Saggio 

IL MONDO SPIRITUALE DI VINCENZO M.

RIPPO E LA CLASSICITA

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Gli scritti in prosa di Vincenzo Maria Rippo, aggiuntisi alla produzione poetica tra il 1987 e il 1989, consentono sviluppi più articolati agli studi sul poeta napoletano-spoletino. Tenendo presente questi nuovi apporti il nostro tentativo di inquadrare l’opera Tacito storico1 e con essa il significato dell’intera classicità nel mondo spirituale dell’autore avverrà attraverso una lettura incrociata dcll’epistolario2 che per il contenuto biografico si pone come essenziale documento, dell’operetta filosofica3 e delle liriche4, vera summa della spiritualità rippiana.

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1. V. M. Rippo, Tacito storico in "Tempo nuovo", XXIII, 46, aprile-giugno 1989. Per i successivi riferimenti alle opere rippiane ci si limiterà al solo titolo.
2. Lettere a Francesca, introduzione e cura di F. D’Episcopo (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1988).             
3. Prolegomeni ad una nuova metafisica dell’essere, in "Tempo nuovo", XXII 37, gennaio-marzo 1987, 5-35.
4. Poesie (Napoli: Istituto Editoriale del Mezzogiorno, 1970); Poesie inedite e rare, a cura di F. D’Episcopo (Bologna: Ponte Nuovo, 1984).

 

1. Le Lettere a Francesca2 mettono a nudo l’intensa vicenda spirituale dei giovane poeta permettendoci di seguire l’agire della categoria rippiana "dello spirituale"6 una modalità propria dell’uomo che pone in atto le finalità a lui immanenti. Si coglie in esse il tormentato travaglio dell’animo che tende verso valori eterni ed assoluti, espresso attraverso un dilacerante bisogno di trasfigurazione. Ma emerge anche chiaramente l’operare di una costante rippiana, la lontananza-solitudine, intesa come "filtro" del superficiale, come "accesso" alle regioni profonde dell’io, come "luogo" delle conquiste dello spirito, che permette cioè quella dialettica tra ragione e sensazione che è l’essenza della realtà spirituale tesa verso l’approdo alla Perfezione7.

Nelle Lettere echeggia tutta la problematica rippiana che riceve dalla trama magmatica della vicenda esistenziale intensamente vissuta vita unitaria e conferma8.

Cominciamo col considerare in questa pagina il profondo disagio che nasce dalla presa di coscienza di un forte scompenso tra l’epidermica realtà esteriore, l’urgenza di autenticità e comprensione e come tutto questo sia una modalità interiore nella quale si fonda la sofferenza rippiana:

 

Ora veramente possiamo dirci tutto, possiamo parlare, liberi, perché non siamo più due sconosciuti, ma due veri amici. Ora tu mi esponi un problema [...] proprio della nostra età, della tua età, e anche della mia: quando si ha voglia di comunicare ad altri stessi, e il proprio bagaglio di affetti. È la vita che irrompe [...] E non è una cosa che possiamo sottovalutare: anzi per noi è molto, e tanto. Guarda, anch’io ho bisogno di qualcosa: e soprattutto dì qualcosa di nuovo. e più di qualcosa, di qualcuno o qualcuna cui potermi fondere in una specie di comunanza di vedute e di affetti. No, io non ho occasioni per farlo […]. Ma io non sono come tanti altri. questo è il fatto, non so della vita dei ragazzetti di provincia di buona famiglia, della realtà t’illude sempre, delle mie conoscenze, delle ragazze che ho incontrato. Io voglio qualcosa di più: non chi mi soddisfi, ma chi mi COMPRENDA. Ti giuro. La superficialità della nostra vita! Quella mi spaventa. Sarò un mistico, un sognatore, un illuso. Che so. Ma so che mi trovo a disagio e non con gli altri, ma con me stesso. Ecco perché non ho occasioni di realizzare la mia utopia ... E soffro terribilmente, sai, di tutto questo. ... non so adattarmi alla mia realtà. L’INCOMUNICABILITÀ!9.

 

In quest’altro passo emerge il paradigma della lontananza-solitudine che si innesta sulla situazione precedentemente individuata permettendo a Rippo di accogliere Francesca nelle regioni della propria interiorità:

 

Sto pensando che probabilmente hai ragione tu, quando dici che, in un certo senso, è meglio che noi non abitiamo nella stessa città. Ci si può conoscere meno superficialmente ed apprezzare meglio ... Ora mi sembra di sentirti proprio amica: nei momenti in cui posso dire addio alla gente ... Ma sono felice di poterti dire tutte queste cose: a un amico, questo non lo direi mai: mi sanno troppo espansivo, loro ... Ma devi sapere che, ora che sono andati tutti a letto ... sono terribilmente solo. Con me stesso. E con te10.

 

Il medesimo asse paradigmatico penetrando in piani più profondi fa da filtro alle deformazioni della realtà che si disperdono "come la nebbia del primo mattino gelato / messa in fuga lungo gli alberi marci dei colli / dall'arrivo splendente del sole"11:

 

Quando non ero con nessuno, pensavo a tante cose, e vedevo tante cose. Tutto si semplificava tra le mani. E il tramonto incendiava i minareti della città ... Rumori senza senso di carriaggi e di automobili ... Ero solo, ed ero felice. Felice di questa povertà tanto sognata e raggiunta in un attimo e per un attimo. La nostra povera umanità di scatolette e di bugie mi era lontana, straniera. Mi passavano avanti tanti volti. Di gente intravista nella folla, nella idiozia di questa folla anonima in cui siamo sempre più tragicamente inghiottiti e sperduti"12.

 

La stessa operazione di sublimazione subisce Francesca una volta rotto il diaframma di incomunicabilità: prima è sentita come soddisfatto approdo:

 

Restiamo amici. È la cosa più bella. Per tanto tempo. Per tanto tempo, sin quando potremo parlarci così, a cuore aperto, con sincerità, con la freschezza della nostra età. Perché tutte le altre cose. scuola, preoccupazioni, momenti in cui sembra che i lati esteriori della vita stiano per soffocarci, contano tutte di meno. Molto di meno13,

 

giunge poi a chiarirsi come simbolo:

 

Tu hai qualcosa di più ... : sei quasi un simbolo di una certa età, che poi a me è cara come nessun’altra: quella in cui sentimento e poesia e ribellione agli schemi della vita non sono ancora scomparsi ma si fondono con tanta armonia insieme alla vita che porta con sé problemi e sentimenti e speranze nuovi ... Perché per me sei divenuta un simbolo e per me sognatore un simbolo vale tutta quanta la realtà stessa14

 

Ora è aperta la via affinché questa lontana confidente si trasformi in una conquista spirituale. In un momento straordinario di grandezza e debolezza umana in cui la tensione interiore, determinata dalla forte azione della realtà materiale (il filosofo parla di "forza" della "sensazione" nella sua "azione critica" nei confronti della ragione)15, sfocia in una profonda prostrazione, Francesca, proprio come un simbolo e come il bisogno del divino, diventa qualcosa di ampio ed impreciso ma fortemente sentito e nello stesso tempo necessario sostegno alla sofferta dialettica rippiana:

 

Vorrei tanto che mi aiutassi ad uscire da me stesso. Da questo stato di abbattimento, da quest’angoscia che mi consuma, da questa fede che mi chiude gli occhi a quanto c’è di bello, e che mi porta a disprezzare tutto, pure l’arte, pure la speranza in un mondo più giusto, e che mi rende dogmatico, assurdo, lamentoso ... Io invece ho bisogno della realtà. Non voglio vivere di fantasmi. Di ombre. Di solitudine. Io credo che la realtà è sempre infinitamente più ricca, più bella, più semplice, più umana dell’ideale ... Importa questa mutevole, calda realtà che può stupirci, e deluderci, ma mai stancarci. Tant’è vero che teniamo alla vita, e alle sue esperienze più d’ogni altra cosa. Vedi. io non riesco ad immaginarti. Tutto mi parla di te, fra le tue righe, ma tu non hai un volto. Sei dovunque, dentro di me, e non so trovarti. Ma sento il bisogno di te. ... io non credo più a nulla: per questo credo in Dio. E odio tante favole e tante illusioni16.

