Saggio
(1995) |
"La presenza come eccezionale fatto
medianico, presentimento o avvertimento di un al di là, dietro una porta, oltre
una finestra dischiusa sull’ignoto ... " recita la
fascetta di copertina sull’ultima raccolta di racconti di
Rosa Berti Sabbieti dando ad un tempo la chiave di
lettura degli stessi e l’operazione poetica messa in atto dalla scrittrice
marchigiana.
Bisogna dire subito che questi racconti sono
narrazioni di una poetessa non solo perché della poesia hanno la densità e la
forza evocatrice, la profondità del sentimento e il potere di trascendimento,
non solo perché sono quadri d’impressione che si tramutano in prosa ma perché
hanno l’approdo permesso solo al poeta se tale è colui che
avverte intorno un agitarsi di immagini e di forme cogliendone l’aspetto
emotivamente più intenso e più suggestivo, cioè colui per il quale l’attrazione
del confine si trasforma in sguardo affascinato sull’"oltre" che ha
il magnetismo di un’esperienza subliminale.
Presenza è allora cogliere l’atmosfera
incantata di un luogo ma anche la sua capacità di partecipazione alla vicenda
umana, percepire il potere d’attrazione di un colore o di un oggetto ma anche
in essi una pregnanza preconizzante, avvertire la
forza di seduzione o la valenza significativa di taluni comportamenti, è
insomma sentire nel reale atmosfere e sfumature arcane e abbandonarsi a quest’aura misteriosa senza spiegarla.
Tutto questo è l’"oltre" della Berti Sabbieti - e del poeta - e, come la stessa dice, è "un
orizzonte molto vasto e luminoso altrettanto reale" (85). Un territorio di
confine permesso solo a pochi: sono zone dell’anima dove si fa forte il
sentimento o sono luoghi della memoria dove la possibilità medianica propria
del poeta si esalta.
Così la presenza si lega fortemente
all’assenza divenendo con essa un binomio che si
qualifica come nucleo generativo e cifra della poesia berti sabbietiana.
Una presenza che si fa tale o che si rintraccia nell’assenza e un'assenza che diventa presenza financo
materializzandosi in modo alto e sofferto.
Questa operazione che scopre taciti misteri, che permette contatti appena mormorati ma sostanziati della
sacralità degli affetti diventa segreta iniziazione ad un rito magico, di
nobile magia. Non la magia che si compiace delle cose oscure
ma quella che ne avverte il mistero, inteso come essenza del reale, e che
lascia l’animo intriso di nostalgia, la magia insomma dei filosofi e dei poeti.
La magia della Berti Sabbieti
è forma, è energia, è forza, è capacità di attingere arcane suggestioni o
memorie dimenticale, è operazione del pensiero, è presa di
coscienza che incanta diventando una categoria della poesia.
In tal modo il poeta trasformato in vate - tali
erano anticamente i poeti - svela nella Berti Sabbieti
Non per niente la ricerca dei segni
dell’"oltre" avviene nei luoghi della Sibilla "davantì all'Appennino" (71). Non la città distraente e vorticosa dove il profondo si ritrae quasi
impaurito ma luoghi ritrovati e rivissuti con quella malinconia nostalgica
propria delle cose che non ci sono più o che ancora conservano il
contatto con la natura e sono ricchi di oggetti
essenziali: ora è un "pugno di casette" "sopra un dirupo"
(26), ora un "piccolo paese arcaico tutto rintuzzato nella piazza grande
davanti alla chiesa barocca o nel campo della fiera del bestiame" (15),
oppure è il borgo col suo lago (58). E avviene questa indagine
tra la gente semplice di paese, "di quella semplice e generosa civiltà
della terra, generosa nel senso che sapeva misteriosamente rendere felici, come
se fossero ricchi" (27), che costituisce l’alito magico del tempo che vive
a contatto con le sue scaturigini, uomini legati ad antichi usi, alle cose e ai
nomi quasi in virtù d’un misterioso potere.
