Lettura di opere letterarie
Fiori di Arcobaleno
di Antonio Marcello Villucci
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Questa silloge di Antonio Marcello Villucci si
incentra intorno alla figura della madre che diviene sostegno, luce per l’uomo maturo e solo (“Ti
porterò / come il lume di una lampada / che rischiara l’andare / verso le
beatitudini di Dio / nell’ora dei petali dischiusi / tra occhi di rugiada”) e
tramite per l’incontro col Signore (“Al trapasso della luce / salperò con le
vele della sera / per incontrarti all’approdo / nella baia del Signore”). Il rapporto tra la madre e
Dio è ricorrente nei poeti e qui Villucci
usa immagini di tenera attenzione. “Egli ti donerà un’acqua di rugiada /
raccolta dai petali di un fiore / quando i lumi
fanno d’oro le finestre / contro il violazzurro
della sera. / Per te adunerà una corona di stelle / accanto alla lampada
votiva / per la festa dei morti”. La madre è infatti
colei che schiude la vita religiosa del figlio. “Recitavamo insieme le
orazioni/ nell’ora vespertina: / tu col rosario in filigrana tra le dita / io
con la coroncina al cuore di Gesù. / Nella sera
odorosa di giunchiglie / la tua preghiera parlava / di amare
e vivere / oltre il deserto delle cose”. Ed il figlio, nel momento della
prova, non dimentica ciò che ha ricevuto da lei (“Ti sussurrerò le parole di
cielo / che recitava mia madre sull’ora del rosario / nelle mie sere d’insonnia / quando mi affidava all’angelo custode / perché
mi vegliasse fino all’alba”), la richiama dal passato, dalle cose ormai
lontane, la fa rivivere nel sogno e nella memoria (Tu eri il filo sottile /
della trama d’affetti / nel giro delle stanze / odorose di ginestre /
radicate nei campi; / eri il canto che salutava il giorno / e muoveva uomini
e cose”). Proprio
quando non c’è più (“ora che sorridi da un ovale sulla pietra”), la madre,
essenziale punto di riferimento per ogni uomo, si trasforma in interiore
sostegno per il poeta (Torna l’alba della tua voce / alle finestre dove s’infolta la rosa rampicante / nel maggio dei ricordi / e rimestìo di passi”), il pensiero di lei
viene “con passi d’aria” e gli dà “un sorriso / di sorgiva /”. E lui si nutre con forte desiderio a quei momenti vissuti
sotto la sua ala protettrice: ”A sera, quando un pallore d’ombre / aduna le
case smarrite / risalgo con te in uno spazio di stelle / in cerca del Tempio
della Luce”. Riesce a trovare la stessa tensione di “certe sere” della sua
infanzia, rivive emozioni, memorie di luoghi, di voci di rimpianto che sono
invisibili fiori dell’animo (Io Ti adorerò / come incerte sere d’infanzia /
quando nel chiudere nel sonno i miei pensieri / ti chiedevo silente, / tra il
rabbuffo del vento / ai vetri delle case, / di aprirmi giorni dal cielo
chiaro / per le messi di giugno / ad arginare in fasci / su un quadrato di
terra / per il pane azzimo e l’ostia / da consacrare con le Tue mani”). Qui,
sui sentieri tracciati dal ricordo, quel genuino rapporto diventa desiderio
di “avere le ali” per salire “alla sua casa di stelle”, desiderio di aprire
gli usci verso “azzurri spazi nei tuoi occhi”, e di unirsi al canto di lode
(Canteremo insieme / le tue lodi / nel biancore
della luce / discesa dalla cupola / su noi come vento di colombe”). La
riconoscenza di aver scoperto il conforto della preghiera gli suggerisce la bella immagine di lei in sembianza di angelo “a guida dei
pensieri / sugli incroci di calcolo / venuti dall’uomo e dalla macchina”, la
scopre “attimo di cielo / in una perla di rugiada / che si discioglieva sul
volgere dell’alba / in pianto”. E ancora la disegna plasticamente “avvinta ai
piedi della croce” a ricordare al Signore che “gli fui fedele / fin
dai giorni dell’infanzia / quando con il gloria
delle campane / saliva il suo primo vagito / dal presepio / sull’impalco dei
gradi dell’altare / e il chiaro della cupola dell’Annunziata”. La madre è
fortemente presente nell’assenza: la portano i
ricordi dei giorni dell’infanzia (E noi lungo la pietraia, Da una
beata infanzia), quei “ritagli” d’infanzia, quando si forma il più forte
dei legami che l’uomo possa conoscere, la desta l’andare col cuore ad un
tempo che la lontananza impreziosisce. Basta poco, anche il più comune dei
fenomeni naturali (“La pioggia apre armonie di flauti / ai limiti dei campi / e
sonorità di voci: / sillabe fatte d’anima / tra sciami di ricordi.”), oppure
l’immagine delle sue mani “odorose di terra e di muschio”, o ancora il
trovare nella mente i tanti piccoli momenti della vita insieme, che disegnano
immagini e visioni in cui il lirismo dei versi si scioglie in densa nostalgia.
Questa assenza-presenza circola in tutto il canzoniere con una forza nuova,
sostegno all’uomo maturo quando scopre il “deserto
delle cose”, quando soffre la “solitudine dell’anima”, quando chiede di
sciogliere “l’ingorgo di una pena / fattasi groppo di pianto nella gola”. E lei è lì, pronta a sostenerlo (Lei ti sarà conforto fin
sulla marea dell’alba. / Poi svanirà come rapido sospiro /
nell’azzurro”), pronta, alla fine, a condurlo “tra le braccia del
Signore”. Intenso è
il rapporto madre-Signore, forte legame che li unisce entrambi - figlio e madre
- dinanzi a lui: “Verremo a Te con
cuore puro / chiamandoTi per nome. / […] E sarai con noi tra verde e acque / voci e lume di una
sera nel deserto”. Frutto di questo rapporto è la bella
e delicata preghiera Mio Signore, in essa c’è il dono della madre al
figlio, che, “dispogliato dei panni di damasco”,
vede nel “frammento d’azzurro”, oasi di pace ed armonia, la massima
realizzazione del desiderio di essere quanto più lontano possibile dalla
realtà che opprime. Un traguardo, questo, possibile al poeta - a tutti i poeti
- che può nutrirsi della “speranza di
altre ore”, può trasformare la sua “ansia d’azzurro” in “ormeggio d’angeli /
pronti ad incontrare il passo dell’uomo / su questa terra / e porsi custodi
al suo fianco”; può “attingere ambrosia / alla mensa di un dio; / poi
scrutare dal cielo della coppa / l’Orsa Maggiore, le Pleiadi / e Venere che
resiste / all’onda del mattino / tra i fiori dell’arcobaleno”. Antonio
Marcello Villucci ha dunque tracciato un percorso,
si è incamminato lungo un arcobaleno, che, squarciando i nembi, porta in
alto, l’ha aiutato il ricordo dei giorni fondanti vissuti con la madre, che
gli hanno nutrito l’anima e la mente e gli hanno
permesso di donarci questi stupendi Fiori d’arcobaleno. |
Da “Riscontri”, anno XXVIII, n. 1-2, gennaio-giugno 2006,
pp. 149-151.
Antonio Marcello Villucci,
Fiori d’Arcobaleno, Bastogi, Foggia, 2005.
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