Il confronto Bohr Einstein
fenomeni e realtà fisica
Il valore del paradosso nella scienza Ciò che colpisce
di un paradosso, scriveva Quine nel 1961, è quella
sua aria iniziale di assurdità, che si traduce in
una sorta di disagio psicologico quando confrontiamo le conclusioni del
ragionamento con l’argomento, a prima vista inconfutabile, sul quale si
fonda. Tuttavia, osservava Quine, «più di una volta
nella storia, la scoperta di un paradosso è stata l’occasione per una
sostanziale ricostruzione dei fondamenti del pensiero »; in ogni paradosso,
anche in quello apparentemente più innocente, potrebbe essere in agguato la
catastrofe, che ci porta a svelare l’arbitrarietà «di una premessa nascosta,
o di qualche preconcetto che era stato precedentemente
accolto come fondamentale per la teoria fisica, la matematica, o il processo
di pensiero» . In tempi più recenti, idee del genere sono state utilizzate
per sostenere, in generale, che nella crescita della conoscenza i paradossi
si pongono come luoghi di produzione del mutamento categoriale
e della costruzione di nuovi universi di discorso. Si potrebbe anche avanzare
l’ipotesi che i paradossi costituiscano elementi della logica della
scoperta in grado di amplificare, e rendere perciò intelligibili, le fasi
sempre oscure che accompagnano il mutamento paradigmatico; i paradossi rappresenterebbero
così veri e propri punti di accumulazione della tensione che si determina tra
un sistema di riferimento concettuale dato e una teoria o una scoperta
empirica che lo violino. Il paradosso che portò Einstein alla
formulazione della sua teoria nel 1905 Gli storici
della scienza hanno tentato diverse vie interpretative per giungere a
decifrare razionalmente il processo di pensiero che nel 1905 avrebbe portato Einstein alla formulazione della relatività ristretta e
alla contemporanea demolizione della concezione classica dello spazio e del
tempo. Tuttavia, l’unico indizio certo che è possibile
cogliere resta l’individuazione, alla base del ragionamento einsteiniano, di un paradosso che sarebbe scritto
direttamente nelle equazioni di Maxwell; o, per
meglio dire, di una conseguenza paradossale che deriverebbe dal tentativo di
ricondurre la descrizione dei fenomeni elettromagnetici all’interno
dell’immagine del mondo della meccanica di Newton. Si tratta del ben
noto paradosso, nel quale Einstem si era imbattuto
all’età di i 6 anni, dell’osservatore che si trovi a
seguire un raggio luminoso alla velocità della luce. Il paradosso nasce dal
fatto che se si assume la condizione classica sulle trasformazioni di
coordinate per i sistemi inerziali, e quindi se si ammette la validità della
composizione galileiana delle velocità, quell’osservatore dovrebbe
vedere il raggio di luce come un campo elettromagnetico oscillante nello spazio,
in stato di quiete. Saremmo perciò obbligati a concludere
che, almeno per quell’osservatore particolare, le
leggi della fisica non sono le stesse leggi che sperimenta un qualsiasi altro
osservatore inerziale . Probabilmente,
fu proprio l’ignoranza, o la sottovalutazione dell’efficacia logica di quel
paradosso che impedì a Lorentz e Poincaré di anticipare di qualche anno la scoperta di Einstein, e che li costrinse
a risolvere il problema dell’invarianza formale
delle equazioni di Maxwell con metodi artificiosi.