 

La giovane conforta il bisogno dei suo corrispondente che sente ristoro nel "rifugiarsi" in lei e parlarle "con la malinconia, con la rabbia, con la speranza, con l’angoscia di questi minuti"17 fino a che egli potrà riconoscere:

 

Ora ritrovo parte di me stesso in te, e quasi voglio congratularmi con me stesso di questa scoperta. E salutarti per ritrovarti ancora, per non perderti18.

 

Rippo, conscio che quelle lettere sono diventate un ininterrotto dialogo con se stesso, che "pur cambiando" si ritrova "sempre lo stesso, e sempre solo" perché il bisogno di trasfigurazione è impresso nella sua natura, come in ogni umana natura, avverte il beneficio di Francesca, la sente "col cuore pieno di ritmo"19. Nell’ultima lettera, perciò, intensa e ricca più di tutte, dopo che il giovane ha avuto modo di conoscere concretamente la sua corrispondente20, Francesca, confermata conquista dello spirito, si staglia nella sua "atemporalità" e "lontananza" ormai identificatasi con la "malinconia" e la "tristezza" dei giovane, con la sua "ricchezza umana", ma soprattutto con quella tensione verso la perfezione che sarà simboleggiata nel canzoniere dalle tante figurazioni femminili21.

Nelle due liriche che accompagnano la raccolta epistolare, ove è rappresentata la parabola percorsa da Francesca, essa è divenuta un’immagine poetica che riesce a trasformare "l’ansia di mille oltraggi" in "profumo" che "empie la mente" e "stordisce / in tanti sogni di malinconia" fino a diventare, "bella di luce", consolante ideale realtà nello spasimo dell’anima del poeta22.

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5. Diciannove lettere che vanno dall’8 gennaio del 1965 all’8 gennaio del 1970 (a tre mesi dalla morte dell’autore) con l’interruzione di oltre tre anni: dal 5 giugno 1965 al 28 dicembre 1968.
6. Prolegomeni, cit., p. 8. Rippo assegna alla categoria dello spirituale "tutto quanto ... possa essere conquistato col ragionamento e con la corrispondenza delle coscienze".
 7. "È dunque la stessa Spiritualità che si pone una volta come Tesi (Ragione) e successivamente come Antitesi (Sensazione) in una sorta di dialettica..." Ibid., p. 15 n. 27.
 8. Nell’epistolario s'i coglie anche una evoluzione della confessione rippiana dalle prime dodici lettere - qui il tono goliardico ha spazi confidenziali che si fanno sempre più ampi - alle ultime sette lettere, successive all’interruzione, ove la riflessione, sempre più profonda, negli ampi momenti di sofferenza interiore fa emergere l’autentica dimensione spirituale del Nostro. V. anche F. D’Episcopo, Memoria e storia, introduzione a Lettere a Francesca, cit., p. 9 e sgg.
 9. Lettere, cit., pp. 70-71. Si noti come il generale tono scanzonato della prima parte dell’epistolario a cui appartiene il passo citato non impedisca questo momento di confidenza con la lontana amica. Si tenga inoltre presente che qui Rippo parlava sotto le spoglie di Franck Felici, quasi uno scandaglio nella ricerca di una corrispondenza spirituale che il giovane non riusciva a trovare nelle tante persone a lui vicine non plasmate dalla lontananza. Il motivo di questo tipo di solitudine si trova in Poesie, cit., pp. 15, 69, 93.
10. Lettere, cit., p. 64. È da considerare che questi momenti confidenziali avvengono di notte o di sera (nove volte di cui, nella seconda parte, in sette lettere su sette) o comunque quando il giovane avverte la solitudine. Il tema della notte e della sera come momenti in cui nasce la malinconia e l'angoscia, vere e proprie forme della spiritualità rippiana, è diffuso, come vedremo, nella poesia del Nostro. In Antelucana c’è la bellissima immagine della musa che consola il poeta offrendogli una rosa fuggevolmente prima che l'alba la sorprenda (Poesie, cit., p. 15. La sottolineatura è nostra).
11. Poesie, cit., p. 51.
12. Lettere, cit., p. 96. Identico tema è nella lirica Nell’attesa di un treno che non giunge nella stazione dì un surrealisia: una situazione di felice solitudine ("Ero solo, ma non infelice / come sono solo, ma non infelice, tante volte") che è il preludio all'esperienza spirituale (Poesie inedite, cit., p. 45).
13. Lettere, cit., p. 77.
14. Ibid., pp. 84-85.                             
15. Prolegomeni, cit., p. 16.
16. Lettere, cit., pp. 93-94.
17. Ibid., p. 94. La sottolineatura nostra pone in evidenza i sentimenti rippiani dell’esperienza spirituale.
18. Ibid., p. 96. Si consideri quanto Rippo dice circa la categoria dello spirituale (v. n. 6) dove la corrispondenza delle coscienze è vista come un mezzo per conquiste dello spirito.               
19. Cfr. ibid., p. 97 e sgg.
20. L’incontro avvenne nel novembre del 1969. È da notare come Rippo, che avrebbe potuto facilmente incontrare la ragazza non l’abbia fatto subito; forse per l’inconscio bisogno di conservare con la lontanza la vanescenza di lei. Esso però contribuì a confermare l’evoluzione della giovane, nel senso detto, a causa della profonda confidenza che questa fece a lui per cui lo stesso riconoscerà in lei "una nuova Francesca" (Lettere, cit., p. 110)
21. Cfr. Lettere, cit., pp. 104-105. Per le figurazioni femminili si consideri Ora le strade non sono le stesse in Poesie, cit., pp. 68-70; e ibid., pp. 20, 21-22, 27, 30, 31-32, 34-36, 43, 45, 61.
22. Cfr. Incontro e Distacco in Lettere, cit., pp. 53 e 107.

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2. Abbiamo evidenziato l’operare della categoria rippiana dello spirituale in un processo interiore attraverso il quale da una situazione concreta di forte tensione, filtrata dalla solitudine e dalla lontananza, il Nostro giunge ad un superiore approdo spirituale.

Lo stesso tragitto segue il poeta prima di giungere nelle plaghe serene e rarefatte delle altissime regioni dello spirito dove l’anima, beneficamente accolta, placa il travaglioso bisogno del Puro, dell’Assoluto, del Duraturo, del Perfetto. "Quante volte mi sono rifugiato in te / ... e tu sempre m’hai accolto," dirà alla musa di Antelucana23, lirica che il poeta a mo’ di epigrafe pone in apertura all’unica opera da lui curata per la stampa.

La via per questo approdo sono atmosfere silenti serali o notturne, di solitudini cercate e dolcemente sofferte24.

Consideriamo la lirica Quando non ha luce la notte…, ove, in bellissime immagini di silenzi e lontananze il poeta ritrova quel dolce accattivante tormento interiore del quale ha coscienza di non poter fare a meno:

 

 

Quando non ha luce la notte,
è l’ora più bella per i miei occhi stanchi. 
E quando io vado verso il tramonto 
non ho che da perdermi nella luce astrale. 
Quando il sole s’irradia tra i canneti 
io non cerco gli amici e le chitarre. 
Quando tu sei lontana io t’amo 
senza confessarlo alla mia pena.
 
