Leggere la
Scritture
Testi
di Gioacchino La Greca
I
RITI E
La Messa di Bolsena di Raffaello
Le riflessioni che adesso seguiranno sono mie libere
interpretazioni del pensiero di un valente teologo spagnolo Josè Maria Castillo,
e le considerazioni mie non possono e non debbono essere in alcun modo
addebitate al pensiero del teologo, il quale è sì ispiratore, ma non certo
l’autore di quanto scrivo. Il nostro discorso spazierà su temi diversi, sulla scia del
pensiero di Castillo e vuole essere uno dei punti di partenza per una
riflessione libera e laica della nostra cultura religiosa. Quando parlo di
laicità non lo dico contrapponendo il termine a religiosità, ma parlando di
un metodo di studio della realtà che cerca di essere vero, onesto, che cerca
di soppesare ogni fenomeno, ogni situazione, cogliendone gli aspetti anche
contraddittori cercando di ridurli a sintesi ragionevole e intellettualmente
onesta. La nostra vita di credenti, cristiani e cattolici si basa su due aspetti
fondamentali: la figura di Gesù, così come ce la narra il Vangelo, e i Riti
Liturgici come si sono venuti sviluppando nei secoli. Ora succede che la
fedeltà alle pratiche religiose, ai Riti appunto, hanno preso il posto della
fedeltà al Vangelo e a Gesù. I Riti sono cioè dei ladri che hanno rubato la memoria
di Cristo, occupando il suo posto nella sacralità (Castillo). Il Rito per
essere celebrato ha bisogno di una liturgia codificata e sicura, e di uno
spazio delimitato da quello esterno, ove sia puro l’interno e impuro e non
adatto alla celebrazione l’esterno. Il dio del Rito è un Dio sacro, egli
sacralizza lo spazio, il tempo, gli oggetti, i paramenti, tutti i
partecipanti allo stesso rito. È un dio che è nemico del dio di Gesù, che non
sacralizza niente e che possiamo dire è un dio del Profano. La nostra fede è diventata col tempo la fede del Rito, e il
centro di essa è il dio del tempio, del sacro, delle liturgie, ma non più il
dio di Gesù. Eppure Gesù ci ha mostrato il volto di un Dio che non agisce in
uno spazio sacro, non distingue tra puro e impuro, non conosce mediazione
alcuna, né offerte e sacrifici del tempio, ma sempre soccorre e si china sul
bisognoso e sventurato che incontra. La nostra cultura religiosa però ha voluto sviluppare delle forme
di approccio al sacro e al divino sia commemorative che di comunicazione. La
religione così sviluppa un insieme di simboli per stabilire una comunicazione
più o meno diretta con Dio. Nascono con questa esigenza i Sacramenti della
chiesa, istituire cioè dei segni
per comunicare con Dio. Il segno è
un concetto simbolico, è un fatto culturale, serve per esprimere un concetto
in forma anche breve ed è legato al logos,
pensiero. I simboli invece sono
legati al bios, alla vita, alla azione, e non presentano corrispondenza con i
segni . Ora qualunque comunicazione
con Dio sarebbe meglio esercitarla con la vita, con l’azione e il giusto
operare, quindi con l’espressione simbolica, che è molto più forte del segno
concettuale. Se ci pensiamo bene c’è un sottile equivoco sulla definizione di
sacramento del CCC, che risale a S. Tommaso che definì segni i sacramenti, quando invece essi sono simboli. Quando l’espressione simbolica è individuale si ha una
esperienza libera, non vincolata; quando invece serve per una espressione
comunitaria essa si manifesta nel Rito. Il Rito armonizza l’espressione
simbolica libera (Castillo), cioè armonizza l’espressione individuale della
vita di ognuno. La violazione del rituale porta alla punizione. Qualsiasi
esperienza religiosa è vincolata al concetto di Tabù, che è il pericolo che si corre infrangendo le regole, e
perciò l’assoggettamento alla punizione, quindi la minaccia e la punizione. Gesù non ha fondato nessuna religione, né ha minacciato punizioni
per l’infrazione di qualche regola e tabù. Non poteva fondare religioni
basate sul potere, visto che il potere religioso lo ha ammazzato, così come
non ha istituito nessun sacramento con rituali . Il Rituale non trasforma
l’uomo né in meglio, né in peggio, anzi spesso trae in inganno. Persone ligi
ai rituali e ai doveri religiosi spesso non sono quello che esternamente
