Lettura di opere letterarie 

 

La poesia di Vincenzo Maria Rippo

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L’epistolario: Lettere a Francesca

(ESI, 1988)

 

 

 

A diciotto anni dalla morte di Vincenzo Maria Rippo, quando gli studi sul poeta hanno ormai raggiunto ampiezza e maturità di risultati, viene pubblicato, a cura di Francesco D’Episcopo, uno straordinario epistolario del poeta napoletano-spoletino, Lettere a Francesca, che subito appare come un contributo essenzialmente chiarificatore del "caso Rippo".

Il D’Episcopo, uno dei più profondi conoscitori dell’opera del poeta, conscio dell’importanza dell’ope-razione, costruisce in un'articolata Introduzione di 49 pagine un necessario supporto per la lettura del carteggio soprattutto, ed è questo il contributo più rilevante, seguendone l’incrocio con le rime, ma anche individuando dinamiche spirituali e psicologiche o focalizzando componenti storiche e culturali.

L’epistolario - 19 lettere indirizzate nell’arco di cinque anni (1965-1970) ad una giovane coetanea ligure che per lungo tempo rimane sconosciuta allo stesso Rippo - ci fa cogliere in modo tangibile e vivo, perché privo di mediazione e perché procede parallelamente al canzoniere intersecandosi e divenendo tutt’uno con esso, il sotterraneo travaglio umano, momento dialettico essenziale alla sintesi poetica.

La confessione, che il D’Episcopo chiama "diario di un’inquietudine", incalzante, sicura, sofferta, ma liberatrice, favorita senz’altro dalla lontananza, dall’età e dalla maturità della confidente Francesca, permette di seguire la dinamica spirituale del giovane che riesce a rompere nel rapporto confidenziale ("non sono mai riuscito a comunicare ad un altro una briciola di me", XIV) la "vernice esteriore" (XVIII) che ci copre e a scendere nelle profondità del proprio essere ("dentro mi sento tanto diverso, disperatamente diverso", XVIII) dove più viva s’avverte l’angoscia d'essere uomo poiché bisogno inappagato e inappagabile d'infinito, sofferto richiamo religioso ("Credo ancora e più che mai [...] perché sento Dio, anche senza conoscerlo", VIII, "Io soffro per lui perché lo vorrei e non lo conosco [...] e mi è terribilmente necessario", XV).

In questo magma si coagulano tutti i paradigmi in cui si articola l'idealità adolescenziale della quale Francesca assurge a simbolo essenziale ("per me sei divenuto un simbolo: e per un sognatore un simbolo vale tutta quanta la realtà", XII).

Il rabbioso bisogno di Francesca ("Così sono corso via e mi sono rifugiato in te. E ho parlato a te con la malinconia, con la rabbia, con la speranza, con l'angoscia di questi minuti", XV; "Sei dunque dentro di me, e non so trovarti. Ma sento il bisogno di te", XIII) è l'asseverante giovanile richiesta d'ideale prima che il mondo "senza poesia" ("che finora ha visto la protesta della nostra solitudine e del nostro rifiuto", XVIII) lo distrugga e che Rippo invece salva nella poesia, la quale in tal modo viene a configurarsi come espressione della più sofferta delle umane ricerche, ma ricerca sublime e consolatoria perché richiesta e travagliato conseguimento di compimento umano. Per questo la poesia rippiana è pervasa da un complesso nerbo che un acuto critico e studioso del poeta, Mario Gabriele Giordano, ha chiamato "angoscia consolata" (Angoscia e consolazione nella poesia di Rippo In Dieci testimonianze per un poeta: Vincenzo Maria Rippo (1947-1970), "Eurocultura", 1-2, Salerno, Palladio, 1980).

Rispondendo, dunque, ad un confuso, ma profondo bisogno interiore fortunatamente privo di qualsiasi progettualità - quel gioco iniziale di scrivere ad una giovane adolescente il cui nome era apparso su un giornale si configura come l'inconscia ricerca di un necessario referente (se non fosse esistita Francesca Rippo l'avrebbe inventata) - il poeta inconsciamente ci guida alle scaturigini di un profondo sentire adolescenziale ("il mio animo è pieno d'amore, di speranza, di dolore, di fede, di paura". XIX) e inconsciamente ci spiega il miracolo di tanta grande poesia giovanile, perché è la forza e la purezza dell'animo giovanile, che s'è alimentato alla più ricca fonte dell'umanità ("sono le grandi figure dei tempi antichi, nelle quali l'umanità ha cercato idealmente - ma inutilmente - di fissare se stessa in un momento ideale d'intangibile bellezza al di fuori di un tempo marcio e corruttore, che mi fanno morire di nostalgia e di solitudine", XIV), che porta alle vette della poesia, attività essenzialmente umana costruttrice di umanità, realizzata ascesi spirituale.

Inconsciamente Rippo diventa profeta dell'uomo-poeta.

Grazie, dunque, ad un carteggio intimo, altamente suggestivo e profondamente umano, ora sappiamo - più di quanto la "parola" "confusa" possa dire - con quanta partecipazione e sofferenza Rippo abbia avvertito la terribile stupenda condizione umana e quale altissima forza liberatrice abbiano avuto per lui i suoi "poveri versi".

 

 

In "Riscontri", 3-4 (luglio-dicembre 1988)

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