Questi elementi - persone o luoghi ma la natura
tutta - hanno funzioni e reazioni diverse nell’orizzonte luminoso che
Seguiamo la poetessa in questo viaggio a cominciare
dalla prima tappa (Notte di San Lorenzo) dalla forte atmosfera
prodigiosa dove l’arcano - un’assenza - si materializza in un fenomeno della
natura. Ma l’assenza è avvertita come "dolore
sempre presente", dunque una presenza continua e tragica nella sua
mancanza, il "male oscuro", che è la vera forza del poeta. Ed è proprio il bisogno di "oltre" quel richiamo
metafisico che ha alimentato l’umana realizzazione. Perciò può avvenire il
prodigio - il sacrificio di lui per Lui - che è il
definitivo abbandono a quel richiamo - di Lui che ha voce profonda - e
l’immolarsi del lui, come per Abramo. Tutto questo avviene sullo sfondo di una
natura particolarmente vicina ("io sento che la valle aspetta, io soffro
per non capire se anche le stelle soffrono"), avvertita come appartenenza
("per me sono mie anche le cose che non mi appartengono per
niente") e persino compartecipe di un unico grande
mistero ("anche la morte delle lucciole è la morte dell’uomo").
In Amneris e la luna si precisa questo
"lui" con cui ognuno deve fare i conti: l’altra faccia della luna cioè, quella parte buia di ognuno di noi che fa paura ma a
cui non bisogna arrendersi. Il racconto instaura il tema dell'itinerario nella
memoria, territorio estremo di affetti silenziosi
("Ricordi, ricordi, ricordi correvano nella memoria, dolci e drammatici;
s’imponeva di afferrare solo quelli lieti ma gli altri sopravvenivano
violenti"), che può anche annichilire. Contro questa degenerazione si
esalta il rapporto madre-figlia, quello più misterioso
che possano gli uomini conoscere. La madre infatti, in
un secondo slancio generativo con la sua "metamorfosi integrale" che
salva la figlia, sconfigge "il destino duro che colpisce invadente come
una tragedia classica" allontanando quella "mano unghiata di
ferro" che tentava di incidere "il suo marchio d’infamia su di
lei".
La madre di Amneris pone il
problema dell’enigma uomo che è affrontato nel racconto seguente (Una visita
a Tozzo). È l’uomo quel "passante strano" che cerca
"qua e là emozioni diverse, incontri in paesi e gente la più varia"
(14) oppure è "quel pazzo" (16) che non riesce a conoscersi?
Certamente contraddizione che porta ad essere "uno, nessuno e
centomila", "tante esperienze che ti qualificano con tante facce" ma che alla fine fanno ritrovare soli
"con centomila delusioni" (16). Il racconto è la metafora dell’uomo di oggi che il tempo erode, l’uomo che va alla ricerca di sé
e che si ritrova, quando si toglie le sue mille maschere, solo a contatto col
suo vero se stesso. Ma Tozzo, il piccolo paese lì in cima al colle, è anche un
archetipo - il nome ne sottolinea la valenza - quello
dei luoghi della epifania della presenza che si manifesta solo fuori
dell’ingranaggio "del produrre e del consumare". Mondo
agreste e primitivo che rende possibili certi accessi. A Tozzo avviene infatti un incontro che ha la pregnanza di una mitica
discesa agli inferi.
A queste scaturigini, cioè
là dove si costituisce l’uomo, va il racconto Erano tre. E scopre
una innocenza macchiata dal triste realismo della
realtà. I tre bimbi, "piccoli, scalzi con la faccetta per lo più unta di fresco" ancora capaci di ascoltare le
fiabe, nascondono nella crudezza dei loro giochi l’inutile sadismo dei grandi
colto, con la mediazione della natura - in campagna si può più fortemente
avvertire la terra che perde il canto e il volo degli uccelli -, in tutta la
sua agghiacciante verità.
Prosegue in Volevo
soltanto correre l’indagine precedente con la toccante vicenda di Lara,
quasi figlia dei boschi dove aveva gustato la voluttà della corsa come quei
"conigli tenuti liberi" che rincorreva tra i lecci. La bimba, che si
esprimeva nella libertà della natura ed era essa stessa libertà ("diceva che tutto deve sempre correre, se no diventa brutto e
pare morto"), divenuta depressa e strana dinanzi al lupo ridotto in
cattività, completa la sua trasformazione vittima del perverso maleficio dei
grandi e sbocca, quasi inevitabilmente, nella fissità di una paralisi che
sottolinea, nell’iniquo contrappasso, l'imperscrutabilità di certi insulsi
assiomi umani. La vicenda, a cui la scelta narrativa dà un
impronta epico-didascalica, ha la densità di
un exemplum.
