Saggio
IL MONDO SPIRITUALE DI VINCENZO M.
RIPPO E
.
Gli
scritti in prosa di Vincenzo Maria Rippo, aggiuntisi
alla produzione poetica tra il 1987 e il 1989, consentono sviluppi più articolati
agli studi sul poeta napoletano-spoletino. Tenendo
presente questi nuovi apporti il nostro tentativo di inquadrare l’opera Tacito
storico1 e con essa il
significato dell’intera classicità nel mondo spirituale dell’autore avverrà
attraverso una lettura incrociata dcll’epistolario2
che per il contenuto biografico si pone come essenziale documento,
dell’operetta filosofica3 e delle liriche4, vera summa
della spiritualità rippiana.
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1. V. M. Rippo, Tacito storico in "Tempo nuovo", XXIII, 46, aprile-giugno 1989. Per i successivi riferimenti alle opere rippiane ci si limiterà al solo titolo.
2. Lettere a Francesca, introduzione e cura di F. D’Episcopo (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1988).
3. Prolegomeni ad una nuova metafisica dell’essere, in "Tempo nuovo", XXII 37, gennaio-marzo 1987, 5-35.
4. Poesie (Napoli: Istituto Editoriale del Mezzogiorno, 1970); Poesie inedite e rare, a cura di F. D’Episcopo (Bologna: Ponte Nuovo, 1984).
1. Le Lettere a Francesca2
mettono a nudo l’intensa vicenda spirituale dei
giovane poeta permettendoci di seguire l’agire della categoria rippiana "dello spirituale"6 una
modalità propria dell’uomo che pone in atto le finalità a lui immanenti. Si
coglie in esse il tormentato travaglio dell’animo che
tende verso valori eterni ed assoluti, espresso attraverso un dilacerante bisogno
di trasfigurazione. Ma emerge anche chiaramente l’operare di una costante rippiana, la lontananza-solitudine, intesa come
"filtro" del superficiale, come "accesso" alle regioni
profonde dell’io, come "luogo" delle conquiste dello spirito, che
permette cioè quella dialettica tra ragione e
sensazione che è l’essenza della realtà spirituale tesa verso l’approdo alla
Perfezione7.
Nelle Lettere echeggia tutta la
problematica rippiana che riceve dalla trama
magmatica della vicenda esistenziale intensamente vissuta vita unitaria e
conferma8.
Cominciamo col considerare in questa pagina
il profondo disagio che nasce dalla presa di coscienza di un forte scompenso
tra l’epidermica realtà esteriore, l’urgenza di autenticità
e comprensione e come tutto questo sia una modalità interiore nella quale si
fonda la sofferenza rippiana:
Ora veramente possiamo dirci tutto, possiamo parlare,
liberi, perché non siamo più due sconosciuti, ma due veri
amici. Ora tu mi esponi un problema [...] proprio
della nostra età, della tua età, e anche della mia: quando si ha voglia di
comunicare ad altri sé stessi, e il proprio bagaglio di affetti. È la
vita che irrompe [...] E non è una cosa che possiamo
sottovalutare: anzi per noi è molto, e tanto. Guarda, anch’io ho bisogno di
qualcosa: e soprattutto dì qualcosa di nuovo. e più di
qualcosa, di qualcuno o qualcuna cui potermi fondere in una specie di comunanza
di vedute e di affetti. No, io non ho occasioni per farlo […]. Ma io non sono come tanti altri. questo
è il fatto, non so della vita dei ragazzetti di provincia di buona famiglia,
della realtà t’illude sempre, delle mie conoscenze, delle ragazze che ho
incontrato. Io voglio qualcosa di più: non chi mi soddisfi, ma chi mi
COMPRENDA. Ti giuro. La superficialità della nostra vita! Quella mi spaventa.
Sarò un mistico, un sognatore, un illuso. Che so. Ma so che mi trovo a disagio e non con gli altri, ma con me
stesso. Ecco perché non ho occasioni di realizzare la mia
utopia ... E soffro terribilmente, sai, di tutto questo. ... non so
adattarmi alla mia realtà. L’INCOMUNICABILITÀ!9.
In quest’altro
passo emerge il paradigma della lontananza-solitudine che si innesta sulla situazione precedentemente individuata
permettendo a Rippo di accogliere Francesca nelle
regioni della propria interiorità:
Sto pensando che probabilmente hai ragione tu, quando dici che, in un certo senso, è meglio che noi non abitiamo
nella stessa città. Ci si può conoscere meno superficialmente ed apprezzare
meglio ... Ora mi sembra di sentirti proprio amica: nei momenti in cui posso
dire addio alla gente ... Ma sono felice di poterti
dire tutte queste cose: a un amico, questo non lo direi mai: mi sanno troppo
espansivo, loro ... Ma devi sapere che, ora che sono andati tutti a letto ...
sono terribilmente solo. Con me stesso. E con te10.
Il medesimo asse
paradigmatico
penetrando in piani più profondi fa da filtro alle deformazioni della realtà
che si disperdono "come la nebbia del primo
mattino gelato / messa in fuga lungo gli alberi marci dei colli / dall'arrivo
splendente del sole"11:
Quando non ero con nessuno, pensavo a tante cose, e vedevo tante
cose. Tutto si semplificava tra le mani. E il tramonto incendiava i minareti della
città ... Rumori senza senso di carriaggi e di automobili
... Ero solo, ed ero felice. Felice di questa povertà tanto
sognata e raggiunta in un attimo e per un attimo. La nostra povera
umanità di scatolette e di bugie mi era lontana, straniera. Mi passavano avanti
tanti volti. Di gente intravista nella folla, nella idiozia
di questa folla anonima in cui siamo sempre più tragicamente inghiottiti e
sperduti"12.
La stessa operazione di sublimazione
subisce Francesca una volta rotto il diaframma di incomunicabilità:
prima è sentita come soddisfatto approdo:
Restiamo amici. È la cosa più bella. Per tanto tempo. Per tanto tempo, sin quando potremo
parlarci così, a cuore aperto, con sincerità, con la freschezza della nostra
età. Perché tutte le altre cose. scuola, preoccupazioni, momenti in cui sembra che i lati
esteriori della vita stiano per soffocarci, contano tutte di meno. Molto di
meno13,
giunge poi a chiarirsi come simbolo:
Tu hai qualcosa di più ... : sei
quasi un simbolo di una certa età, che poi a me è cara come nessun’altra:
quella in cui sentimento e poesia e ribellione agli schemi della vita non sono
ancora scomparsi ma si fondono con tanta armonia insieme alla vita che porta
con sé problemi e sentimenti e speranze nuovi ... Perché per me sei divenuta un
simbolo e per me sognatore un simbolo vale tutta quanta la realtà stessa14.
Ora è aperta la via affinché questa lontana
confidente si trasformi in una conquista spirituale. In un momento
straordinario di grandezza e debolezza umana in cui la tensione interiore, determinata dalla
forte azione della realtà materiale (il filosofo parla di "forza"
della "sensazione" nella sua "azione critica" nei confronti
della ragione)15, sfocia in una profonda prostrazione, Francesca,
proprio come un simbolo e come il bisogno del divino, diventa qualcosa di ampio ed impreciso ma fortemente sentito e nello stesso
tempo necessario sostegno alla sofferta dialettica rippiana:
Vorrei tanto che mi aiutassi ad uscire da me stesso. Da
questo stato di abbattimento, da quest’angoscia
che mi consuma, da questa fede che mi chiude gli occhi a quanto c’è di bello, e
che mi porta a disprezzare tutto, pure l’arte, pure la speranza in un mondo più
giusto, e che mi rende dogmatico, assurdo, lamentoso ... Io invece ho bisogno
della realtà. Non voglio vivere di fantasmi. Di ombre.