Falliti i tentativi di rilevare sperimentalmente effetti dovuti all’esistenza
di un ipotetico vento d’etere - che avrebbero permesso, tra l’altro, di
determinare la velocità assoluta della Terra - essi introdussero modifiche
opportune nel sistema di ipotesi della teoria
elettrodinamica, con l’intento di conciliare la validità dei principi
generali della fisica con l’inosservabilità di
alcune conseguenze empiriche della teoria . Quel paradosso aveva invece un
eccezionale potere euristico, se è vero, come dice Einstein, che conteneva già il germe della teoria della
relatività ristretta; infatti, mai si sarebbe potuto scioglierlo in modo
soddisfacente «finché l’assioma sul carattere assoluto del tempo, cioè della
simultaneità, fosse rimasto ancorato nell’inconscio, senza che noi ce ne
accorgessimo» . Ma se individuare questo assioma e
riconoscere il suo carattere arbitrario erano le condizioni necessarie per
giungere alla soluzione, per cosi dire, tecnica del paradosso, ciò implicava
un insieme di opzioni filosofiche decisamente impegnative alla luce della
tradizione moderna della scienza. Questo spiega perché, ancora nelle Autobiographical Notes, Einstein
sentisse il bisogno di ricordare il debito intellettuale
che, per la sua scoperta, aveva con gli scritti di David Hume
e di Ernst Mach. Riportare alla coscienza
l’archetipo del tempo assoluto per giungere poi a rivelarne la natura
arbitraria, quale assioma implicito di un particolare sistema teorico,
comportava sul terreno metodologico alcune tesi generali; per es., che le nostre modalità
conoscitive hanno un’intrinseca variabilità e storicità segnata dai
differenti tentativi messi in atto per adeguare i nostri linguaggi alla
descrizione degli oggetti della conoscenza; e, inoltre, che non esistono modi
di pensare e linguaggi, più o meno formalizzati, che rifletterebbero una
qualche struttura della realtà che avremmo colto una volta per tutte da un
punto di vista assoluto. Accettare tesi del genere
era, all’epoca, tutt’altro che ovvio, poiché
significava di fatto rimettere in discussione uno degli ideali a lungo
perseguiti dalla scienza moderna, secondo il quale sarebbe possibile
identificare un nucleo finito di leggi di natura valide su ogni scala spaziale
e temporale. Significava anche rinunciare all’idea che quel nucleo rappresenti il limite verso cui convergerebbero le nostre
conoscenze «Costanza della
velocità della luce» e «indipendenza delle leggi dalla scelta del sistema
inerziale» sono dunque asserti contraddittori per l’immagine classica del
mondo. Ma si può dimostrare che la loro incompatibilità è apparente se,
primo, si adotta un nuovo principio universale, il quale affermi che le leggi
della fisica sono invarianti rispetto alle
trasformazioni di Lorentz; secondo, si costruisce un nuovo universo di discorso che rinunci
all’abituale separazione delle idee di spazio e di tempo; e, infine, si
aderisce a una nuova immagine fisica della realtà che rimetta in discussione
il carattere assoluto dei fenomeni. Il valore del paradosso nella meccanica quantistica Anche la storia
della meccanica quantistica è una storia di paradossi, dei tentativi messi in
atto per rimuovere gli ostacoli teorici ed epistemologici derivanti
dall’impossibilità di analizzare gli effetti quantistici rifacendosi a immagini fisiche consuete, oppure per individuare
situazioni sperimentali limite che giustificassero la ricerca di soluzioni
teoriche più adeguate a esprimere le finalità conoscitive della scienza. Il
fatto che, come per la relatività di Einstein, anche per la scoperta della meccanica
quantistica i problemi interpretativi abbiano assunto spesso questa forma
sintetica e particolarmente espressiva non è una pura coincidenza. Anche in
questo caso si trattava di riportare alla coscienza alcuni preconcetti, e di
riconoscere sia che essi hanno svolto il ruolo di
assiomi per particolari raffigurazioni teoriche della natura, sia che è
arbitrario difenderne la validità assoluta, una volta che un nuovo insieme di
conoscenze porti, all’interno di quelle immagini, a conseguenze paradossali.
Ma, anche in questo caso, si sarebbe riconosciuto che le contraddizioni
potevano essere eliminate grazie a un nuovo
principio fisico generale e a una nuova e più astratta immagine della realtà.