E questa malinconia che io sento 
rinnovellarsi ad ogni istante 
per le strade deserte e i viali solitari, 
di te mi parla, ad ogni ora, 
ed in suono di pianto mi confonde la voce. 
Tanto basti a confessarti il mio amore25.

 

oppure Crepuscolo in cui Rippo dinanzi alle suggestioni serali di "lunghi silenzi" e "penombra" - la sera è l’impalpabile momento di domande e di stanchezza" - confessa: "l’uomo deve fare uno sforzo, ogni giorno, / per sottrarsi al tuo fascino che è guida / all’eterno al di dietro / delle imposte sbarrate", perché quello spasimo che lo pone al di là della superficiale dimensione umana è la sola consolante certezza26, quasi "voce" dell’immanente finalità dell’uomo che chiama dal fondo di ognuno e chiede di essere ascoltata.

In Alla notte la personificazione di questo magico momento della giornata che terge il "pianto dagli occhi" conferma la mediazione di cui si è parlato prima27.

In L’ultima sera con Jennie, il desiderio del poeta di "fuggire lontano" ("distendermi oltre le strade, / a contemplare le stelle, / nella grotta di un antico sapiente") si identifica con l’insanabile desiderio di perfezione, che è la "speranza / di un irraggiungibile domani"28.

Questo "dramma atemporale"29, a cui il poeta sente di partecipare, si manifesta attraverso l’angoscia, che è "privilegio di pochi", "viva, incredibilmente sicura", "stupefatta malinconia che ci consuma" e che non porta alla "povera gloria della ricordanza dell’uomo"; e attraverso la nostalgia "per le margherite dai petali trasparenti", "che divora l’anima dentro", modalità queste della categoria dello spirituale che svelano alla coscienza la sua struttura ontologica; di qui la "stupefatta meraviglia" e il "conforto" dell’angoscia30.

Lo sbocco supremo permesso al poeta, - l’"arrivo splendente dei sole" di Caro compagno - , sono le immagini leggere di luce di Alla fontana "senza che tramonti / con l’avvicendarsi dell’ore" e "aria impalpabile", "al di fuori dei cielo consueto" mentre "tutto si confonde nell’oro" (altrove dirà: "dove è cristallina e perenne immobilità"); oppure è quella terra lontana che non vive "di palpito e d’angoscia", "dove i passi sono puri / e la beatitudine silente / nell’ammirazione stupefatta / e nel cielo che a ogni tramonto si rinnova / e che non conosce la crudeltà del meriggio"31.

Questo placarsi che prende l’avvio da una necessaria situazione esistenziale di sofferenza, che è

 

l’eternità della pena che ci costringe allo sforzo d’intenderci,e che si raggruma, nell’aria in vani propositi d’impossibili evasioni e di amori non corrisposti per l’impietosa sofferenza del poco di materia che si consuma al sole....

 

diventa per il filosofo il più alto sbocco della razionalità umana, dopo che ci si è liberati "da quel poco di materia che si consuma al sole"32.

Il poeta si trova così accanto al filosofo: l’uno parla dell’anelito "ad una sempre più completa coscienza di sé" che è poi "fattore primo della perfezione e causa stessa dell’esistenza"33, l’altro raffigura la medesima situazione nell’antico eremita" che guida "alla sublime purezza dei cielo" "in un affinamento spirituale" che è "gioia incontenibile / d’avere e di dare a se stesso / senza inutili tributi alla ragione34".

La viva esperienza spirituale, che ci coglie nell’epistolario e che i versi esprimono in forme di purissima liricità, trova una sistemazione teoretica nei Prolegomeni35 dove il poeta-filosofo traccia il percorso della razionalità umana in una sorta di dialettica tra "ragione" e "sensazione" che è un processo spirituale di purificazione e di attuazione delle mete dello Spirito. Questo tragitto è necessario e possibile in virtù della "Legge" come "Volontà Immanente nella Spiritualità stessa"36 che opera nella ragione e le assegna "un criterio di scelta tra l’adempimento dei Bene (ossia di quanto più propriamente le concerne) e l’adempimento del Male (che è nel soffermarsi alle semplici sensazioni), criterio di scelta che costituisce l’eterna lotta tra il materiale e lo spirituale37". La purificazione non può dunque prescindere dal superamento dei "piaceri sensibili"38. Il contatto con la realtà "tragica, sporca, disperata" è necessario. "Bisogna vivere, cioè soffrire, inginocchiarsi, soffrire, sperare, morire"39: è questo il difficile compito dell’uomo nel rispondere "alle norme inappellabili della Legge"40 insita nella natura umana.

Alla fine

tutto sarà puro, e leggerai a parole di bronzo nel libro fulgente di luce, sul cielo, la tua sofferenza, e ... non avrai più nostalgia delle tue mani bagnate di speranza41.

 

In queste immagini di purezza e di luce, in cui si coglie la suprema aspirazione alla sublimazione dell’umano, c’è la figurazione poetica dell’annullamento nella Perfezione di ogni attività della ragione che è imperfetta e quindi la fine della esistenza che è imperfezione. La non-esistenza coincide pertanto con la essenza che è perfetta, e quindi perfezione, fine della esistenza, vuol dire sbocco nella essenza cioè nel puro42.

 

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23. Poesie, cit., p. 15.
24. Il tema della solitudine-lontananza come assenza-presenza è esaminato da P. D. Angelini in L'assenza-presenza nel mondo poetico di V. M. Rippo, Supplemento n. V, 1, di Riscontri, 1983.
25. Poesie, cit., p. 20.
26. Ibid., cit., p. 48.              
27. Ibid., p. 112. Il medesimo motivo è in Sera e Serata azzurra (ibid., pp. 29 e 31); v. pure ibid., pp. 24, 25, 33, 34, 42, 43, 48, 52, 66; e Poesie inedite, cit., pp. 53, 81, 83.            
28. Ibid., pp. 21-23 (la sottolineatura è nostra).
29. Ibid., p. 21. L'attività spirituale avviene nel tempo interiore che Rippo definisce "un succedersi temporale di attimi logici" (Prolegomeni, cit., p. 11 n. 11) cioè "un passaggio continuo in modo che non si possa fissare stabilmente in un 'essere' o un 'divenuto- (Ibid., p. 17 n. 35) che richiama la durata bergsoniana (per questo concetto v. F. D’Episcopo, Classicità e contemporaneità introduzione a Poesie inedite, cit., pp. 24-25). A questa dimensione non serve "il tempo che fugge" che è "come quei poveri brandelli di nuvole che non toccano la gioia ricorrente del mandorleto" (Poesie, cit., p. 24).               
30. Cfr. rispettivamente Poesie, cit., pp. 16, 24, 17, 21; Poesie inedite, cit., p. 115; Poesie, cit., p. 21 (le sottolineature delle citazioni sono nostre). Tra le valenze simboliche che evocano l’esperienza spirituale e gli stati d’animo che l’accompagnano c’è l’azzurro che richiama la tensione trasfigurante. Per il tema dell’azzurro v. P. D. Angelini, L’"azzurro" nella poesia di Vincenzo M. Rippo (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1990).
31. Cfr. rispettivamente Poesie, cit., pp. 51, 55; Poesie inedite, cit., p. 119; Poesie, cit., p. 58. Per i temi dell’angoscia e della consolazione v. M. G. Giordano, Angoscia e consolazione nel mondo poetico del Rippo in AA. VV., "Dieci testimonianze per un poeta: V. M. Rippo (1947-1970)", a cura di F. D’Episcopo, in "Eurocultura Nuova", gennaio-dicembre, 1980, 29-51.
32. Poesie, cit., p. 24.
33. Prolegomeni, cit., p. 5.
34. Poesie, cit., pp. 56-57. 11 tema del contatto del "sapere" del filosofo con quello del poeta è sottolineato da C. Campanelli nella Postfazione ai Prolegomeni, cit., p. 29 e n. 10.
35. La corrispondenza della riflessione filosofica con le Lettere e il canzoniere dimostra lo sforzo del poeta-filosofo di prendere coscienza razionalmente della propria vicenda spirituale. Le due ultime opere evidenziano, inoltre, come vedremo, un evoluzione del pensiero rippiano confermata d’altronde dallo stesso Rippo nella Nota finale ai Prolegomeni (ibid., p. 24).
36. Prolegomeni, cit., p. 15 n. 26.
37. Ibid., p. 23.
38. Ibid.,
39. Lettere, cit., p. 103. Il filosofo parla di "azione quasi stimolante della sensazione" per permettere alla Ragione di superare "i propri limiti" (Prolegomeni, cit., p. 16).
40. Prolegomeni, cìt., p. 23.
41. Poesie inedite, cit., p. 101.
42. Cfr. Prolegomeni, cit., pp. 22-23 e passim, part. la n. 41 a p. 20. La Perfezione rippiana che richiama il brahma buddista dove si esaurisce il karman (Prolegomeni, cit., p. 23 n. 56), si collega alla perfezione bergsoniana dove ognuno coincide con la propria essenza, e dove l’assoluto è "unità semplice e tuttavia infinitamente ricca" (H. Bergson, Introduzione alla metafisica [Bari: Laterza, 1987], p. 44) e al punto di arrivo dell’ascesi mistica, la contemplatio, attraverso la cogitatio e la meditatio. Potrebbe configurarsi allora come una specie di "area" comune a conferma, nell’universalità dello spirito, di un ecumenismo rippiano.