Di solitudine. Io credo che la realtà è sempre infinitamente più ricca, più
bella, più semplice, più umana dell’ideale ... Importa
questa mutevole, calda realtà che può stupirci, e deluderci, ma mai stancarci. Tant’è vero che teniamo alla vita, e alle sue esperienze
più d’ogni altra cosa. Vedi. io non riesco ad
immaginarti. Tutto mi parla di te, fra le tue righe, ma tu non hai un volto. Sei dovunque, dentro di me, e non so trovarti. Ma sento il bisogno di te. ... io non credo più a nulla: per
questo credo in Dio. E odio tante favole e tante
illusioni16.
La giovane conforta il bisogno dei suo corrispondente che sente ristoro nel
"rifugiarsi" in lei e parlarle "con la malinconia, con la
rabbia, con la speranza, con l’angoscia di questi minuti"17
fino a che egli potrà riconoscere:
Ora ritrovo parte di me stesso in te, e quasi voglio
congratularmi con me stesso di questa scoperta. E
salutarti per ritrovarti ancora, per non perderti18.
Rippo, conscio che quelle lettere sono diventate
un ininterrotto dialogo con se stesso, che "pur cambiando" si ritrova
"sempre lo stesso, e sempre solo" perché il bisogno di
trasfigurazione è impresso nella sua natura, come in ogni umana natura, avverte il beneficio di Francesca, la sente
"col cuore pieno di ritmo"19. Nell’ultima lettera, perciò,
intensa e ricca più di tutte, dopo che il giovane ha avuto modo di conoscere
concretamente la sua corrispondente20, Francesca, confermata
conquista dello spirito, si staglia nella sua "atemporalità"
e "lontananza" ormai identificatasi con la "malinconia" e
la "tristezza" dei giovane, con la sua
"ricchezza umana", ma soprattutto con quella tensione verso la
perfezione che sarà simboleggiata nel canzoniere dalle tante figurazioni
femminili21.
Nelle due liriche che accompagnano la
raccolta epistolare, ove è rappresentata la parabola percorsa da Francesca,
essa è divenuta un’immagine poetica che riesce a trasformare "l’ansia di
mille oltraggi" in "profumo" che "empie la mente" e
"stordisce / in tanti sogni di malinconia" fino a diventare,
"bella di luce", consolante ideale realtà nello spasimo dell’anima
del poeta22.
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5. Diciannove lettere che vanno dall’8 gennaio del 1965 all’8 gennaio del 1970 (a tre mesi dalla morte dell’autore) con l’interruzione di oltre tre anni: dal 5 giugno 1965 al 28 dicembre 1968.
6. Prolegomeni, cit., p. 8. Rippo assegna alla categoria dello spirituale "tutto quanto ... possa essere conquistato col ragionamento e con la corrispondenza delle coscienze".
7. "È dunque la stessa Spiritualità che si pone una volta come Tesi (Ragione) e successivamente come Antitesi (Sensazione) in una sorta di dialettica..." Ibid., p. 15 n. 27.
8. Nell’epistolario s'i coglie anche una evoluzione della confessione rippiana dalle prime dodici lettere - qui il tono goliardico ha spazi confidenziali che si fanno sempre più ampi - alle ultime sette lettere, successive all’interruzione, ove la riflessione, sempre più profonda, negli ampi momenti di sofferenza interiore fa emergere l’autentica dimensione spirituale del Nostro. V. anche F. D’Episcopo, Memoria e storia, introduzione a Lettere a Francesca, cit., p. 9 e sgg.
9. Lettere, cit., pp. 70-71. Si noti come il generale tono scanzonato della prima parte dell’epistolario a cui appartiene il passo citato non impedisca questo momento di confidenza con la lontana amica. Si tenga inoltre presente che qui Rippo parlava sotto le spoglie di Franck Felici, quasi uno scandaglio nella ricerca di una corrispondenza spirituale che il giovane non riusciva a trovare nelle tante persone a lui vicine non plasmate dalla lontananza. Il motivo di questo tipo di solitudine si trova in Poesie, cit., pp. 15, 69, 93.
10. Lettere, cit., p. 64. È da considerare che questi momenti confidenziali avvengono di notte o di sera (nove volte di cui, nella seconda parte, in sette lettere su sette) o comunque quando il giovane avverte la solitudine. Il tema della notte e della sera come momenti in cui nasce la malinconia e l'angoscia, vere e proprie forme della spiritualità rippiana, è diffuso, come vedremo, nella poesia del Nostro. In Antelucana c’è la bellissima immagine della musa che consola il poeta offrendogli una rosa fuggevolmente prima che l'alba la sorprenda (Poesie, cit., p. 15. La sottolineatura è nostra).
11. Poesie, cit., p. 51.
12. Lettere, cit., p. 96. Identico tema è nella lirica Nell’attesa di un treno che non giunge nella stazione dì un surrealisia: una situazione di felice solitudine ("Ero solo, ma non infelice / come sono solo, ma non infelice, tante volte") che è il preludio all'esperienza spirituale (Poesie inedite, cit., p. 45).
13. Lettere, cit., p. 77.
14. Ibid., pp. 84-85.
15. Prolegomeni, cit., p. 16.
16. Lettere, cit., pp. 93-94.
17. Ibid., p. 94. La sottolineatura nostra pone in evidenza i sentimenti rippiani dell’esperienza spirituale.
18. Ibid., p. 96. Si consideri quanto Rippo dice circa la categoria dello spirituale (v. n. 6) dove la corrispondenza delle coscienze è vista come un mezzo per conquiste dello spirito.
19. Cfr. ibid., p. 97 e sgg.
20. L’incontro avvenne nel novembre del 1969. È da notare come Rippo, che avrebbe potuto facilmente incontrare la ragazza non l’abbia fatto subito; forse per l’inconscio bisogno di conservare con la lontanza la vanescenza di lei. Esso però contribuì a confermare l’evoluzione della giovane, nel senso detto, a causa della profonda confidenza che questa fece a lui per cui lo stesso riconoscerà in lei "una nuova Francesca" (Lettere, cit., p. 110)
21. Cfr. Lettere, cit., pp. 104-105. Per le figurazioni femminili si consideri Ora le strade non sono le stesse in Poesie, cit., pp. 68-70; e ibid., pp. 20, 21-22, 27, 30, 31-32, 34-36, 43, 45, 61.
22. Cfr. Incontro e Distacco in Lettere, cit., pp. 53 e 107.
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2. Abbiamo evidenziato l’operare della
categoria rippiana dello spirituale in un processo
interiore attraverso il quale da una situazione concreta di forte tensione,
filtrata dalla solitudine e dalla lontananza, il Nostro giunge ad un superiore
approdo spirituale.
Lo stesso tragitto segue il
poeta prima di giungere nelle plaghe serene e rarefatte delle altissime
regioni dello spirito dove l’anima, beneficamente accolta, placa il travaglioso bisogno del Puro, dell’Assoluto, del Duraturo,
del Perfetto. "Quante volte mi sono rifugiato in te / ... e tu
sempre m’hai accolto," dirà alla musa di
Antelucana23, lirica che il poeta a mo’ di epigrafe pone in apertura
all’unica opera da lui curata per la stampa.
La via per questo approdo
sono atmosfere silenti serali o notturne, di solitudini cercate e dolcemente
sofferte24.