professano, tante immagini televisive di eucarestie con presidenti vari lo
stanno a dimostrare. Da questo ne consegue che il centro della religiosità deve
trovarsi e consistere nel “comportamento etico”, non nei riti. La religiosità
deve essere centrata sulla “misericordia”, verso i deboli e i peccatori, le
prostitute e gli schiavi, perché saremo giudicati “non” per quello che
abbiamo “creduto”, ma per “come” avremo “agito” verso gli altri, e questo
indipendentemente da quale chiesa di appartenenza è stato fatto. Gesù, da
buon ebreo, andava al tempio non per fare sacrifici e pregare, egli pregò
poche volte e sempre in occasione di contrasto con i suoi discepoli, ma al
tempio egli parlava del “brnr” da fare agli uomini,
e ogni volta finiva male per lui che rischiava il linciaggio. I Vangeli sono un racconto laicista radicale (vedi sopra
significato laico) perché il centro dei Vangeli non sono i “tabù”, i
comandamenti, ma la vita di un uomo, che predicava il Regno di Dio, guarendo
chi soffre e sfamando chi ha fame (Castillo). Fu Paolo il primo teologo che inventò la teologia per spiegare i
primi due rituali del cristianesimo: battesimo ed eucarestia vengono da
Paolo. Egli creò elementi basilari che fossero gli stessi per le diverse
comunità, che non avevano riti comuni sacri e spazi sacri. Infatti
celebravano il cosiddetto culto domestico. Nella eucaristia per esempio, si
tende a pregare, a invocare (epiclesi)
un Dio che è al di sopra della comunità, in contrasto con quello che dice
Gesù, per cui il centro è Gesù a tavola, che mangia assieme a noi, senza
escludere nessuno in base alle categorie della purezza, ma includendo tutti
in quella del “bisogno” di lui. Gesù non fa nessuna elemosina, ma condivide
la sua tavola e il suo pane. Adesso invece il centro della celebrazione
eucaristica è occupato dalla liturgia e dal rito, ecco perché sono ladri di
Cristo. Se non c’è vita, bios, il “roto” diventa un atto protocollare, mummificato
(Castillo). La celebrazione odierna della messa è associata al potere e alla
dignità della persona sacra che presiede la funzione liturgica. La messa
diventa così un “privilegio” dei chierici e non un “diritto” dei fedeli. Non
si può celebrare l’eucaristia se non c’è unione, concordia, armonia nella
comunità: anche se c’è il papa presente, perché non c’è nessun potere che rende
degno il sacramento senza questi valori (Castillo). Nella chiesa cristiana non può esservi altra autorità se non
quella del Cristo, che si cinge i fianchi, lava i piedi, si spezza (Scalia).
Allora dobbiamo prendere coscienza che non si celebra un sacramento senza che
questo non abbia risvolti positivi nella vita dell’uomo, perché non può
bastare la formula “ex opere operato“ a rendere valido il sacramento. Non sono
sufficienti, cioè, solo la corretta liturgia e la predisposizione del
celebrante, ma occorre che il sacramento operi una trasformazione interiore
che si ripercuota nella vita di ognuno. Gesù cenò con i suoi e non istituì solo un memoriale di ricordo e
di espiazione, ma insegnò ancora una volta che il Regno di Dio si realizza
condividendo con gli altri anche il poco, facendo degli altri il centro della
propria vita comunitaria, superare le barriere che ci dividono per essere
ecclesia di Cristo sempre. La pienezza di vita a cui siamo chiamati si compie
nel momento in cui “doniamo”, perché il Signore è colui che dà, secondo i
bisogni e non per i meriti. È la religione che divide in meritevoli e non,
che erige esempi e modelli da imitare creando le categorie del superiore e
inferiore. Gesù ci ha chiamati tutti alla umiltà degli ultimi, a essere
pronti e fecondi ad accogliere la sua parola come lo fu Maria. Si fece servo
e schiavo non per predilezione particolare, ma per predisposizione degli
ultimi ad accogliere la sua buona novella, ergendosi, lui servo, a simbolo di
tutta l’umanità. Se riusciamo a comprendere l’eucaristia come non rito, ma
come significato stesso di “pane”, avremo compreso che essa è tenerezza per
chi soffre, risposta a ogni fame e sete dell’uomo, disponibilità a un dono
senza ritorno (Scalia). |