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 3. Il tragitto rippiano verso la Perfezione è un percorso essenzialmente religioso: la tensione verso l’eterno e l’assoluto, il bisogno di trasfigurazione sono il bisogno di trascendenza della religione naturale che in Rippo diventa una specie di nerbo che continua, elevandolo, lo slancio creativo insito nella vita. La religiosità rippiana è un ampio motivo di fondo, che permea tutta la sua esperienza spirituale, che chiama ed agisce dal di dentro e si sente più urgente quando ci si è liberati dalla corazza di superficialità che ci fa sordi. Questa religiosità chiede un Dio diverso ed una fede libera dalle maglie della razionalità, a "scadenza indeterminata" che si configura come lo slancio verso la perfezione e come il pieno abbandono a Dio del misticismo.

In una bellissima pagina dell’epistolario c’è la scoperta di questa fede come bisogno primario che vive della sua forza essenziale, a cui Rippo giunge, dopo essersi liberato dal Dio travisato dalla storia ("greve di secolare stanchezza")43 rientrando - anche lui come Francesco sulla strada di Spoleto - in una chiesa:

 

Ma se dovessi dirti che ci credo per un’esigenza d’ordine razionale, non ti direi la verità. Ci credo, sì, ma a modo mio, dal lato affettivo, dal lato sentimentale: le prove di Sant'Agostino o di San Tommaso o di Sant’Anselmo ... non mi dicono troppo. Sai, perché io verso i 16 anni ... ho avuto una profonda crisi spirituale, e sono diventato, se non un mangiapreti, certo molto ma molto scettico. Così ho rinunciato, o quasi, alla vita dello spirito. Ma in definitiva sono sempre rimasto un mistico. Non vi sono sognatori - come sono io - senza Dio ... Qualche tempo fa ... ho provato una forte emozione rientrando, dopo tanto tempo. in una chiesa. E poi d’allora ho pensato molto, e sono stato molto combattuto, interiormente. Una cosa terribile. E poi ho creduto. Credo ancora, e più che mai perché sento Dio, anche senza conoscerlo. Anche senza vederlo: il più grande miracolo non potrebbe accrescerla, la mia fede, e neppure il più logico ragionamento filosofico sminuirla ... Ma sono un credente a modo mio, ... io credo, e voglio avere il coraggio di dirlo, non più di nasconderla, questa mia fede, a scadenza indeterminata44.

 

Questa fede, che "riceve vigore da se stessa" perché forza dello spirito, si svela nell’interiorità di ognuno ed è essa che deve unire su tale comune terreno l’uomo al suo simile (per il filosofo l’incontro tra gli uomini è necessario per "sostenere lo sforzo della ragione per giungere a perfezione"45). Tutto ciò è però un difficile "abito di vita": "voler bene al derelitto, all’assassino, ai volti che non sembrano aver tracce di umanità, a gente senza interessi, e via" è, dirà Rippo, "molto, molto difficile"46 perché è difficile essere come Safouh, tanto vicino alla povertà francescana, con la "meravigliosa semplicità" del suo cuore "pieno di luce":

.

Uomo pio, uomo giusto, la tua fede 
è una meravigliosa verità 
che ci confonde le menti. 
Le tue mani erano vuote 
e tu davi a tutti del tuo47. 

 

Come la fede anche il Dio di Rippo non facilmente si trova. Egli è vicino all’umanità che è nel fango perché lotta per la verità: "il sapiente, il vero giusto, l’uomo, il marinaio, il compagno, il martire del sangue"; e che da lui riceve "quella giustizia che si paga nel cuore"48 come il Dio di san Francesco. Egli opera il "miracolo inspiegabile" quando il semplice saprà "la gloria dei Santi" senza essere né saggio né poeta49; egli chiama "al di sotto / delle nostre povere carni sfruttate"50 dove la "povertà è stupore", perché è ricchezza dello spirito51. La sua voce non è dolce, bensì angosciosa irresistibile eco contro cui lotta l’uomo con la sua materialità chiedendo misericordia:

.

Ma non ho diritto neppure 
alla mia domanda 
e nel mio cuore è la mia pena. 
Che si rinnova, ogni giorno, con tutta l’angoscia
d’averti dinanzi, ma senza il coraggio 
di lottare con Te  senza di Te, Signore.
 
E ti sono - per sempre - lontano52.

 

In una delle ultime interessantissime pagine del suo epistolario Rippo cerca di precisare il suo Dio, che richiama quello del santo di Assisi, essenza indefinibile e pure chiara e presente, come indefinibile ma vera è la realtà spirituale dell’uomo:

 

A me di Dio non importa. 0 meglio, importa terribilmente. Io soffro per lui perché lo vorrei, e non lo conosco. Io credo in Dio, disperatamente. Poveramente. Semplicemente. Perché mi è terribilmente necessario: crederei in lui anche se sapessi che non esiste. Quando piangevo era lui che mi consolava, e mi parlava, mi raddolciva. Le strade erano bagnate d’acqua piovana e casa mia m’attendeva senza parole. Ma io parlavo con lui, e lo sentivo dappertutto: e sui volti della gente, sì, di questa povera, fragile, stupida, egoista umanità contadina, borghese, operaia e via di seguito. Lui era la mia speranza, il mio conforto, la mia angoscia. Battevo sulla batteria a torso nudo, e la vecchia cantina diventava enorme, e le pareti cambiavano colore, e la stanza cantava, gli amplificatori ricantavano, le scatole di latta dove gettavamo le sigarette spente, cantavano. lo mi sentivo morire dentro, e mi umiliavo nella lucidità del sudore. E lui era dappertutto, e io piangevo, e fuggivo, e morivo dappertutto. Ora sono solo e non l’ho trovato. Non l’ho trovato nella Bibbia, nel Vangelo o nel Corano: perché niente lo definisce, e lui è come lo voglio io Misterioso e bonario. Grande, indulgente, sconosciuto. Pazzo, vendicatore, inutile, terribile, egoista, innamorato. Disperato. Solo. Ha il colore del cielo, il rosso dello stupore. E tanti altri nomi. Dov’è, chi è, com’è, non lo so53. 