Consideriamo la lirica Quando
non ha luce la notte…, ove, in bellissime immagini di silenzi e lontananze
il poeta ritrova quel dolce accattivante tormento interiore del quale ha
coscienza di non poter fare
a meno:
Quando non ha luce la notte, è l’ora più bella per i miei occhi stanchi. E quando io vado verso il tramonto non ho che da perdermi nella luce astrale. Quando il sole s’irradia tra i canneti io non cerco gli amici e le chitarre. Quando tu sei lontana io t’amo senza confessarlo alla mia pena. E questa malinconia che io sento rinnovellarsi ad ogni istante per le strade deserte e i viali solitari, di te mi parla, ad ogni ora, ed in suono di pianto mi confonde la voce. Tanto basti a confessarti il mio amore25. |
oppure Crepuscolo in cui Rippo dinanzi alle suggestioni serali di "lunghi
silenzi" e "penombra" - la sera è l’impalpabile momento di
domande e di stanchezza" - confessa: "l’uomo deve fare uno sforzo,
ogni giorno, / per sottrarsi al tuo fascino che è guida / all’eterno al di
dietro / delle imposte sbarrate", perché quello spasimo che lo pone al di
là della superficiale dimensione umana è la sola consolante certezza26,
quasi "voce" dell’immanente finalità dell’uomo che chiama dal fondo
di ognuno e chiede di essere ascoltata.
In Alla notte la personificazione di questo magico
momento della giornata che terge il "pianto dagli occhi" conferma la
mediazione di cui si è parlato prima27.
In L’ultima sera con Jennie,
il desiderio del poeta di "fuggire lontano" ("distendermi
oltre le strade, / a contemplare le stelle, / nella grotta di un antico
sapiente") si identifica con l’insanabile
desiderio di perfezione, che è la "speranza / di un irraggiungibile
domani"28.
Questo "dramma atemporale"
Lo sbocco supremo permesso al poeta, -
l’"arrivo splendente dei sole" di Caro compagno - , sono le immagini leggere di luce di Alla fontana
"senza che tramonti / con l’avvicendarsi dell’ore" e "aria
impalpabile", "al di fuori dei cielo consueto" mentre
"tutto si confonde nell’oro" (altrove dirà: "dove è cristallina
e perenne immobilità"); oppure è quella terra lontana che non vive
"di palpito e d’angoscia", "dove i passi sono puri / e la
beatitudine silente / nell’ammirazione stupefatta / e nel cielo che a ogni
tramonto si rinnova / e che non conosce la crudeltà del meriggio"31.
Questo placarsi che prende l’avvio da una
necessaria situazione esistenziale di sofferenza, che è
l’eternità della pena che ci costringe allo sforzo d’intenderci,e che si raggruma, nell’aria in vani propositi d’impossibili evasioni e di amori non corrisposti per l’impietosa sofferenza del poco di materia che si consuma al sole.... |
diventa per il filosofo il più alto sbocco della
razionalità umana, dopo che ci si è liberati "da quel poco di materia che
si consuma al sole"32.
Il poeta si trova così accanto al filosofo:
l’uno parla dell’anelito "ad una sempre più completa coscienza di sé"
che è poi "fattore primo della perfezione e causa stessa
dell’esistenza"33, l’altro raffigura la medesima situazione
nell’antico eremita" che guida "alla sublime purezza dei cielo" "in un affinamento spirituale" che
è "gioia incontenibile / d’avere e di dare a se stesso / senza inutili
tributi alla ragione34".
La viva esperienza spirituale, che ci
coglie nell’epistolario e che i versi esprimono in forme di purissima liricità,
trova una sistemazione teoretica nei Prolegomeni35 dove
il poeta-filosofo traccia il percorso della razionalità umana in una sorta
di dialettica tra "ragione"
e "sensazione" che è un processo spirituale di purificazione e di attuazione delle mete dello Spirito. Questo tragitto è
necessario e possibile in virtù della "Legge" come "Volontà
Immanente nella Spiritualità stessa"36 che opera nella ragione
e le assegna "un criterio di scelta tra l’adempimento dei Bene (ossia di
quanto più propriamente le concerne) e l’adempimento del Male (che è nel
soffermarsi alle semplici sensazioni), criterio di scelta che costituisce
l’eterna lotta tra il materiale e lo spirituale37". La
purificazione non può dunque prescindere dal superamento dei "piaceri
sensibili"38. Il contatto con la realtà "tragica, sporca,
disperata" è necessario. "Bisogna vivere, cioè
soffrire, inginocchiarsi, soffrire, sperare, morire"39: è
questo il difficile compito dell’uomo nel rispondere "alle norme
inappellabili della Legge"40 insita nella natura umana.
Alla fine
tutto sarà puro, e leggerai a parole di bronzo nel libro fulgente di luce, sul cielo, la tua sofferenza, e ... non avrai più nostalgia delle tue mani bagnate di speranza41. |
In queste immagini di purezza e di luce, in
cui si coglie la suprema aspirazione alla sublimazione dell’umano, c’è la
figurazione poetica dell’annullamento nella Perfezione di ogni
attività della ragione che è imperfetta e quindi la fine della esistenza che è
imperfezione. La non-esistenza coincide pertanto con la essenza
che è perfetta, e quindi perfezione, fine della esistenza, vuol dire sbocco
nella essenza cioè nel puro42.
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23. Poesie, cit., p. 15.
24. Il tema della solitudine-lontananza come assenza-presenza è esaminato da P. D. Angelini in L'assenza-presenza nel mondo poetico di V. M. Rippo, Supplemento n. V, 1, di Riscontri, 1983.
25. Poesie, cit., p. 20.
26. Ibid., cit., p. 48.
27. Ibid., p. 112. Il medesimo motivo è in Sera e Serata azzurra (ibid., pp. 29 e 31); v. pure ibid., pp. 24, 25, 33, 34, 42, 43, 48, 52, 66; e Poesie inedite, cit., pp. 53, 81, 83.
28. Ibid., pp. 21-23 (la sottolineatura è nostra).
29. Ibid., p. 21. L 'attività spirituale avviene nel tempo interiore che Rippo definisce "un succedersi temporale di attimi logici" (Prolegomeni, cit., p. 11 n. 11) cioè "un passaggio continuo in modo che non si possa fissare stabilmente in un 'essere' o un 'divenuto- (Ibid., p. 17 n. 35) che richiama la durata bergsoniana (per questo concetto v. F. D’Episcopo, Classicità e contemporaneità introduzione a Poesie inedite, cit., pp. 24-25). A questa dimensione non serve "il tempo che fugge" che è "come quei poveri brandelli di nuvole che non toccano la gioia ricorrente del mandorleto" (Poesie, cit., p. 24).
30. Cfr. rispettivamente Poesie, cit., pp. 16, 24, 17, 21; Poesie inedite, cit., p. 115; Poesie, cit., p. 21 (le sottolineature delle citazioni sono nostre). Tra le valenze simboliche che evocano l’esperienza spirituale e gli stati d’animo che l’accompagnano c’è l’azzurro che richiama la tensione trasfigurante. Per il tema dell’azzurro v. P. D. Angelini, L’"azzurro" nella poesia di Vincenzo M. Rippo (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1990).
31. Cfr. rispettivamente Poesie, cit., pp. 51, 55; Poesie inedite, cit., p. 119; Poesie, cit., p. 58. Per i temi dell’angoscia e della consolazione v. M. G. Giordano, Angoscia e consolazione nel mondo poetico del Rippo in AA. VV., "Dieci testimonianze per un poeta: V. M. Rippo (1947-1970)", a cura di F. D’Episcopo, in "Eurocultura Nuova", gennaio-dicembre, 1980, 29-51.