RELIGIOSITÀ E FEDE
Il
rito della festa
Ricevo da un mio carissimo amico questa lettera che fa pendant con il capitolo precedente e completa
in maniera egregia, a parere mio, il discorso sul significato dei Riti
religiosi. Essa è da gustare e centellinare come un sorso di buon vino, con
calma per goderne il forte e gustoso sapore. "Cittadini! Viva Sant’
Agata!” Mi piace questa acclamazione che non chiama i catanesi
cristiani, cattolici, ma “cittadini”;
e pensavo a quanto bisogno di “cittadinanza”
vera, autentica, ci sia in questa città, purtroppo priva di senso civico, di
spirito di collaborazione, di interesse al bene comune, di cura per le cose
di tutti, dal verde della aiuole, alla pulizia delle strade, dal rispetto del
codice stradale, alle più elementari regole di convivenza, una città in cui
sono sotto processo amministratori che hanno fatto uso disinvolto del
pubblico denaro e manca l’essenziale soprattutto per la gente particolarmente
priva di assistenza e di servizi umanamente decenti… Una “cittadinanza”
assente che però, dietro il fercolo della santa,
grida: “Viva Sant’Agata”. Non è fuor di luogo, per una comunità cristiana interrogarsi
sul significato di questa festa. Agata, la cui esperienza di vita certamente
noi tutti conosciamo, è stata una ragazza forte e decisa. Ai suoi tempi
essere cristiani, testimoniare Cristo, non era una cosa facile e tranquilla. Il contesto religioso e sociale di quei tempi, lo stesso
Stato, non accettava i cristiani, i quali erano spesso, se coerenti con la
testimonianza della loro fede, costretti al martirio. E martirio significa proprio
“testimonianza”. Essere fedeli a Cristo non era un fatto privato. Tanto è vero
che, se fosse stato privato, nessuno li avrebbe disturbati e perseguitati. Il loro modo di vivere, il loro modo di pensare loro modo di
fare era diametralmente opposto al modo di fare, di vivere, di pensare
comune. La religione dei cristiani, a quei tempi era una testimonianza
di fede, di speranza, di amore, di impegno spesso diametralmente di segno
contrario al modo di vedere e di pensare e di agire di tutti gli altri. Anche i riti, le processioni, le feste religiose pagane non li
attiravano per nulla; essi li consideravano come superstizioni indegne della
vera fede in Dio. Sant’Agata è testimone di tutto questo.
Io non lo so, non ho contatti diretti con il paradiso. Ma sarei tanto curioso di sapere che ne pensa la stessa
Sant’Agata della sua festa che, per gli strani scherzi del destino, ricalca,
come molte feste dei santi ai nostri giorni, le feste pagane dei suoi tempi.
Perché la festa di Sant’Agata, stiamo attenti, è una festa religiosa, anzi
religiosissima. La festa religiosa più bella del mondo, la definiscono, con
un pizzico di esagerazione, i “devoti”. Il culto, il voto, la processione, la candela, il cero, gli
evviva a Sant’Agata o a San Gennaro quando rinnova il miracolo sono uno
stupendo fenomeno religioso, popolare, spontaneo, umano. Se andate su Internet, li potete vedere, con alcune
trascurabili varianti, in India come nel Tibet, in Africa o in Mongolia come
espressione della religiosità di quei popoli. Assicurarsi la protezione dei santi, (o degli dei) onorarli,
pregarli, far loro dei voti, accendere lumini e candele per assicurarsene la
protezione, è un modo di fare comune a tutti gli uomini religiosi, in ogni
parte del mondo. Fanno parte del concetto naturale di religiosità. Io faccio
qualcosa per Dio, faccio un sacrificio, come facevano gli ebrei, un bue, una
capra o una pecora, faccio un voto, accendo una candela… più grossa è la
candela più grande è la mia religiosità… e la divinità o i santi, nel nostro
caso, sono tenuti a fare qualcosa per me, vengono incontro ai miei bisogni,
soddisfano le mie necessità, risolvono i miei problemi. Questa è religione, e
come religione va benissimo. Il guaio è che il cristianesimo, quel cristianesimo che Agata
ha vissuto, che ha fatto di lei una martire, una santa, è un’altra cosa. Lei lo sapeva che Cristo è venuto per indicarci strade
completamente diverse per realizzare il nostro rapporto con Dio. Lei ha
