo e dello Stato, in Feuerbach,
Marx, Engels, Materialismo dialettico e materialismo storico a cura di C.
Fabro, Brescia, --------- La riflessione gramsciana ha dato
luogo ad una serie di studi che hanno inteso riscontrare in una specie di
lavoro sul campo le intuizioni del maestro. Caposcuola di questa corrente è
Ernesto De Martino, lontano allievo dei Pettazzoni,
che analizza le forme più popolari della religione e
le considera modi di resistenza culturale e politica alla classe dominante,
ma nello stesso tempo forme irrazionali, mettendo in evidenza una sostanziale
contraddittorietà, la stessa del concetto gramsciano72. ---------- 72. Cfr. E.
De Martino, Intorno ad una storia del mondo popolare subalterno,
in "Società", 1949; Idem, Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 1983 (1959); Idem, Morte e pianto rituale
nel mondo antico, Torino, Einaudi, 1958; Idem, La
terra del rimorso, Milano, 1961. Il nesso tra religione e società,
proprio della scuola marxiana, è il punto di arrivo
della ricerca demartiniana volta al mondo della
tradizione. L'etnologo sardo, partito con l'intento di una "radicare
riforma" metodologica d'impronta crociana del
"sapere etnologico", accogliendo istanze
antropologiche e sociologiche e le tematiche esistenzialistiche, era sfociato
infatti nel marxismo, di cui poi avvertirà l'intima contraddizione a spiegare
i problemi del comportamento religioso quando scoprirà nei fenomeni che
studiava l'elemento psicologico per cui più volte sottolineerà i pericoli
connessi allo studio dei fatti folclorici (Storia
e folclore, in "Società", 10 (1954). ----------- Sulla medesima linea sono A. Cirese, L. C. Lombardi Satriani, C. Gallini, A. Rossi e A. Di Nola che hanno determinato una
positiva evoluzione degli studi sul comportamento religioso, ma sono rimasti
troppo legati alla concezione gramsciana,
chiaramente sconfessata dalla evoluzione della società, e quando hanno voluto
affrontare la difficile materia del "popolare" da diverse
angolazioni, anche facendo ricorso a nuove metodologie, allora hanno
dimostrato la carenza di una impostazione troppo ideologicamente rigida. Tra
questi contributi quello del Lanternari si
qualifica per aver posto la religione popolare nella
prospettiva di tutta la storia dell'uomo73. --------- 73. V. Lanternari
ne La grande festa (Milano, 1959) conduce
un'analisi comparata dei fenomeni etno-culturali,
in Movimenti religiosi di libertà e salvezza dei popolo oppressi (Milano,
1960), studia i significati delle componenti religiose all'interno delle
popolazioni. Cfr. anche La
religione popolare e il dilemma della scienza demonologica,
in AA. VV., Demonologia e folclore. Studi in
memoria di G. Cocchiara, Palermo, Flaccovio, 1974. ---------- Un accenno a parte merita il Di Nola che si è impegnato in una
critica costruttiva degli studi sulla religiosità popolare "mortificati
in un processo di cristallizzazione esegetica",
ha postulato la necessità di "nuovi strumenti interpretativi" per
affrontare la difficile materia del popolare, poiché ogni ricerca deve tener
presente la sostanza storica in cui opera, le diversificazioni e i mutamenti
avvenuti nella realtà soggetta ad esame, nella chiarificazione storica dei
semantemi. L'opera del Di Nola ha contribuito a
scindere la forzosa riduzione della religiosità popolare a folclore e l'altra
di folclore come protesta e ad inquadrare il comportamento popolare nella più
varia e viva realtà in cui vive il popolo, per cui lo studio di questo comportamento
non può essere scisso dal contributo di altre discipline74. --------- 74. Cfr. A.
M. Di Nola, Varietà degli oggetti della cultura subalterna
religiosa del Meridione, in AA. VV., Questione
Meridionale e religione e classi subalterne a cura di F. Saija, cit. pp. 35-59; Idem,
Antropologia religiosa, Firenze, Vallecchie,
1974; Idem, Gli aspetti magico-religiosi di una
cultura subalterna, Torino, Boringhieri, 1976. ---------- Gli studi sulla religiosità popolare sul versante ecclesiastico
sono stati affrontati solo in seguito alla spinta marxisto-gramsciana. "La spinta
determinata in questa direzione è provocata dalle scosse, dai
problemi, dalle tensioni verificatesi all'interno della Chiesa durante e dopo
il Vaticano II che hanno indotto gli storici e i sociologi ad accordare una
crescente attenzione alla "storia delle mentalità, vale a dire a sapere
non solo quello che c'era dietro le storie dei papi, dei santi, dei dottori
della Chiesa, a conoscere quello che pensavano e vivevano i semplici battezzati,
i laici, e in particolare quali erano le loro devozioni, la loro
spiritualità, la loro cultura religiosa, ma soprattutto ad accertare come
ogni gruppo sociale riceve e traduce nella propria vita il messaggio
evangelico in ogni regione geografica e in tutte le diversità locali75. ----------- 75. V. Bo, op.