32. Poesie, cit., p. 24.
33. Prolegomeni, cit., p. 5.
34. Poesie, cit., pp. 56-57. 11 tema del contatto del "sapere" del filosofo con quello del poeta è sottolineato da C. Campanelli nella Postfazione ai Prolegomeni, cit., p. 29 e n. 10.
35. La corrispondenza della riflessione filosofica con le Lettere e il canzoniere dimostra lo sforzo del poeta-filosofo di prendere coscienza razionalmente della propria vicenda spirituale. Le due ultime opere evidenziano, inoltre, come vedremo, un evoluzione del pensiero rippiano confermata d’altronde dallo stesso Rippo nella Nota finale ai Prolegomeni (ibid., p. 24).
36. Prolegomeni, cit., p. 15 n. 26.
37. Ibid., p. 23.
38. Ibid.,
39. Lettere, cit., p. 103. Il filosofo parla di "azione quasi stimolante della sensazione" per permettere alla Ragione di superare "i propri limiti" (Prolegomeni, cit., p. 16).
40. Prolegomeni, cìt., p. 23.
41. Poesie inedite, cit., p. 101.
42. Cfr. Prolegomeni, cit., pp. 22-23 e passim, part. la n. 41 a p. 20. La Perfezione rippiana che richiama il brahma buddista dove si esaurisce il karman (Prolegomeni, cit., p. 23 n. 56), si collega alla perfezione bergsoniana dove ognuno coincide con la propria essenza, e dove l’assoluto è "unità semplice e tuttavia infinitamente ricca" (H. Bergson, Introduzione alla metafisica [Bari: Laterza, 1987], p. 44) e al punto di arrivo dell’ascesi mistica, la contemplatio, attraverso la cogitatio e la meditatio. Potrebbe configurarsi allora come una specie di "area" comune a conferma, nell’universalità dello spirito, di un ecumenismo rippiano.
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3. Il tragitto rippiano verso
In una bellissima pagina dell’epistolario
c’è la scoperta di questa fede come bisogno primario che vive della sua forza
essenziale, a cui Rippo giunge, dopo essersi liberato
dal Dio travisato dalla storia ("greve di secolare stanchezza")43
rientrando - anche lui come Francesco sulla strada di Spoleto - in una chiesa:
Ma se dovessi dirti che ci credo
per un’esigenza d’ordine razionale, non ti direi la verità. Ci credo, sì, ma a
modo mio, dal lato affettivo, dal lato sentimentale: le prove di Sant'Agostino
o di San Tommaso o di Sant’Anselmo ... non mi dicono
troppo. Sai, perché io verso i 16 anni ... ho avuto una profonda crisi
spirituale, e sono diventato, se non un mangiapreti, certo molto ma molto scettico. Così ho rinunciato, o quasi, alla vita dello
spirito. Ma in definitiva sono sempre rimasto un
mistico. Non vi sono sognatori - come sono io - senza Dio ... Qualche tempo fa
... ho provato una forte emozione rientrando, dopo
tanto tempo. in una chiesa. E
poi d’allora ho pensato molto, e sono stato molto combattuto, interiormente.
Una cosa terribile. E poi ho creduto. Credo ancora, e
più che mai perché sento Dio, anche senza conoscerlo. Anche senza vederlo: il
più grande miracolo non potrebbe accrescerla, la mia
fede, e neppure il più logico ragionamento filosofico sminuirla ... Ma sono un
credente a modo mio, ... io credo, e voglio avere il coraggio di dirlo, non più
di nasconderla, questa mia fede, a scadenza indeterminata44.
Questa fede, che "riceve vigore da se
stessa" perché forza dello spirito, si svela nell’interiorità di ognuno ed
è essa che deve unire su tale comune terreno l’uomo al suo simile (per il filosofo l’incontro tra gli uomini è necessario per
"sostenere lo sforzo della ragione per giungere a perfezione"45).
Tutto ciò è però un difficile "abito di
vita": "voler bene al derelitto, all’assassino, ai volti che non
sembrano aver tracce di umanità, a gente senza interessi, e via" è, dirà Rippo, "molto, molto difficile"46 perché
è difficile essere come Safouh, tanto vicino alla
povertà francescana, con la "meravigliosa semplicità" del suo cuore
"pieno di luce":
.
Uomo pio, uomo giusto, la tua fede è una meravigliosa verità che ci confonde le menti. Le tue mani erano vuote e tu davi a tutti del tuo47. |
Come la fede anche il Dio di Rippo non facilmente si trova. Egli è vicino all’umanità
che è nel fango perché lotta per la verità: "il
sapiente, il vero giusto, l’uomo, il marinaio, il compagno, il martire del
sangue"; e che da lui riceve "quella giustizia che si paga nel
cuore"48 come il Dio di san Francesco. Egli opera il
"miracolo inspiegabile" quando il semplice
saprà "la gloria dei Santi" senza essere né saggio né poeta49;
egli chiama "al di sotto / delle nostre povere carni sfruttate"50
dove la "povertà è stupore", perché è ricchezza dello spirito51.
La sua voce non è dolce, bensì angosciosa irresistibile eco contro cui lotta l’uomo con la sua materialità chiedendo misericordia:
.
Ma non ho diritto neppure alla mia domanda e nel mio cuore è la mia pena. Che si rinnova, ogni giorno, con tutta l’angoscia d’averti dinanzi, ma senza il coraggio di lottare con Te nè senza di Te, Signore. E ti sono - per sempre - lontano52. |
In una delle ultime interessantissime
pagine del suo epistolario Rippo cerca di precisare
il suo Dio, che richiama quello del santo di Assisi,
essenza indefinibile e pure chiara e presente, come indefinibile ma vera è la
realtà spirituale dell’uomo:
A me di Dio non importa. 0 meglio, importa terribilmente. Io
soffro per lui perché lo vorrei, e non lo conosco. Io credo in Dio,
disperatamente. Poveramente. Semplicemente. Perché mi è terribilmente
necessario: crederei in lui anche se sapessi che non
esiste. Quando piangevo era lui che mi consolava, e mi
parlava, mi raddolciva. Le strade erano bagnate d’acqua piovana e casa mia
m’attendeva senza parole. Ma io parlavo con lui, e lo
sentivo dappertutto: e sui volti della gente, sì, di questa povera, fragile,
stupida, egoista umanità contadina, borghese, operaia e via di seguito. Lui era
la mia speranza, il mio conforto, la mia angoscia.
Battevo sulla batteria a torso nudo, e la vecchia cantina diventava enorme, e
le pareti cambiavano colore, e la stanza cantava, gli amplificatori
ricantavano, le scatole di latta dove gettavamo le sigarette spente, cantavano.
lo mi sentivo morire dentro, e mi umiliavo nella
lucidità del sudore. E lui era dappertutto, e io
piangevo, e fuggivo, e morivo dappertutto. Ora sono solo e non l’ho trovato.
Non l’ho trovato nella Bibbia, nel Vangelo o nel Corano: perché niente lo
definisce, e lui è come lo voglio io Misterioso e bonario. Grande, indulgente,
sconosciuto. Pazzo, vendicatore, inutile, terribile, egoista, innamorato.
Disperato. Solo. Ha il colore del cielo, il rosso dello stupore. E tanti altri nomi. Dov’è, chi è, com’è, non lo so53.