capito che Cristo non ci insegna a mettere al sicuro noi stessi. Lei ci ha
detto e ancora ci dice che è necessario perdersi per salvarsi, che è necessario
portare la croce, affrontare la morte per testimoniare Cristo, farsi carico,
mettersi sulle spalle i mali del mondo non le vare dei santi. Offrire a Dio
non le candele per ottenere una grazia, ma, giorno per giorno, la propria
vita per essere vicini agli altri. Lei certamente avrà meditato quelle parole di Cristo nel
vangelo di Matteo: “Non fate come i pagani che quando pregano sprecano molte
parole, credendo di essere esauditi a furia di parole”. (Immaginiamo le urla
dietro la vara…) “Il padre vostro
celeste sa di che cosa avete bisogno. Cercate anzitutto il regno di Dio, e
vedrete che tutto il resto, tutte le altre cose, vi saranno date in più…” C’è molta, moltissima religiosità, nella migliore delle
ipotesi nei devoti che vestono il sacco e vanno dietro Sant’Agata per tre
giorni. Ma non ditemi che c’è la fede cristiana. La fede è un’altra
cosa. La religiosità dice a Dio: “Che cosa puoi fare tu per me”? La fede chiede a Dio: Che
cosa posso fare io per te? L’uomo religioso dice a Dio: “Ecco il mio voto, la mia offerta, la mia candela… tu, in cambio mi
devi benedire, mi devi aiutare, devi risolvere i miei problemi, devi cambiare
la testa della gente…, devi farmi trovare l’amore, quello giusto, il lavoro,
la casa, devi farmi vincere un terno al lotto, devi guarirmi dalla malattia… L’uomo di fede dice a Dio: “A Te, Signore, affido la mia vita… Sono al tuo servizio… Io lo so che
tu mi vuoi bene… Se sono al tuo servizio i miei problemi li affido a te…, tu
conosci meglio di me le mie necessità… Io voglio che tu mi benedica, che dica
bene di me, non ti chiedo di liberarmi dai guai, li voglio affrontare i guai,
come ogni donna, come ogni uomo di questo mondo, come ha fatto Cristo, il
frutto benedetto del seno di Maria, come ha fatto lei, come ha fatto Agata…
Io non ti offro né sacrifici, né olocausti, un corpo mi hai dato… Ecco, per
questo io vengo, Signore, a fare la tua volontà… La religione o la religiosità è il tentativo di liberarsi dei
guai servendosi di Dio. La fede è il proposito di affrontare i guai per servire Dio. La fede è la capacità di affrontare con la forza che viene da
Dio, i guai della nostra vita, di dare prova di speranza anche quando le cose
non vanno per il verso giusto, di non cessare mai di amare, con l’amore e la
carità di Dio giorno per giorno nella nostra vita. Io non dico di abolire la festa di Sant’Agata. Si perderebbe
un patrimonio di credenze, di tradizioni, di folklore, di cultura… tutte cose
che fanno parte di un popolo. Io vorrei che si distinguesse, da parte della comunità
cristiana la religione della fede. Fate pure la festa, le processioni,
sparate tutte le bombe che volete, mangiate tutta la carne di cavallo che vi
piace, ma distinguete la chiesa e la fede dalla festa. I preti sulla vara o
sul fercolo,
a raccogliere soldi e candele, no! Confonde! La mescolanza delle messe mattutine o vespertine con le bombe,
no! Confonde! Le autorità che hanno ridotto questa città al lumicino, dietro
la vara a sorridere alla gente per farsi applaudire e far dimenticare le loro
magagne, no! Confonde! Le scommesse sull’ora di rientro della santa, con i relativi
risvolti affaristici e mafiosi, insieme alle preghiere in cattedrale, no! Confonde! Forse la religiosità potrebbe diventare l’anticamera della
fede, ma, perché questo avvenga è necessario distinguere ed educare, pigliare
le distanze e sottolineare le differenze, altrimenti regna la confusione; e
lo si vede seguendo in diretta le TV locali, dove, conduttori laici e commentatori
chierici non sono mai riusciti a evidenziare questa distinzione. Ma non
possono farlo! Perderebbero l’ascolto, perderebbero l’audience. Preghiamo Dio, e se vogliamo rivolgiamoci pure a Sant’Agata e
a tutti i santi, perché l’esempio della loro vita, che è stata certamente
cristiana, ci aiuti, insieme a Cristo, ad offrirla a spenderla realmente,
concretamente, per la salvezza di quanti incontriamo nel nostro cammino.
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