 

Questo Dio definito a pochi mesi dalla morte protegge il cammino umano verso la perfezione che si chiarisce come approdo mistico. Egli porge la mano ("perché il cammino mi sia più facile / pur nel rincorrersi quotidiano della pena"), assicura la pace del cuore e l’"ebbrezza" dell’ultimo approdo, opera la suprema sintesi che "riduce ad unità" l’"infinità problematica dei mondi" e conduce alla meta finale "mai permettendo che sia tenebra e morte", poiché la sua perfezione è in quella luce che è purezza54.

È chiara ora l’evoluzione del pensiero del Nostro verso un francescanesimo mistico che risente di ampli influssi della spiritualità orientale e giunge attraverso il pensiero bergsoniano ai moderni approdi della teologia ecumenica. La conferma è in questo passo:

 

Sarebbe davvero rivoluzionario poter porre in piena luce i caratteri anticlassici e antigreci del pensiero islamico, che capovolgono certi concetti superati dell'uomo e della vita di cui è ancora succubo il pensiero occidentale. Fondamentale presupposto di ciò è il concetto di "personalità", "mobilità", "creatività" di Dio, per cui Dio non è una astratta sostanza, un "Essere" divino, un "to theion", ma soprattutto "persona" ... È proprio questa finitezza pratica ... che rende profondamente l’idea dell’assoluto divino, concepito come un dinamismo infinito. Si ha così l’idea, profondamente moderna, di un "Dio che muta," per cui la natura è un’abitudine, si che si giunge al concetto, che richiama un po’ quello cattolico contemporaneo, di un universo in espansione e di una creazione continua. Conseguenza di questo è la continua "creatività" di Dio, tanto che non si può parlare di una definitività del creato55.

 

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43. Poesie inedite, cit. p. 43.
44. Lettere, cit., pp. 73-74.
45. Prolegomeni, cit., pp. 17-19.
46. Ibid., p. 79.
47. Poesie, cit., pp. 74-75.
48. Ibid., p. 51.
49. Poesie inedite, cit., pp. 105.106.
50. Poesie, cit., p. 51.                                          
51. Poesie inedite, cit., p. 102.                           
52. Poesie, cit., p. 72.
53. Lettere, cit., pp. 92-93. V. pure Poesie, cit., p. 71.                                    
54. Cfr. rispettivamente Poesie inedite, cit., p. 82 (v. anche A te, ibid., p. 80) e p. 67; Poesie, cit., pp. 78 e 101-102.
55. Il passo di Rippo è in Classicità e contemporaneità, introduzione di F. D’Episcopo a Poesie inedite e rare, cit., p. 24. Per i rapporti del poeta con l'Islam cfr. dello stesso D’Episcopo, Rippo e l’Islam (Milano: Centro Islamico, s.d.), 7.                           

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4. È stato necessario far emergere dagli scritti rippiani alcuni tratti della realtà dei Nostro per inquadrare in essa il mondo classico in cui egli penetrava senza la mediazione della traduzione e quel Tacito che particolarmente lo interessava56.

Nello studente dell’ultimo anno del liceo classico che mai sopporta i limiti dell’"odiosa scuola, ma necessaria", che alla letteratura moderna preferisce Aristofane e i lirici greci, "classico" è sinonimo di "immortale", cioè di quella attività umana che si muove verso categorie durature ed essenziali e che impregna la forma sensibile delle proprie conquiste. Infatti in quell’"io sono dedito a tutto ciò che è classico cioè immortale57", riferito alla scuola che frequenta, non c’è solo un giudizio ma si coglie proprio la tensione trasfigurante che fa parte della analizzata categoria rippiana. Classico per Rippo, insomma, è ogni prodotto pertinente alla spiritualità umana.

Nelle passeggiate "sulla magnifica e verdeggiante collina" che sovrasta la sua casa e sulla quale è "un incantevole convento di francescani" dove gli piaceva recarsi "a pensare a cose belle e grandi" e dove cercava di raggiungere "quell'equilibrio "quell’equilibrio personale che i tanto vituperati (dagli studenti) Elleni chiamavano καγαθόυ, il bello e il buono58" in quella pace che dà la natura e la lontananza dal mondo o la religione intesa come riposo in Dio nei livelli profondi della coscienza, Rippo tentava di rinnovare l’ideale perseguito dalla classicità immettendolo in un più moderno processo tutto a carico dell’uomo in quanto spirito.

Il mondo classico aveva realizzato un’altissima forma dell’ascesa spirituale per cui diventa parte integrante della ricerca rippiana. Era lì che per la prima volta l’uomo aveva preso coscienza di quel "sé" che permette il cammino dello spirito. Nei lirici greci Rippo scopriva - all’inizio di quel cammino - che il dissidio umano nasce proprio dal contrasto tra l’azione del divino nell’uomo e i limiti della individualità di ciascuno. La tragedia greca, che vide l’uomo impegnato a definire la propria azione come risultato di un autonomo processo interiore, invitava Rippo ad indagare la ricca vita dell’anima alla quale i filosofi greci ("maestri insuperati di filosofia"59) affidavano il compito di realizzare lo sforzo dell’uomo per sollevare la propria fragilità verso ciò che è autentico ed essenziale in un processo di perfezionamento problematico sì, ma frutto di quello sforzo. In questo mondo Rippo coglieva l’arditezza del pensiero che tenta il divino e da esso mutuava le possenti figurazioni della divinità come splendore che opera nell’uomo. Allo stesso modo gli ideali greci: il bello e il buono, il vero e il duraturo, l’armonia, l’ordine, la misura, che, trasferiti nella humanitas romana erano divenuti il nerbo della classicità, diventavano anche per Rippo valori universali di contro all’apparenza ingannevole e al falso opinare. Anzi in quel continuum che il Nostro scopriva nel mondo che era alle radici della sua sensibilità di uomo del ventesimo secolo, egli poteva innestarsi trasformando le espressioni spirituali a cui era giunto il mondo classico in "forme" in atto della spiritualità che "crea" tutto ciò che serve per rispondere alle norme della Legge60.

La spiritualità di Rippo è radicata nella classicità, è fatta di classicità intesa come cammino esemplare.

Diocleziano è l'ultimo degli antichi a comprendere il valore di ciò che è semplice; perciò il mondo agreste suscitava in lui la stessa "nostalgia" e "malinconia" rippiana ed anche lui custodirà con "intatta poesia" un "sogno" non più possibile all’uomo del suo tempo ("il tuo sogno non lo condivise più nessuno. / E tu fosti l'ultimo degli antichi"). Anche per lui estremo conforto sarà quello di isolarsi nell’ombra, che è la solitudine rippiana61.

Allo stesso modo Catullo, il poeta la cui mente di stupefatto fanciullo dettava parole di tenerezza per ogni piccola delicatezza della natura, è unito a Rippo dalla stessa visione meravigliata per l’armonia della natura e dall’"angoscia", dono di chi sa calarsi nelle profondità della vita62.

Ora si può comprendere cosa Rippo avesse scoperto nel mondo classico: quella comunanza di affetti, che libera "dallo sforzo di intenderci", come abbiamo visto per Francesca, ma anche quegli esempi, che, purificati per la lontananza dal caduco e dal perituro, diventano feconda tensione all’interno della vita spirituale.