Questo Dio definito a pochi mesi dalla
morte protegge il cammino umano verso la perfezione che si chiarisce come
approdo mistico. Egli porge la mano ("perché il cammino mi sia più facile
/ pur nel rincorrersi quotidiano della
pena"), assicura la pace del cuore e l’"ebbrezza" dell’ultimo
approdo, opera la suprema sintesi che "riduce ad unità"
l’"infinità problematica dei mondi" e conduce alla meta finale
"mai permettendo che sia tenebra e morte", poiché la sua perfezione è
in quella luce che è purezza54.
È chiara ora l’evoluzione del pensiero del
Nostro verso un francescanesimo mistico che risente di ampli
influssi della spiritualità orientale e giunge attraverso il pensiero bergsoniano ai moderni approdi della teologia ecumenica. La
conferma è in questo passo:
Sarebbe davvero rivoluzionario poter porre in piena luce i caratteri anticlassici e antigreci del pensiero
islamico, che capovolgono certi concetti superati dell'uomo e della vita di cui
è ancora succubo il pensiero occidentale. Fondamentale presupposto di ciò è il
concetto di "personalità", "mobilità",
"creatività" di Dio, per cui Dio non è una
astratta sostanza, un "Essere" divino, un "to
theion", ma soprattutto
"persona" ... È proprio questa finitezza pratica ... che rende profondamente l’idea dell’assoluto divino, concepito
come un dinamismo infinito. Si ha così l’idea, profondamente moderna, di un
"Dio che muta," per cui la natura è
un’abitudine, si che si giunge al concetto, che richiama un po’ quello
cattolico contemporaneo, di un universo in espansione e di una creazione
continua. Conseguenza di questo è la continua "creatività" di Dio,
tanto che non si può parlare di una definitività del
creato55.
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43. Poesie inedite, cit. p. 43.
44. Lettere, cit., pp. 73-74.
45. Prolegomeni, cit., pp. 17-19.
46. Ibid., p. 79.
47. Poesie, cit., pp. 74-75.
48. Ibid., p. 51.
49. Poesie inedite, cit., pp. 105.106.
50. Poesie, cit., p. 51.
51. Poesie inedite, cit., p. 102.
52. Poesie, cit., p. 72.
53. Lettere, cit., pp. 92-93. V. pure Poesie, cit., p. 71.
54. Cfr. rispettivamente Poesie inedite, cit., p. 82 (v. anche A te, ibid., p. 80) e p. 67; Poesie, cit., pp. 78 e 101-102.
55. Il passo di Rippo è in Classicità e contemporaneità, introduzione di F. D’Episcopo a Poesie inedite e rare, cit., p. 24. Per i rapporti del poeta con l'Islam cfr. dello stesso D’Episcopo, Rippo e l’Islam (Milano: Centro Islamico, s.d.), 7.
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4. È stato necessario far emergere dagli
scritti rippiani alcuni tratti della realtà dei Nostro per inquadrare in essa il mondo classico in cui
egli penetrava senza la mediazione della traduzione e quel Tacito che particolarmente
lo interessava56.
Nello studente dell’ultimo anno del liceo
classico che mai sopporta i limiti dell’"odiosa scuola,
ma necessaria", che alla letteratura moderna preferisce Aristofane e i lirici greci, "classico" è
sinonimo di "immortale", cioè di quella attività umana che si muove
verso categorie durature ed essenziali e che impregna la forma sensibile delle
proprie conquiste. Infatti in quell’"io
sono dedito a tutto ciò che è classico cioè immortale57",
riferito alla scuola che frequenta, non c’è solo un giudizio ma si coglie
proprio la tensione trasfigurante che fa parte della analizzata categoria rippiana. Classico per Rippo,
insomma, è ogni prodotto pertinente alla spiritualità umana.
Nelle passeggiate "sulla magnifica e
verdeggiante collina" che sovrasta la sua casa e sulla quale
è "un incantevole convento di francescani" dove gli piaceva recarsi
"a pensare a cose belle e grandi" e dove cercava di raggiungere
"quell'equilibrio "quell’equilibrio
personale che i tanto vituperati (dagli studenti) Elleni
chiamavano καγαθόυ,
il bello e il buono58" in quella pace che dà la natura e la
lontananza dal mondo o la religione intesa come riposo in Dio nei livelli
profondi della coscienza, Rippo tentava di rinnovare
l’ideale perseguito dalla classicità immettendolo in un più moderno processo
tutto a carico dell’uomo in quanto spirito.
Il mondo classico aveva realizzato
un’altissima forma dell’ascesa spirituale per cui
diventa parte integrante della ricerca rippiana. Era
lì che per la prima volta l’uomo aveva preso coscienza di quel "sé"
che permette il cammino dello spirito. Nei lirici greci Rippo
scopriva - all’inizio di quel cammino - che il dissidio umano nasce proprio dal contrasto tra l’azione del divino
nell’uomo e i limiti della individualità di ciascuno. La tragedia greca, che
vide l’uomo impegnato a definire la propria azione come risultato di un
autonomo processo interiore, invitava Rippo ad
indagare la ricca vita dell’anima alla quale i filosofi greci ("maestri
insuperati di filosofia"59) affidavano il compito di realizzare
lo sforzo dell’uomo per sollevare la propria fragilità verso ciò che è
autentico ed essenziale in un processo di perfezionamento problematico
sì, ma frutto di quello sforzo. In questo mondo Rippo
coglieva l’arditezza del pensiero che tenta il divino
e da esso mutuava le possenti figurazioni della divinità come splendore che
opera nell’uomo. Allo stesso modo gli ideali greci: il bello e il buono, il
vero e il duraturo, l’armonia, l’ordine, la misura, che, trasferiti nella humanitas romana
erano divenuti il nerbo della classicità, diventavano anche per Rippo valori universali di contro all’apparenza ingannevole
e al falso opinare. Anzi in quel continuum che il Nostro scopriva nel
mondo che era alle radici della sua sensibilità di uomo
del ventesimo secolo, egli poteva innestarsi trasformando le espressioni
spirituali a cui era giunto il mondo classico in "forme" in atto
della spiritualità che "crea" tutto ciò che serve per rispondere alle
norme della Legge60.
La spiritualità di Rippo
è radicata nella classicità, è fatta di classicità
intesa come cammino esemplare.
Diocleziano è l'ultimo degli antichi a
comprendere il valore di ciò che è semplice; perciò il mondo agreste suscitava
in lui la stessa "nostalgia" e "malinconia" rippiana ed anche lui custodirà con "intatta
poesia" un "sogno" non più possibile all’uomo del suo tempo
("il tuo sogno
non lo condivise più nessuno. / E tu fosti l'ultimo
degli antichi"). Anche per lui estremo conforto
sarà quello di isolarsi nell’ombra, che è la solitudine rippiana61.
Allo stesso modo Catullo, il poeta la cui
mente di stupefatto fanciullo dettava parole di
tenerezza per ogni piccola delicatezza della natura, è unito a Rippo dalla stessa visione meravigliata per l’armonia della
natura e dall’"angoscia", dono di chi sa calarsi nelle profondità
della vita62.
Ora si può comprendere cosa Rippo avesse scoperto nel mondo classico: quella comunanza di affetti, che libera "dallo sforzo di
intenderci", come abbiamo visto per Francesca, ma anche quegli esempi,
che, purificati per la lontananza dal caduco e dal perituro, diventano feconda
tensione all’interno della vita spirituale.
Se Teocrito gli
offre un riposo benefico in luoghi di elevata bellezza
e pace, semplici ma veri:
.
Le tue fonti vorrei le tue greggi Teocrito toccar l’acqua con le mani addormentarmi fra gli ulivi63. |
Virgilio gli addita egli stesso un mondo
fatto di povere cose che però essendo già prodotto
spirituale suscitano i sentimenti rippiani della
trasfigurazione: la malinconia e la nostalgia64. Troviamo queste
suggestioni nelle immagini georgiche di Virgiliana,
che richiamano la povera cena di Safouh o le cose
di ogni giorno che circondano la musa di Antelucana65.