Se la natura ha fatto da tramite per il discorso
condotto nei due racconti precedenti ne
Qui la natura si fa accessibile solo a lei che
comprende le sue favole trasformandole in "leggende popolari" sia che
le fossero raccontate dalle faville del fuoco - "le idee rosse" - sia
che le fossero portate dal vento ("diceva infatti
che era spesso il vento, suo amico, come lo chiamava, a portarle le idee che
coglieva, come fiori di campo, seduta su uno dei tre pietroni
vicino alla porticina della sua casetta") e tradotte in favole dal sole
nascente ("guardava verso il sole nascente a prendere la parola da
lui"). Dinanzi a questa natura come su un altare - ora è "il gran
camino acceso" che profuma il ginepro, ora il "querceto"
salutato dal "festoso cinguettio" dei passeri in
sull’aurora - la vergine Saracca è vestale, "una sacerdotessa della
madre terra" "mantenendo con essa quel cordone ombelicale di una
sacrale maternità". La magia della natura in questo racconto si configura
come una esperienza esistenziale a cui si accosta
innocenza e ingenuità.
In Tanti, tanti ciclamini s’indaga un altro spazio: quello umano segnato dagli eventi.
La vicenda di Marta, dominata dall’amore, "quello vero, quello
grande", trovato e perduto "all’improvviso come un lampo",
preconizzata da segni ("ci sono i segni, certi segni, nella vita ...
") e suggellata da un marchio ("ciclamini grandi, rosa sfumati sul
bianco, bellissimi"), rende la donna fortemente
sensitiva. Qui l’itinerario nella memoria a cui si riduce la sua vita diventa
religione che si fa rito quotidiano, però è fissazione, chiuso sogno a colori
dove il materializzarsi dell’assenza diventa ossessione paranoica che fa
perdere il contatto con la realtà ("ti i si avventa addosso
tutto il peso del mondo, rimani ingabbiata dentro una corazza di ferro,
ti senti prigioniera dentro te stessa, vivi senza vivere, ti lasci andare a una
forma abitudinaria passiva, non trovi te stessa"). Fino a che il nero del
mondo reale diventa insopportabile mentre appare più
allettante il "viaggio azzurro" della morte.
Il sogno invece può e deve configurarsi come
"cammino pilotato, forse dal nostro stesso destino, o per nostra chiara
volontà in una direzione di marcia" (Sogno) che fa trovare l’Itaca di Ulisse, approdo dopo la ricerca e l’esperienza, luogo
dove si giunge ricchi di saggezza che dà vita. La forza rigeneratrice dì certi
percorsi nascosti, come "canto toccante" di "esule", è il
lievito di seducenti viaggi verso orizzonti sconfinati alla ricerca di un altrove
da tutti raggiungibile. La vita
infatti è ricca di eventi che hanno un portato sommerso, bisogna aprirli
alla luce dell’est e non lasciare che scorrano via da noi come l’acqua che
scivola "sul vetro sporco di polvere grassa dal troppo smog". Fausti
incontri o avversi - può essere un "serpente" o "l’uomo della
provvidenza" - sono gli accadimenti della vita; spesso però per noi
diventano inevitabili cifre umane (Incontro).