cit., pp. 57-58. ----------- Il Vaticano II ha acquisito al cristianesimo
"tutto l'arco dell'umano" con una nuova impostazione del rapporto
chiesa-mondo che tenesse presente il fondo religioso
dell'uomo al di fuori di ogni veste esteriore. La realtà religiosa è vista come una realtà dinamica, che postula un continuo evolversi verso
forme più alte di religiosità, in questo spazio entra la religiosità
popolare, la cui spontaneità creatrice arricchisce il senso religioso76. Per il mondo cattolico la religione
popolare è "l'espressione religiosa propria della massa della
popolazione in quanto distinta dalla minoranza coltivata culturalmente e
religiosamente [...] che nasce e permane in modo
meno marginale a quanto è istituzionalizzato e ufficiale"77. ----------- 76. Cfr. L. Sartori, Religiosità
popolare e teologia. Indicazioni per una fondazione teologica, in AA. VV., Ricerche sulla religiosità popolare, Bologna Dheoniane, 1979, pp. 21- 77. R. Fabris, La religiosità popolare nel nuovo testamento:
S. Paolo e Atti, in AA. VV., op. cit., p. 71 e sgg. ------------ La scuola cattolica tende a trasformare la religiosità popolare
in fatto antropologico e quindi umano, in cui il concetto di popolo
necessariamente si allarga, e religiosità è modalità dell'uomo che chiede
senso ad ogni cosa. Religiosità popolare è espressione della coscienza
religiosa, linguaggio religioso e popolare, inteso nell'accezione di
"antropologico per eccellenza [...] come l'analogatum princeps", "ciò che ha radici profonde negli
usi e nei costumi di una comunità, ciò che è nato e si conserva proprio
perché aderente a fattori ambientali; è popolare ciò che fa riferimento a
tradizioni consolidate da tutta una storia passata, la quale viene ripresa
nel presente perché in sintonia con l'anima, con i modi di sentire e di
vedere di un gruppo solidale di persone". Questo popolare, che è
l'antropologico in un'analisi dell'atteggiamento religioso, "costituisce
anche il 'primo religioso'.
Di conseguenza la religiosità popolare dà lo schema storico di verità del
primo istituirsi del religioso in rapporto all'uomo.
In questa prospettiva la religiosità verrebbe a riconnettersi con un
originario che è precedente a tutte le religioni storiche [ ...]. E così si potrebbe scoprire attraverso la religiosità
popolare come una religione nasce da un substrato più ampio fondatamente
popolare". Religiosità legata a questo concetto di popolare
significherebbe manifestazione di atti che si riferiscono
al divino dove questo divino può essere più o meno presente, ma non assente e
dove a questo divino sono attribuiti aggettivazioni come straordinario,
meraviglioso, insolito, incontrollabile, divino che si manifesta secondo le
valenze dell'umano, e si esprime in vario modo; dove "il rito va assunto
come linguaggio della cultura, linguaggio privilegiato, con cui la cultura
rappresenta, esprime, comunica i suoi propri valori in un circolo antropogenetico, nella intercausalità, cioè tra uomo e
linguaggio". Quando questa espressione della
religiosità popolare contiene molto antropologico e niente sacro allora si è
nella magia78. ------------ ------------- Il maggiore rappresentante di questa scuola è Gabriele De Rosa
il continuatore di Giuseppe De Luca, il sacerdote che prima di lui aveva indagato il campo della pietà religiosa. "De
Luca", dirà di lui De Rosa, "non cerca solo i grandi spiriti; le
grandi testimonianze i vertici [...]. Egli cerca nel
cuore dei fedeli dei semplici, di "coloro che non
contano" i segni della pietà [...] cerca
al di dentro dei filoni più autentici e vivi di quella che noi chiamiamo oggi
la religiosità popolare"79. Entrambi considerano
la vita dell'uomo essenzialmente segnalata dal religioso con cui
interagiscono non solo le strutture sociali ed economiche, ma anche
l'autorità ecclesiastica. C'è insomma un continuum tra vita di pietà e vita
sociale, così la preghiera diventa una voce non solo
di un individuo, ma di una società e quindi di tutta un'epoca storica. Essa
parla di istanze sociali ed economiche, personali e
collettive deve essere interrogata da più voci perché la sua risposta non sia
unilaterale e monca o addirittura scartata dalla indagine timorosa e allora
tutta la realtà tacerà80. ------------- 79.
G. De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud,
Napoli, Guida, p. 452. 80. Ibidem. ------------- Con il De Rosa gli studi sulla
religiosità popolare portano all'indagine sulla religione vissuta da un vasto
territorio, il Mezzogiorno d'Italia, che la scuola demartiniana
aveva indagato con mastodontiche forzature, e diventano problemi della storia
religiosa e tout court della storia sociale di un ambiente storico, in cui
possono solo malamente acconciarsi "modelli" desunti da
"altre" storie e da "altre" realtà economico-sociali. "Ci aveva aiutato a capire" dirà del De Martino il De
Rosa " lo spessore culturale della mentalità sincretica,
magico-religiosa, diffusa nel Mezzogiorno, tuttavia
dubitavamo che la griglia demartiniana fosse
sufficiente a interpretare storicamente la
religiosità vissuta mancando di ogni riferimento valido agli aspetti anche
istituzionali"81. Se il campo d'indagine è lo stesso del De Martino i maggiori risultati sono del De Rosa che negli
archivi parrocchiali del Mezzogiorno scopre un ricco repertorio non destinato
alla storia; una "chiesa operante" in cui "clero, baroni,
fattucchiere, contadini, pastori e mercanti, santi vivono gli uni accanto
agli altri, tutti coinvolti in un vivo e molteplice scambio. Si toccano
aspetti e momenti di una storia sociale ricca e articolata" dominata dal
"tempo religioso" e dallo spazio religioso
in un tempo e in un luogo ove tutto era dentro -------------- 81. Ibidem, p. 466. 82. Ibidem, pp. VI-XVI. ---------- |
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