Il motivo del semplice e del genuino
- divenuti privilegi spirituali - opposti alla chiassosa superficialità del
mondo con i suoi "valori di porcellana"66, conduceva Rippo verso quella piena essenzialità delle cose che bergsonianamente è il loro modo di
essere profondo la cui realizzazione può avvenire solo nella intimità
dell’essere.
Il mondo classico per Rippo
è quel mondo che vide "il sogno degli eroi", dove "gli dei sono
statue di trasparente bellezza, / nel loro amarsi perenne / tra le nitide isole
dell’arcipelago" e che è cantato sulla chitarra dalla donna lontana di Elegia67. Le sue figurazioni, operando
"negli spazi splendenti del cuore," sono
tangibile segno della superiorità delle attività dello spirito - e qui Rippo si collega ad Orazio - che rende chi vi attinge
straniero tra gli uomini comuni, ma anche capace di essere stimolo e lievito
per nuovo e diverso operare.
I racconti "di uomini
antichi e leggende", 1a favola bella dell’uomo greco"68
sono espressioni e stimolo di elevati sentimenti che affinano l’animo affinché
giunga alle sorgenti dell’umanità che la superficialità del mondo nasconde,
dove si raggiunge quella "meravigliosa solitudine" nella quale ogni
uomo può costruire quel sogno di "libertà" e "bellezza" ed
infine riposare dove ogni "errare avrà pace" "ripetendo il [tuo]
gesto caro agli dei"69.
Quando Rippo dice:
Sono le grandi figure dei tempi antichi, nelle quali
l’umanità ha cercato idealmente - e inutilmente - di fissare se stessa, in un
momento ideale d’intangibile bellezza, al di fuori di un tempo marcio e
corruttore, che mi fanno morire di nostalgia e di
solitudine: e quando leggo di quella "donna Clara ... nobilis
parentela, sed nobilior gratia; virgo cana,
mente castissima, aetate iuvencula,
sed animo cana; constans proposito, et in divino
amore ardentissima desiderio; sapientia
praedita, et humilitate praecipua: Clara
nomine, vita clarior, clarissima
moribus", mi si empiono gli occhi di lacrime,
anche se, accidenti, so che non c’è nulla, nulla o quasi di vero, in tutto
questo, e che l’umanità è sempre la stessa terribilmente squallida come me,
senza che lo scompenso tra l’idea e la realtà venga avvertito o, meglio,
seriamente avvertito. Questa terribile umanità che è valore in sé stessa e che è l’espressione più diretta della meschinità
e dell’impotenza del singolo, Francesca, io penso che bisognerebbe avere il
coraggio di combattere: non per un’ipotetica giustizia, ma per se stessi, per
la voluttà ... di perdere e di essere dimenticati70.
coglie la intima perfezione raggiunta da quella
umanità che, anche se morta storicamente, ha "conquistato certe
espressioni di bellezza che noi non possiamo raggiungere" tanto che
abbiamo la certezza che "qualcosa di proprio ed essenziale all’uomo si sia
manifestato in essi con maggior chiarezza che in noi," proprio "come
la rosa è insuperata bellezza" pur essendo inferiore rispetto ad altre
forme evolutive71.
In quel momento straordinario l’uomo ha
fissato queste forme della propria umanità "inutilmente", dice Rippo, perché ci sono tanti che non avvertono il bisogno di
quella ricerca, eppure essa non è mai finita perché è insita nella stessa
umanità. Perciò bisogna avere il coraggio di
combattere non per ipotetici valori, ma "per se stessi", per il
proprio progresso spirituale perché le conquiste non sono in virtù di uno
Spirito fagocitante; e nell’uomo c’è la possibilità di giungere nel puro e
perfetto mondo dell’essere dove la "voluttà di perdere e di essere
dimenticati" è la pienezza che nasce dalla completa adesione all’essere.
Il cammino spirituale verso la perfezione
si frantuma e realizza nella storia, perciò quando Rippo
dice:
Per me la storia di Roma è l’unica in cui si possa seguire un processo realmente armonico di ascesa, di
stasi e di decadenza. Ma è soprattutto in quelle figure di imperatori,
di generali, di matrone serie e meno serie, di liberti e di cittadini e di
"patres" che mi diverto a trovare l’uomo,
che in fondo è sempre uguale a se stesso72.
è certo di scorgere nel tempo lontano della
storia di Roma un percorso umano che dirige la trasformazione insita nelle
cose. A Rippo, dunque, interessa come l’uomo ha
risposto, nella storia, alla finalità insita nella Ragione (la "Volontà
immanente alla Ragione Pura stessa, e strutturatrice della Ragione e della coscienza"73)
nel rapporto con la materia, come ha prodotto spiritualità consentendo
all’Intelletto il conseguimento di gradi sempre più perfetti. Nella storia ci
sono, diversificati, i tratti della Legge universale,
c’è la risposta unica, particolare, irripetibile, di ognuno, con le proprie
componenti antropologiche, all’azione di quella Legge e perciò a Rippo interessano tutti gli uomini: essi sono la via per
comprendere la storia e per scoprire il segreto nascosto nell’umanità; sono l’alterità necessaria perché ognuno possa procedere verso le
proprie conquiste. Gli uomini, dice il filosofo, sono interdipendenti: unicità
che ha bisogno della pluralità; "pluralità degli
intelletti, tutti di eguale essenza e quindi della medesima Ragione, ma comunque
tra loro differenti in base alla diversa - maggiore o minore - coscienza di
sé"74. Il fatto che essi si comportino secondo modalità
inadeguate e volgari non deve portare alla fuga ma ad
una richiesta di comprensione.
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56. Diversamente da ciò che si legge nella prima parte dell'epistolario (il giovane era allora studente liceale) il Rippo universitario degli Appunti di letteratura latina "indica frequentemente se stesso come traduttore dei testi citati" (Tacito storico, cit., p. 7).
57. Lettere, cit., rispettivamente pp. 57 e 62.
58. Ibid., p. 67.
59. Prolegomeni, cit., p. 6
60. Rippo non ignorava che il tentativo di raggiungere, al di là dell'apparenza della percezione sensibile, ciò che è vero e sostanziale fu avviato contemporaneamente, oltre che in Grecia, in India e in Cina e come le diverse strade percorse dai tre movimenti spirituali si integrassero da rivelargli una sorta di ecumenismo dello spirito. Il punto di sutura tra i vari percorsi a noi pare rappresentato dalla figura dell'antico eremita o dell'antico sapiente, i quali conoscono il fascino sottile delle cose, possessori di quella saggezza antica che come un archetipo percorre tutta la tradizione classica e che sì collega alla saggezza orientale, e nei quali il Nostro riconosce la spiritualità in atto.