Continuando in questo itinerario
di ricerca, che dopo il racconto Sogno sembra prendere una direzione di
indagine-proposta, ecco un "risveglio" che porta il ripudio della
luce "gelida e metallica, fredda e cattiva" di "sagome
strane", beffarde e maliarde divenute mostri nell’oppressione prepotente
di tutti i prodotti dell’uomo che gli si rivoltano contro. È Il risveglio di
un pazzo. Ma è veramente pazzo chi apre gli occhi ai "fantasmi"
che diventano "cose vere", chi stabilisce relazioni col vento
("entri pure il vento a riempire la stanza, avrà a farcela con me" [
... ] "il vento mi porta il senso della terra: le sue chiacchiere, le sue
intenzioni, le sue creazioni, diventa anche fiori e cibo" [ ... ]
"sento che adesso il vento ha cambiato registro, il canto si è fatto quasi
tenero" [ ... 1 "mi dice tante idee, però confuse, forse neppure lui
è sicuro di ciò che dice, tanto la verità non è di questo mondo ... " [
... ] "adesso mi pare di capire che mi racconta della lotta permanente tra
la terra e il mare" [ ... ] "mi dice che
anche in cielo c’è lotta tra le stelle e il sole" e nella memoria ritrova
la figura fondante dell’infanzia, quella nonna, "bella, saggia, dolce,
brava", sua radice e suo rifugio ("morta mia nonna mi sono sentito
senza radici; i miei genitori invece non mi hanno capito né amato come
lei") e ritrova la "soffitta" con il "lume ad olio"?
Anche qui c’è il fascino delle cose importanti che non ci sono
più.
Come la nonna, lo zio di Vico e Luto
(Gli impertinenti) appartiene a quella categoria di persone dalla
straordinaria forza attrattiva, quasi numi tutelari, che diventano padri
fondanti, pietre miliari che bastano a sostenere una vita ("Invece lo zio Vigì non ispirava incursioni impertinenti, era solo molto
bello per i nipotini, questo bastava loro, eppoi
incuteva un altro tipo di rapporto diverso da quello sentito per i genitori,
come se questi conosciuti di meno richiedessero altri tipi d'incontro"). Cosa che manca all’altro bimbo - Ciò de Il terremoto
- che scopre l’assenza del padre, pur presente, e, nell’assenza
della madre, un vuoto che non riesce a divenire presenza e si fa invece fuga.
Le situazioni di pieno e di vuoto
descritte nei due racconti precedenti insieme formano quell’"alone bianco" che chiude "la storia
bianca del paese" e unisce le due sorelle romane di Le Albe. C’è
qui la "metafora del bene e del male", del binomio indivisibile che
accompagna la vita dell’uomo, forze opposte ma necessarie sistole e diastole
della sua realizzazione. Nel paese
che accoglie le due gemelle e che parla di loro avvolgendole di questo colore
enigmatico, si realizza quasi un evento preconizzato: con l’una scompare anche
l’altra. Così però si isterilisce la vita
dell'uomo come è quella descritta ne Il borgo divenuto "opaco"
- come quel suo "maggio che non sa buttarsi via" il "cappotto
umido" del suo "calore untuoso" - e malato di "astenia"
nel vuoto di "frasi fatte" che sembrano "litanie funebri"
per accompagnarlo "alle sue esequie".
Con Le case rosse ritorna un vuoto che non si
fa pieno e ritorna il tema dell'assenza della madre. La morte della donna infatti crea tra i due fratelli protagonisti un legame
ossessivo ed inconscio che dà inizio ad un processo di spersonalizzazione che
si manifesta nella sostituzione di quell’assenza con
la presenza paranoica di un colore ("Quel rosso così presente li aveva
condizionati con un lavorio sommesso, lento, ma continuo, come se un
cromatismo, di per sé assai bello, si fosse fatto esso stesso protagonista, un
personaggio dominante su uomini e cose" [ ... ] "ai due fratelli
sembrava che la stessa casa fosse a chiedere tanto, infatti il loro ragionamento
quasi li spersonalizzava in un lieve processo alienante di reificazione"
[…] "vedevano nella stessa casa quasi la personificazione della madre a
cui erano rimasti fin troppo legati dopo la sua morte"); fino a che, rotto
l’incantesimo con la morte di uno dei due e la fuga dell’altro, tutto viene
travolto in un moto di autodistruzione che coinvolge inspiegabilmente anche la
parte più viva del mondo in cui essi erano vissuti - "gli aceri rosso-porpora-nero" divenuti "tutti secchi"
- rendendo legittimo il turbato interrogativo finale: "Quante cose però
non si comprendono e pongono dubbi strani?".