Se Teocrito gli offre un riposo benefico in luoghi di elevata bellezza e pace, semplici ma veri:

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Le tue fonti vorrei le tue greggi Teocrito 
toccar l’acqua con le mani 
addormentarmi fra gli ulivi63.

 

Virgilio gli addita egli stesso un mondo fatto di povere cose che però essendo già prodotto spirituale suscitano i sentimenti rippiani della trasfigurazione: la malinconia e la nostalgia64. Troviamo queste suggestioni nelle immagini georgiche di Virgiliana, che richiamano la povera cena di Safouh o le cose di ogni giorno che circondano la musa di Antelucana65.

Il motivo del semplice e del genuino - divenuti privilegi spirituali - opposti alla chiassosa superficialità del mondo con i suoi "valori di porcellana"66, conduceva Rippo verso quella piena essenzialità delle cose che bergsonianamente è il loro modo di essere profondo la cui realizzazione può avvenire solo nella intimità dell’essere.

Il mondo classico per Rippo è quel mondo che vide "il sogno degli eroi", dove "gli dei sono statue di trasparente bellezza, / nel loro amarsi perenne / tra le nitide isole dell’arcipelago" e che è cantato sulla chitarra dalla donna lontana di Elegia67. Le sue figurazioni, operando "negli spazi splendenti del cuore," sono tangibile segno della superiorità delle attività dello spirito - e qui Rippo si collega ad Orazio - che rende chi vi attinge straniero tra gli uomini comuni, ma anche capace di essere stimolo e lievito per nuovo e diverso operare.

I racconti "di uomini antichi e leggende", 1a favola bella dell’uomo greco"68 sono espressioni e stimolo di elevati sentimenti che affinano l’animo affinché giunga alle sorgenti dell’umanità che la superficialità del mondo nasconde, dove si raggiunge quella "meravigliosa solitudine" nella quale ogni uomo può costruire quel sogno di "libertà" e "bellezza" ed infine riposare dove ogni "errare avrà pace" "ripetendo il [tuo] gesto caro agli dei"69.

Quando Rippo dice

 

Sono le grandi figure dei tempi antichi, nelle quali l’umanità ha cercato idealmente - e inutilmente - di fissare se stessa, in un momento ideale d’intangibile bellezza, al di fuori di un tempo marcio e corruttore, che mi fanno morire di nostalgia e di solitudine: e quando leggo di quella "donna Clara ... nobilis parentela, sed nobilior gratia; virgo cana, mente castissima, aetate iuvencula, sed animo cana; constans proposito, et in divino amore ardentissima desiderio; sapientia praedita, et humilitate praecipua: Clara nomine, vita clarior, clarissima moribus", mi si empiono gli occhi di lacrime, anche se, accidenti, so che non c’è nulla, nulla o quasi di vero, in tutto questo, e che l’umanità è sempre la stessa terribilmente squallida come me, senza che lo scompenso tra l’idea e la realtà venga avvertito o, meglio, seriamente avvertito. Questa terribile umanità che è valore in stessa e che è l’espressione più diretta della meschinità e dell’impotenza del singolo, Francesca, io penso che bisognerebbe avere il coraggio di combattere: non per un’ipotetica giustizia, ma per se stessi, per la voluttà ... di perdere e di essere dimenticati70.

 

coglie la intima perfezione raggiunta da quella umanità che, anche se morta storicamente, ha "conquistato certe espressioni di bellezza che noi non possiamo raggiungere" tanto che abbiamo la certezza che "qualcosa di proprio ed essenziale all’uomo si sia manifestato in essi con maggior chiarezza che in noi," proprio "come la rosa è insuperata bellezza" pur essendo inferiore rispetto ad altre forme evolutive71.

In quel momento straordinario l’uomo ha fissato queste forme della propria umanità "inutilmente", dice Rippo, perché ci sono tanti che non avvertono il bisogno di quella ricerca, eppure essa non è mai finita perché è insita nella stessa umanità. Perciò bisogna avere il coraggio di combattere non per ipotetici valori, ma "per se stessi", per il proprio progresso spirituale perché le conquiste non sono in virtù di uno Spirito fagocitante; e nell’uomo c’è la possibilità di giungere nel puro e perfetto mondo dell’essere dove la "voluttà di perdere e di essere dimenticati" è la pienezza che nasce dalla completa adesione all’essere.

Il cammino spirituale verso la perfezione si frantuma e realizza nella storia, perciò quando Rippo dice:

 

Per me la storia di Roma è l’unica in cui si possa seguire un processo realmente armonico di ascesa, di stasi e di decadenza. Ma è soprattutto in quelle figure di imperatori, di generali, di matrone serie e meno serie, di liberti e di cittadini e di "patres" che mi diverto a trovare l’uomo, che in fondo è sempre uguale a se stesso72.

 

è certo di scorgere nel tempo lontano della storia di Roma un percorso umano che dirige la trasformazione insita nelle cose. A Rippo, dunque, interessa come l’uomo ha risposto, nella storia, alla finalità insita nella Ragione (la "Volontà immanente alla Ragione Pura stessa, e strutturatrice della Ragione e della coscienza"73) nel rapporto con la materia, come ha prodotto spiritualità consentendo all’Intelletto il conseguimento di gradi sempre più perfetti. Nella storia ci sono, diversificati, i tratti della Legge universale, c’è la risposta unica, particolare, irripetibile, di ognuno, con le proprie componenti antropologiche, all’azione di quella Legge e perciò a Rippo interessano tutti gli uomini: essi sono la via per comprendere la storia e per scoprire il segreto nascosto nell’umanità; sono l’alterità necessaria perché ognuno possa procedere verso le proprie conquiste. Gli uomini, dice il filosofo, sono interdipendenti: unicità che ha bisogno della pluralità; "pluralità degli intelletti, tutti di eguale essenza e quindi della medesima Ragione, ma comunque tra loro differenti in base alla diversa - maggiore o minore - coscienza di sé"74. Il fatto che essi si comportino secondo modalità inadeguate e volgari non deve portare alla fuga ma ad una richiesta di comprensione.

 

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56. Diversamente da ciò che si legge nella prima parte dell'epistolario (il giovane era allora studente liceale) il Rippo universitario degli Appunti di letteratura latina "indica frequentemente se stesso come traduttore dei testi citati" (Tacito storico, cit., p. 7).
57. Lettere, cit., rispettivamente pp. 57 e 62.                                                                 
58. Ibid., p. 67.                                    
59. Prolegomeni, cit., p. 6                                                 
60. Rippo non ignorava che il tentativo di raggiungere, al di là dell'apparenza della percezione sensibile, ciò che è vero e sostanziale fu avviato contemporaneamente, oltre che in Grecia, in India e in Cina e come le diverse strade percorse dai tre movimenti spirituali si integrassero da rivelargli una sorta di ecumenismo dello spirito. Il punto di sutura tra i vari percorsi a noi pare rappresentato dalla figura dell'antico eremita o dell'antico sapiente, i quali conoscono il fascino sottile delle cose, possessori di quella saggezza antica che come un archetipo percorre tutta la tradizione classica e che sì collega alla saggezza orientale, e nei quali il Nostro riconosce la spiritualità in atto.
61. Poesie, cit., pp. 40-41.     
62. Ibid., cit., pp. 16-17.       
63. Ibid., cit., p. 37.                             
64. Non il Virgilio cortigiano che si "degrada" con l’Eneide (Lettere, cit., p. 98).
65. Cfr. rispettivamente: Poesie, cit., pp. 63-64, 74-75. 15. V. gli stessi motivi alle pp. 18-19, 61-62, 84-85.
66. Poesie inedite, cit., p. 53.
67. Poesie, cit., pp. 42 e 27.
68. Ibid., p. 66.
69. Poesie inedite, cit., pp. 110-111.
70. Lettere, cit., pp. 89-90.
71. B. Snell, La cultura greca e le origini dei pensiero europeo (Torino: Einaudi, 19632), pp. 366 e 365.
72. Lettere, cit., p. 102.
73. Prolegomeni, cit., p. 20 n. 43.
74. Ibid. p. 19.