61. Poesie, cit., pp. 40-41.
62. Ibid., cit., pp. 16-17.
63. Ibid., cit., p. 37.
64. Non il Virgilio cortigiano che si "degrada" con l’Eneide (Lettere, cit., p. 98).
65. Cfr. rispettivamente: Poesie, cit., pp. 63-64, 74-75. 15. V. gli stessi motivi alle pp. 18-19, 61-62, 84-85.
66. Poesie inedite, cit., p. 53.
67. Poesie, cit., pp. 42 e 27.
68. Ibid., p. 66.
69. Poesie inedite, cit., pp. 110-111.
70. Lettere, cit., pp. 89-90.
71. B. Snell, La cultura greca e le origini dei pensiero europeo (Torino: Einaudi, 19632), pp. 366 e 365.
72. Lettere, cit., p. 102.
73. Prolegomeni, cit., p. 20 n. 43.
74. Ibid. p. 19.
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5. Tacito dava a Rippo
la possibilità di penetrare nell’emblematico cammino
di Roma attraverso la via maestra dell’indagine storica fatta da un uomo che
per molti versi egli sentiva vicino. Già nell’epistolario Rippo,
dicendo "parlo con Tacito, a considerare ’la burla che governa la nostra vita’ e che mi fa essere, come ben sai, così drastico e al tempo stesso scettico in campo politico"75,
indica la comune visione della vita che è alla base della sua lettura dello
storico latino76.
Rippo sente "la sua civiltà della
massa", "terribilmente squallida",
insensibile allo "scompenso tra l’idea e la realtà"77,
vicina a quella di Tacito, l’uomo "snervato da una raffinatissima ed
adulta civiltà"; come lui è scontento. Così è pure quel mondo che consuma
"folli giornate ... a tendere ai ricchi la mano" da cui Catullo si isola o quello che non capi il sogno di Diocleziano78.
Egli segue la ricerca tacitiana delle ragioni dei "degenerare di
Roma" e "delle aberrazioni dei suoi imperatori, dei suoi senatori,
dei suoi cittadini" perché comprende che nell’"interesse" e nel
"rispetto" dello storico verso il "popolo giovane potenzialmente
ricco delle nuove energie, che avrebbero dato vita
alla nuova storia, primitivo e rozzo, ma semplice e forte ... che spregiava
l’oro e la pompa della ricchezza", c’era la certezza, che era anche la
sua, che il popolo civile spesso smarrisce la propria umanità la quale è vitale
proprio nella semplicità79. Insieme a lui Rippo nei Germani scopriva una umanità ai primi stadi della
sua storia nella cui genuinità l’uomo può innestare costruzioni più vere perché
le forze che le devono alimentare non sono indebolite, dalle mollezze della
civiltà superiore80.
Gli stessi motivi e le medesime suggestioni
per la vicenda dell’uomo sono nell’Agricola dove c’è
ancora un popolo giovane e fiero che emerge per semplicità e purezza. Qui però
il quadro si arricchisce perché il popolo civile, quello romano contro cui si stagliava la diversa realtà del popolo barbaro, al di
là dei suoi prodotti negativi - l’eccessiva libertà e l’estrema servitù, ma
soprattutto quella "libido adsentandi" che
tanta parte avrà nella condanna tacitiana - esprime uomini come Agricola che
lasciano nella storia punti di riferimento validi. Si configura qui il compito
della storia che è quello di trasformare in valore assoluto "le gesta, il
pensiero e il sacrificio di un uomo finito e mortale", e si precisa il
valore degli individui che nella civiltà evoluta riescono ad assommare i valori
perduti81.
Se l’Agricola completa il disegno
individuato nella Germania, con
Rippo coglie un Tacito affascinato dall'uomo
"con la sua continua vicenda di odi, di
interessi, di eroismi, di vanità, di nobili azioni e di basse
vigliaccherie" che conferisce dignità e valore morale allo svolgersi dei
fatti e nello stesso tempo fa emergere la "legge morale universalmente
valida" che dà "alla vita intelligente sulla terra valore e
significato". Anche a lui interessa questo uomo83.
Nel mondo indagato da Tacito nelle Historiae emergono due realtà che si possono
rapportare alle due "facce" dell’uomo: da una parte c’è la vita varia
e sfarzosa, ma superficiale ed abietta delle grandi
città dall’altra quella ordinata e tranquilla delle province. Lo squilibrio tra
i due piani - Tacito è l’unico a denunciarlo nella generale approvazione di
quel tempo - può essere risolto solo con la "garanzia e la tutela"
del principe, colui che può assicurare l’azione della
razionalità nella storia84.
Negli Annales,
l’opera dell’età matura, si chiarisce lo sforzo di Tacito di cogliere nella
serie degli eventi l’eterno, l’assoluto, l’universale,
il dramma dell’uomo che è il "dramma della vita e del pensare85".
Questa analisi, che conclude la ricerca tacitiana,
porta lo storico a scoprire una legge interna alle cose che determina l’ascesa
e il decadimento, il nerbo cioè che regge la storia e quindi anche la parabola
esemplare di Roma. Questo statuto della storia è scritto negli uomini stessi.
Il filosofo dei Prolegomeni cercava una conferma.
Di tale parabola a Tacito però interessa la
decadenza che lo storico intuiva al di sotto dello
splendore dello sfarzo. E Rippo segue Tacito con la
stessa convinzione per scoprire come unico elemento catalizzatore della
decadenza quella "libido adsentandi" cui
prima abbiamo fatto cenno e che ora si chiarisce. Essa
è quel taedium che è rinuncia
all’antica dinamicità, è l’ozio come inerzia che diventa insinuante dolcezza, è
la voluttà di essere servi, il non sapersi adattare
alla libertà, il rifuggire dalle proprie responsabilità, il disperdersi
nell’inquietudine del sapere e del potere, l’adattarsi subdolo e pericoloso
alle cose86. Se Rippo insiste su questo tema è perché anche lui è convinto che il male dell’uomo
risiede nell’accettazione e nella pianificazione, mentre la vita è dinamicità,
contrasto, è accesso alla superiore sintesi che a sua volta si opporrà ad
un’antitesi in un successivo momento della salutare dialettica della vita la quale
in questo modo risponde alla trasformazione, essenza di ogni cosa.
Nella disamina tacitiana Rippo trova un’altra conferma: è illusoria la tranquillità
della vita perché questa esiste solo nella Perfezione dopo che ci si è liberati
dalla imperfezione della esistenza. È salutare allora
l’angoscia rippiana che sostiene la trasformazione.
Il continuo passare dal non-essere al divenire è adeguamento
alla Legge, è vita. Il male consiste nel fermarsi, nel
restare imperfetti che è il venir meno allo scopo della vita e quindi la
morte; come ogni male che coinvolge l’uomo è l’addormentarsi dello spirito
prigioniero del mondo sensibile, il non sentire la voce dell’autentico e
dell’essenziale87. La crisi di Roma, la crisi dell’antichità che
aveva perduto quelle virtù che avevano fatto di Diocleziano l’ultimo degli
antichi e di Catullo l’unico eroe di se stesso come la crisi del mondo di Rippo erano dunque crisi di
spiritualità. Ogni decadenza dipende dalla perdita di dinamismo che è
"l’immensa riserva spirituale di fede e di idee".
Nel confronto con la mentalità diffusa al
tempo di Tacito, tutta pervasa "del senso della grandezza di Roma e
dell’eternità della sua missione civilizzatrice", Rippo
coglie nello storico l’ultimo sforzo della romanità di "guardare a se
stessa con chiarezza, e di esaminarsi alla luce dei suoi stessi problemi e dei
suoi valori", ma ne vede anche la resa dinanzi alla realtà esaminata la
quale diventa essa stessa una prigione, si
"traduce in un peso e in un insormontabile impedimento ad un’opera di
risanamento della società88.
Rippo però non ha il chiuso pessimismo di Tacito
- la maturità dei tempi gliene dava la possibilità - egli poteva credere
nell’innalzarsi della vita spirituale in forme sempre nuove e quindi nella
correzione di ogni cammino in una specie di spirale
dello spirito affidata all’uomo stesso, poteva credere in un rigenerarsi della
civiltà dato che il rinnovamento è il nerbo insito in tutta la realtà. La
parabola del mondo classico come ogni parabola, finita nella sua concretezza,
ha in sé delle forme significative che sono i germi di
una vita rigenerata e perciò il continuo rinnovarsi ("la gioia ricorrente
del mandorleto") può e deve trovare nuovo alimento.