La memoria intesa invece come qualcosa
che si sente dentro, come luogo che si fa religione e stimolo si trova in Un
ritorno. Qui la guerra fatta ricordo attrae come un "dovere dì
coscienza", come se si potesse "purificare la colpa di una guerra,
crudele come tutte". Si ha così un viaggio reso sacro dai ricordi di tante
morti e di tante sofferenze ("Marco rivede i grossi alberi dove era
passato con i suoi soldati, ricorda le imboscate, la fame divorante di tante
giornate, gli spari che gli hanno rovinato il timpano dell’orecchio destro, il
freddo che gli aveva incominciato a congelare piedi e mani") ma si ha
anche una immersione per trarre da quei luoghi le
memorie spente, l’anima degli avvenimenti di cui essi furono teatro
("Tutta la guerra, fatta memoria, la vuole stendere come un gran lenzuolo
bianco dì bucato sotto quegli alberi, quasi chiedendo loro di purificare la
colpa di una guerra, crudele come tutte; gli alberi gli pare che portino pace,
pace e quasi perdono di tante colpe, quasi vorrebbe scuoterli, interrogarli,
farli uomini vivi, anche per passare con loro una parola").
A contatto con certi luoghi, interrogandoli anche
con un gioco di comparazione con altri poeti che vi colsero nascosti
significati, si può scoprire "una fonte a cui non si è mai attinta una
goccia d'acqua". La mia Spagna aggiunge un altro elemento alla ricerca
della pregnanza di certi luoghi ("Ivi il razionale che può essere tutto un
retaggio culturale, una preparazione turistica, una qualsiasi coscienza
acquisita si lievita e ne nasce un sogno d'intuizione, d'emozione, di estasi; tutto dentro di te si fa magico; tu stai in
ascolto, rapito in uno stato mistico" [ ... ] "avrei in certo senso
voluto scappar via da tanta seduzione in cerca della mia libertà, ma dall'altra
parte sentivo che da qualche luogo non sarei uscita indenne, perché una
esperienza nuova di vita era entrata entro me").
Come i luoghi anche i comportamenti umani possono
avere qualcosa di incomprensibile come quelli di Giada
e Gianna (G.G.), due anime diverse nella cui
scelta appagante ma imprevedibile c’è la risposta ad un unico forte richiamo. E c’è anche la scoperta di una contraddizione che serpeggia sempre
più prepotente nel mondo ("Ci sembra buio il mondo, sia pure caro, che
abbiamo lasciato. L’Africa è piena di sole") e che è ripresa dal brano
seguente.
Fiori morti è infatti un quadro ricco di significato, un’allegoria dove
l’autrice affida al traslato - la lingua dei vati e delle muse - la forza della
sua verità. C’è un letamaio abbandonato ai margini di un bosco e c’è un
giardino di fiori ("sembrano fiori nati da sé, ma non lo sono, anzi
mancano i fiori spontanei"), c’è una "piantina grassa che vuole farsi
strada verso più luce", ci sono gli insetti che "volteggiano e
danzano confusi" e su tutto il canto delle cicale, tutte presenze a sottolineare l’irrazionalità violenta dell’uomo e le sue
stridenti contraddizioni.
La metafora dei fiori morti, per la forza che
hanno le cose estreme, sembra voler preparare
l’approdo dei due racconti finali ed indicare la validità di quegli orizzonti
dell’uomo che non potranno mai essere spenti dalla sua cecità, quegli spazi che
prendono più forza proprio quando questa è più profonda.
1 due brani raccontano una estrema
possibilità, quella che l’uomo può vivere nel momento della sua vita in cui si
trova solo con se stesso dinanzi all’ignoto che di più attrae e turba perché è
quello definitivo. Allora può accadere che prendono corpo certi legami, che emerge il filo rosso fondante che lega l’uomo solo di fronte
alla sua morte a chi gli ha dato quella vita che se ne va, la madre. Il
generato congiunto misticamente al generante. Nascita e morte,
due momenti estremi ed essenziali dell’uomo, uniti nell’essere più
straordinario e misterioso che l’umanità possegga.
Alla fine del suo percorso
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In "Riscontri", luglio-dicembre 1996 |
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