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5. Tacito dava a Rippo la possibilità di penetrare nell’emblematico cammino di Roma attraverso la via maestra dell’indagine storica fatta da un uomo che per molti versi egli sentiva vicino. Già nell’epistolario Rippo, dicendo "parlo con Tacito, a considerare ’la burla che governa la nostra vita’ e che mi fa essere, come ben sai, così drastico e al tempo stesso scettico in campo politico"75, indica la comune visione della vita che è alla base della sua lettura dello storico latino76.

Rippo sente "la sua civiltà della massa", "terribilmente squallida", insensibile allo "scompenso tra l’idea e la realtà"77, vicina a quella di Tacito, l’uomo "snervato da una raffinatissima ed adulta civiltà"; come lui è scontento. Così è pure quel mondo che consuma "folli giornate ... a tendere ai ricchi la mano" da cui Catullo si isola o quello che non capi il sogno di Diocleziano78. Egli segue la ricerca tacitiana delle ragioni dei "degenerare di Roma" e "delle aberrazioni dei suoi imperatori, dei suoi senatori, dei suoi cittadini" perché comprende che nell’"interesse" e nel "rispetto" dello storico verso il "popolo giovane potenzialmente ricco delle nuove energie, che avrebbero dato vita alla nuova storia, primitivo e rozzo, ma semplice e forte ... che spregiava l’oro e la pompa della ricchezza", c’era la certezza, che era anche la sua, che il popolo civile spesso smarrisce la propria umanità la quale è vitale proprio nella semplicità79. Insieme a lui Rippo nei Germani scopriva una umanità ai primi stadi della sua storia nella cui genuinità l’uomo può innestare costruzioni più vere perché le forze che le devono alimentare non sono indebolite, dalle mollezze della civiltà superiore80.

Gli stessi motivi e le medesime suggestioni per la vicenda dell’uomo sono nell’Agricola dove c’è ancora un popolo giovane e fiero che emerge per semplicità e purezza. Qui però il quadro si arricchisce perché il popolo civile, quello romano contro cui si stagliava la diversa realtà del popolo barbaro, al di là dei suoi prodotti negativi - l’eccessiva libertà e l’estrema servitù, ma soprattutto quella "libido adsentandi" che tanta parte avrà nella condanna tacitiana - esprime uomini come Agricola che lasciano nella storia punti di riferimento validi. Si configura qui il compito della storia che è quello di trasformare in valore assoluto "le gesta, il pensiero e il sacrificio di un uomo finito e mortale", e si precisa il valore degli individui che nella civiltà evoluta riescono ad assommare i valori perduti81.

Se l’Agricola completa il disegno individuato nella Germania, con la Historia Augusta continua il processo di chiarificazione del compito della storia che qui si precisa come quello di assicurare alla "virtù gloria e alla malvagità l’ignominia". Essa è "giudice supremo" dell’umanità affannata nel suo secolare travaglio" perché può sfrondare dall’azione dell’uomo ciò che è "futile, laido, grossolano", assegnare ad ognuno il posto che col suo agire s’è meritato in modo che emerga un cammino valido ed esempiare82.

Rippo coglie un Tacito affascinato dall'uomo "con la sua continua vicenda di odi, di interessi, di eroismi, di vanità, di nobili azioni e di basse vigliaccherie" che conferisce dignità e valore morale allo svolgersi dei fatti e nello stesso tempo fa emergere la "legge morale universalmente valida" che dà "alla vita intelligente sulla terra valore e significato". Anche a lui interessa questo uomo83.

Nel mondo indagato da Tacito nelle Historiae emergono due realtà che si possono rapportare alle due "facce" dell’uomo: da una parte c’è la vita varia e sfarzosa, ma superficiale ed abietta delle grandi città dall’altra quella ordinata e tranquilla delle province. Lo squilibrio tra i due piani - Tacito è l’unico a denunciarlo nella generale approvazione di quel tempo - può essere risolto solo con la "garanzia e la tutela" del principe, colui che può assicurare l’azione della razionalità nella storia84.

Negli Annales, l’opera dell’età matura, si chiarisce lo sforzo di Tacito di cogliere nella serie degli eventi l’eterno, l’assoluto, l’universale, il dramma dell’uomo che è il "dramma della vita e del pensare85". Questa analisi, che conclude la ricerca tacitiana, porta lo storico a scoprire una legge interna alle cose che determina l’ascesa e il decadimento, il nerbo cioè che regge la storia e quindi anche la parabola esemplare di Roma. Questo statuto della storia è scritto negli uomini stessi. Il filosofo dei Prolegomeni cercava una conferma.

Di tale parabola a Tacito però interessa la decadenza che lo storico intuiva al di sotto dello splendore dello sfarzo. E Rippo segue Tacito con la stessa convinzione per scoprire come unico elemento catalizzatore della decadenza quella "libido adsentandi" cui prima abbiamo fatto cenno e che ora si chiarisce. Essa è quel taedium che è rinuncia all’antica dinamicità, è l’ozio come inerzia che diventa insinuante dolcezza, è la voluttà di essere servi, il non sapersi adattare alla libertà, il rifuggire dalle proprie responsabilità, il disperdersi nell’inquietudine del sapere e del potere, l’adattarsi subdolo e pericoloso alle cose86. Se Rippo insiste su questo tema è perché anche lui è convinto che il male dell’uomo risiede nell’accettazione e nella pianificazione, mentre la vita è dinamicità, contrasto, è accesso alla superiore sintesi che a sua volta si opporrà ad un’antitesi in un successivo momento della salutare dialettica della vita la quale in questo modo risponde alla trasformazione, essenza di ogni cosa.

Nella disamina tacitiana Rippo trova un’altra conferma: è illusoria la tranquillità della vita perché questa esiste solo nella Perfezione dopo che ci si è liberati dalla imperfezione della esistenza. È salutare allora l’angoscia rippiana che sostiene la trasformazione. Il continuo passare dal non-essere al divenire è adeguamento alla Legge, è vita. Il male consiste nel fermarsi, nel restare imperfetti che è il venir meno allo scopo della vita e quindi la morte; come ogni male che coinvolge l’uomo è l’addormentarsi dello spirito prigioniero del mondo sensibile, il non sentire la voce dell’autentico e dell’essenziale87. La crisi di Roma, la crisi dell’antichità che aveva perduto quelle virtù che avevano fatto di Diocleziano l’ultimo degli antichi e di Catullo l’unico eroe di se stesso come la crisi del mondo di Rippo erano dunque crisi di spiritualità. Ogni decadenza dipende dalla perdita di dinamismo che è "l’immensa riserva spirituale di fede e di idee".

Nel confronto con la mentalità diffusa al tempo di Tacito, tutta pervasa "del senso della grandezza di Roma e dell’eternità della sua missione civilizzatrice", Rippo coglie nello storico l’ultimo sforzo della romanità di "guardare a se stessa con chiarezza, e di esaminarsi alla luce dei suoi stessi problemi e dei suoi valori", ma ne vede anche la resa dinanzi alla realtà esaminata la quale diventa essa stessa una prigione, si "traduce in un peso e in un insormontabile impedimento ad un’opera di risanamento della società88.