In questa prospettiva il leopardiano
naufragare diventa approdo in realtà nuove che non sono
più dell’uomo prodotto-che-si-stacca-dalla-materia,
ma dell'uomo che libero spicca il volo, ricco solo di quella "povertà che
è stupore" della quale Cristo risorgendo ha dato conferma; dopo che ci si
è liberati però da quel grumo di terra che "si consuma al sole".
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75. Lettere, cit., p. 102. Si considerino i giudizi rippiani sul convenzionalismo della contestazione del suo tempo e come egli si sia introdotto beffardamente nella "beffa" di quella contestazione (ibid., pp. 89-91; e poi pp. 97, 81 e passim).
76. Si potrebbe ipotizzare che un legame analogo unisca Rippo agli altri autori latini che il Nostro analizzava in quella "mia Letteratura Latina" da cui estrapolò le pagine del Tacito storico (Cfr. ibid., p. 11 n. 5).
77. Cfr. Poesie inedite, cit., p. 53 e Lettere, cit., p. 90. Nelle Lettere paventerà di diventare parte di "questa società senza poesia che finora ha visto la protesta della nostra solitudine e del nostro rifiuto di adattarci al suo facile cliché di felicità" e più avanti parlerà di una società "gretta, bigotta, impreparata" di "una tradizione bugiarda e sostanzialmente immorale, ammalata di medioevo e di fascismo, con tutti quei suoi pregiudizi (ibid., pp. 99-101).
78. Cfr. rispettivamente Tacito storico, cit., p. 12 e Poesie, cit., pp. 16 e 40-41.
79. Cfr. Tacito storico, cit., p. 12 e sgg. "E perciò non m’importa dei nuovi ragazzi / e delle nuove canzoni / e dell’amarezza di un popolo supernutrito / così anonimo e freddo nella nebbia / che lo divide" (Poesie inedite, p. 41).
80. Cfr. ibid., pp. 11-15.
81. Cfr. ibid., pp. 15-20.
82. Cfr. ibid., pp. 20-25.
83. Cfr. ibid., pp. 25-26.
84. Cfr. ibid., p. 30 e sgg.
85. Cfr. ibid., pp. 30-36.
86. Cfr. ibid., p. 36 e sgg.
87. "Spesso l’uomo anziché sforzarsi dì purificare il proprio Spirito, si compiace di soffermarsi alla pura sensazione (o piaceri sensibili). E quanto più egli sarà lontano dalla Razionalità vera e propria tanto più verrà meno alla scopo della sua stessa vita" (Prolegomeni, cit., p. 23)
88. Cfr. Tacito storico, cit., p. 51 e sgg.
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NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Vincenzo Maria Rippo nacque a
Napoli l’8 ottobre 1947. Compì gli studi primari nella
città partenopea fu poi nelle Marche e in Umbria ove, a Perugia,
frequentò la facoltà di lettere. Mostrò profondi interessi culturali
prediligendo la letteratura classica, e sensibilità alla problematica sociale,
politica e religiosa che affrontò con ampia apertura mentale. Studiò la civiltà
araba anche attraverso un lungo viaggio in Medio Oriente. Morì il 12 aprile del
1970 colpito da una fulminea leucemia mentre era in
attesa della pubblicazione delle Poesie che uscirono postume nel luglio
dello stesso anno suscitando subito grande interesse tanto che si parlò di un autentico
"caso" letterario.
Opere: Poesie (Napoli: Istituto
Editoriale Mezzogiorno, 1970 [19702]; Bologna, Ponte Nuovo, 1973). Poesie inedite e rare, a cura di F. D’Episcopo (Bologna,
Ponte Nuovo 1984 [19852]). "Prolegomeni a
una nuova metafisica dell’essere", a cura di C. Campanelli, in "Temponuovo, XXI, 1987, 37. Lettere a Francesca, a cura di F. D’Episcopo (Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 1988). "Tacito
storico" a cura di C. Campanelli, in "Temponuovo",
XXIII, 1989, 46.
Saggi critici: M. Munier,
Un poeta del Novecento: Vincenzo M. Rippo. Presentazione e testi (Cremona: motivi per la difesa della cultura, 1971);
AA. VV.,
Testimonianze per Vincenzo Maria Rippo, a cura
di V. Passerini Pignoni (Forli:
Forum, 1973); S. Demarchi, Vita e poesia di Vincenzo M. Rippo
(Bologna: Ponte Nuovo, 1975); Mario Gabriele Giordano, "Umanità ed
arte nella poesia di Vincenzo M. Ripp,", in
Lo studio critico della letteratura italiana (Napoli: Conte, 1975); P. Dyerval Angelini, Le ’cas’ Vincenzo Rippo: Mythe e Réalité, in "Revue des áudes
Italiennes", XXII, 1976, 1-2; C. Di Biase, Vincenzo
M. Rippo: un caso letterariario,
in L’altra Napoli (Napoli: Società Editrice Napoletana, 1977); G. D’Errico, Le
poesie di Vincenzo M. Rippo. Lettura critica,
vol. I (Forli: Forum, 1979); V. Esposito, Invito
alla poesia di Vincenzo M. Rippo (pref. di E. Giachery), a cura
dell'Istituto di Lingua e Letteratura italiana dell’Università dell’Aquila (Avezzano: Libreria Editrice Universitaria, 1979); AA, VV., Dieci
testimonianze per un poeta: Vincenzo M. Rippo
(1947-1970), a cura di F. D’Episcopo
(Salerno: Palladio, 1980); G. D’Errico, Le poesie di Vincenzo M. Rippo. Lettura critica, vol. Il (Forli: Forum, 1979); F. Di Carlo,
Il discorso poetico di Vincenzo M. Rippo (Milano:
Istituto di Propaganda Libraria, 1982); L. Reina, 'Toetica e
poesia di Vincenzo M. Rippo, in Il viaggio di Demetra (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1982);
P. Dyerval Angelini, L’assenza-presenza
nel mondo poetico di Vincenzo M. Rippo, suppl. di
"Riscontri", (Avellino: Sabatia, 1983);. S.
Demarchi, Il problema critico di Vincenzo M. Rippo,
in La parola pura (Abano Terme: Piovan, 1983);
F. D’Episcopo, Classicità
e contemporaneità, intr. a Poesie inedite e rare, cit.; F.
D’Episcopo, Rippo
e l’Islam (Milano: Centro Islamico, 1985, 7, [con appunti inediti
sull’Islamismo]); C. Di Biase, Il Canzoniere di Vincenzo M. Rippo nella poesia del Novecento (Bologna: Ponte Nuovo,
1986). V. Vettori, Vincenzo Maria Rippo. Un poeta alle frontiere del tempo,
(Salerno: Socìetà "Dante Alighieri", 1987);
AA. VV., Vincenzo M. Rippo: un poeta a Spoleto, a cura dì L. Gentili (Spoleto: Accademia Spoletina,
1988); F. D’Episcopo, Memoria
e storia, intr. a Lettere a Francesca, cit.;
P. Dyerval
Angelini, L’"azzurro" nella poesia di
Vincenzo M. Rippo (Napoli: Edizioni Scientifiche
Italiane, 1990); M. Gargotta, Vincenzo Maria Rippo.
Incontro e distacco, (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1990).
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In "Forum Italicum", v. 25, n. 1, 1991, pp. 17-39. |
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