Rippo però non ha il chiuso pessimismo di Tacito - la maturità dei tempi gliene dava la possibilità - egli poteva credere nell’innalzarsi della vita spirituale in forme sempre nuove e quindi nella correzione di ogni cammino in una specie di spirale dello spirito affidata all’uomo stesso, poteva credere in un rigenerarsi della civiltà dato che il rinnovamento è il nerbo insito in tutta la realtà. La parabola del mondo classico come ogni parabola, finita nella sua concretezza, ha in sé delle forme significative che sono i germi di una vita rigenerata e perciò il continuo rinnovarsi ("la gioia ricorrente del mandorleto") può e deve trovare nuovo alimento.

In questa prospettiva il leopardiano naufragare diventa approdo in realtà nuove che non sono più dell’uomo prodotto-che-si-stacca-dalla-materia, ma dell'uomo che libero spicca il volo, ricco solo di quella "povertà che è stupore" della quale Cristo risorgendo ha dato conferma; dopo che ci si è liberati però da quel grumo di terra che "si consuma al sole".

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75. Lettere, cit., p. 102. Si considerino i giudizi rippiani sul convenzionalismo della contestazione del suo tempo e come egli si sia introdotto beffardamente nella "beffa" di quella contestazione (ibid., pp. 89-91; e poi pp. 97, 81 e passim).
76. Si potrebbe ipotizzare che un legame analogo unisca Rippo agli altri autori latini che il Nostro analizzava in quella "mia Letteratura Latina" da cui estrapolò le pagine del Tacito storico (Cfr. ibid., p. 11 n. 5).
77. Cfr. Poesie inedite, cit., p. 53 e Lettere, cit., p. 90. Nelle Lettere paventerà di diventare parte di "questa società senza poesia che finora ha visto la protesta della nostra solitudine e del nostro rifiuto di adattarci al suo facile cliché di felicità" e più avanti parlerà di una società "gretta, bigotta, impreparata" di "una tradizione bugiarda e sostanzialmente immorale, ammalata di medioevo e di fascismo, con tutti quei suoi pregiudizi (ibid., pp. 99-101).
78. Cfr. rispettivamente Tacito storico, cit., p. 12 e Poesie, cit., pp. 16 e 40-41. 
79. Cfr. Tacito storico, cit., p. 12 e sgg. "E perciò non m’importa dei nuovi ragazzi / e delle nuove canzoni / e dell’amarezza di un popolo supernutrito / così anonimo e freddo nella nebbia / che lo divide" (Poesie inedite, p. 41).
80. Cfr. ibid., pp. 11-15.
81. Cfr. ibid., pp. 15-20.
82. Cfr. ibid., pp. 20-25.
83. Cfr. ibid., pp. 25-26.
84. Cfr. ibid., p. 30 e sgg.
85. Cfr. ibid., pp. 30-36.
86. Cfr. ibid., p. 36 e sgg.
87. "Spesso l’uomo anziché sforzarsi dì purificare il proprio Spirito, si compiace di soffermarsi alla pura sensazione (o piaceri sensibili). E quanto più egli sarà lontano dalla Razionalità vera e propria tanto più verrà meno alla scopo della sua stessa vita" (Prolegomeni, cit., p. 23)
88. Cfr. Tacito storico, cit., p. 51 e sgg.

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NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Vincenzo Maria Rippo nacque a Napoli l’8 ottobre 1947. Compì gli studi primari nella città partenopea fu poi nelle Marche e in Umbria ove, a Perugia, frequentò la facoltà di lettere. Mostrò profondi interessi culturali prediligendo la letteratura classica, e sensibilità alla problematica sociale, politica e religiosa che affrontò con ampia apertura mentale. Studiò la civiltà araba anche attraverso un lungo viaggio in Medio Oriente. Morì il 12 aprile del 1970 colpito da una fulminea leucemia mentre era in attesa della pubblicazione delle Poesie che uscirono postume nel luglio dello stesso anno suscitando subito grande interesse tanto che si parlò di un autentico "caso" letterario.

 

Opere: Poesie (Napoli: Istituto Editoriale Mezzogiorno, 1970 [19702]; Bologna, Ponte Nuovo, 1973). Poesie inedite e rare, a cura di F. D’Episcopo (Bologna, Ponte Nuovo 1984 [19852]). "Prolegomeni a una nuova metafisica dell’essere", a cura di C. Campanelli, in "Temponuovo, XXI, 1987, 37. Lettere a Francesca, a cura di F. D’Episcopo (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988). "Tacito storico" a cura di C. Campanelli, in "Temponuovo", XXIII, 1989, 46.

 

Saggi critici: M. Munier, Un poeta del Novecento: Vincenzo M. Rippo. Presentazione e testi (Cremona: motivi per la difesa della cultura, 1971); AA. VV., Testimonianze per Vincenzo Maria Rippo, a cura di V. Passerini Pignoni (Forli: Forum, 1973); S. Demarchi, Vita e poesia di Vincenzo M. Rippo (Bologna: Ponte Nuovo, 1975); Mario Gabriele Giordano, "Umanità ed arte nella poesia di Vincenzo M. Ripp,", in Lo studio critico della letteratura italiana (Napoli: Conte, 1975); P. Dyerval Angelini, Le ’cas’ Vincenzo Rippo: Mythe e Réalité, in "Revue des áudes Italiennes", XXII, 1976, 1-2; C. Di Biase, Vincenzo M. Rippo: un caso letterariario, in L’altra Napoli (Napoli: Società Editrice Napoletana, 1977); G. D’Errico, Le poesie di Vincenzo M. Rippo. Lettura critica, vol. I (Forli: Forum, 1979); V. Esposito, Invito alla poesia di Vincenzo M. Rippo (pref. di E. Giachery), a cura dell'Istituto di Lingua e Letteratura italiana dell’Università dell’Aquila (Avezzano: Libreria Editrice Universitaria, 1979); AA, VV., Dieci testimonianze per un poeta: Vincenzo M. Rippo (1947-1970), a cura di F. D’Episcopo (Salerno: Palladio, 1980); G. D’Errico, Le poesie di Vincenzo M. Rippo. Lettura critica, vol. Il (Forli: Forum, 1979); F. Di Carlo, Il discorso poetico di Vincenzo M. Rippo (Milano: Istituto di Propaganda Libraria, 1982); L. Reina, 'Toetica e poesia di Vincenzo M. Rippo, in Il viaggio di Demetra (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1982); P. Dyerval Angelini, L’assenza-presenza nel mondo poetico di Vincenzo M. Rippo, suppl. di "Riscontri", (Avellino: Sabatia, 1983);. S. Demarchi, Il problema critico di Vincenzo M. Rippo, in La parola pura (Abano Terme: Piovan, 1983); F. D’Episcopo, Classicità e contemporaneità, intr. a Poesie inedite e rare, cit.; F. D’Episcopo, Rippo e l’Islam (Milano: Centro Islamico, 1985, 7, [con appunti inediti sull’Islamismo]); C. Di Biase, Il Canzoniere di Vincenzo M. Rippo nella poesia del Novecento (Bologna: Ponte Nuovo, 1986). V. Vettori, Vincenzo Maria Rippo. Un poeta alle frontiere del tempo, (Salerno: Socìetà "Dante Alighieri", 1987); AA. VV., Vincenzo M. Rippo: un poeta a Spoleto, a cura dì L. Gentili (Spoleto: Accademia Spoletina, 1988); F. D’Episcopo, Memoria e storia, intr. a Lettere a Francesca, cit.; P. Dyerval Angelini, L’"azzurro" nella poesia di Vincenzo M. Rippo (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1990); M. Gargotta, Vincenzo Maria Rippo. Incontro e distacco, (Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1990).

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In "Forum Italicum", v. 25, n. 1, 1991, pp. 17-39.

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