E soprattutto, con la soluzione dei paradossi prodotti dall’indivisibilità
del quanto di azione, divenne ancora più evidente il
carattere soggettivo di tutti i fenomeni fisici e ancora più stretta e
necessaria la dipendenza della descrizione degli oggetti dalla posizione
dell’osservatore e del soggetto. Così, una delle
tesi più forti e inattaccabili con cui soprattutto Bohr
e Pauli difesero l’idea
della complementarità e l’interpretazione probabilistica della funzione
d’onda sosteneva che questi erano i soli strumenti concettuali che portavano
alla dissoluzione del paradosso del dualismo onda-corpuscolo. D’altra parte, non è affatto casuale che Einstein
muovesse da un’implicazione apparentemente paradossale della meccanica
quantistica per giungere a rifiutare la teoria e indicare la necessità di una
ridefinizione dei fondamenti della microfisica. Nel 1933 Einstein si opponeva alla interpretazione ufficiale della quantistica: il paradosso di Einstein. «Cosa direbbe Lei della situazione seguente? Supponiamo che
due particelle si muovano l’una verso l’altra con la stessa quantità di moto
molto grande, e che esse interagiscano per un tempo brevissimo
quando passano per una data posizione. Consideriamo ora un osservatore
che voglia occuparsi di una delle due particelle, lontano dalla regione di interazione, e misuri la quantità di moto; allora, in
base alle condizioni sperimentali, egli sarà ovviamente in grado di dedurre
la quantità di moto dell’altra particella. Se però
egli scegliesse di misurare la posizione della prima particella, potrebbe
dirci dove si trova l’altra. Questa è una deduzione semplice e perfettamente
corretta che si ricava dai principi della meccanica quantistica; ma non è
davvero paradossale? Come può lo stato finale della seconda particella essere
influenzato da una misura fatta sulla prima, dopo che è cessata ogni
interazione tra esse?». Così Einstein,
nei 1933, illustrava a Rosenfeld le ragioni della
sua ferma opposizione all’interpretazione ufficiale della meccanica
quantistica, e a questo problema si ricollega
l’articolo che egli scrisse nella primavera del 1935 in collaborazione con
Boris Podolski e Nathan Rosen. Questo lavoro sarebbe divenuto noto come «paradosso
di Einstein, Podolski e Rosen», sebbene in
questo caso il termine non sia del tutto appropriato; infatti, non solo non è
il paradosso l’obiettivo della loro analisi, ma soprattutto, come vedremo,
essa non fornisce alcuna risposta circa i motivi per cui, entro lo schema di
ragionamento della meccanica quantistica, sarebbe possibile concludere che
l’atto di misura su un sistema trasferisce, a distanza e istantaneamente,
informazioni a un altro sistema, consentendogli di modificare il proprio stato.
Ciò è vero nel senso che non viene colta alcuna
contraddizione logica o individuata alcuna premessa arbitraria nell’argomento
che permette di ricavare da principi fisici generali conclusioni così
assurde. In realtà, proprio questo era stato l’obiettivo degli iniziali
tentativi di confutazione di Einstein,
quando aveva cercato, senza successo, di dimostrare l’incoerenza della teoria
attraverso esperimenti mentali non soggetti alle restrizioni imposte dalle
relazioni di indeterminazione. Il paradosso di Einstein, Podolski e Rosen è in realtà una dimostrazione che consente di
inferire da una contraddizione finale la falsità della premessa, per giungere
poi a esprimere un giudizio di in- completezza sulla teoria. Ma le premesse della dimostrazione sono diverse e non
tutte così evidenti. «Ogni esame
serio di una teoria fisica deve tener conto della distinzione tra la realtà
oggettiva, che è indipendente da qualsiasi teoria, e i concetti fisici con i
quali la teoria opera. Questi concetti sono intesi corrispondere alla realtà
oggettiva e mediante questi concetti ci formiamo un’immagine di questa realtà».
La memoria si
apre con questa richiesta filosofica, che impegna la scienza sulla portata
conoscitiva dei propri apparati concettuali, detta i criteri per valutare il
successo di una teoria, e in definitiva fissa le condizioni per la sua
accettazione. Non è sufficiente che i suoi calcoli relativi
ai fatti di natura siano in buon accordo con le osservazioni e le
misure; questo ci può dire qualcosa sulla sua correttezza, ma, anche per i
tre autori, la meccanica quantistica è una teoria corretta. Piuttosto è
necessario, secondo Einstein, Podolski
e Rosen, che la teoria verifichi la cosiddetta
condizione di completezza: «ogni elemento della realtà fisica deve avere una
controparte nella teoria fisica». Date quelle premesse, si trattava di un requisito
epistemologico evidente: assumendo l’esistenza di una realtà presupposta alle
nostre modalità di rappresentazione, solo se i concetti definiti all’interno
del nostro schema teorico fissano univocamente il loro riferimento, e,
viceversa, ogni elemento di realtà possiede un corrispondente termine
teorico, possiamo pensare che le immagini descritte con questi concetti siano
in grado di riflettere la struttura del mondo esterno. Il problema non era
nuovo: venivano riproposti obiettivi interpretativi
che, come si è visto, avevano caratterizzato e condizionato gli iniziali
sviluppi della teoria quantistica dell’atomo. Ma, come avrebbe sottolineato Podolski,
un’istanza realistica di questo genere sarebbe implicita nella natura stessa della
conoscenza scientifica: «i fisici credono nell’esistenza di cose materiali
reali, indipendenti dal nostro pensiero e dalle nostre teorie. Noi costruiamo
teorie e inventiamo parole (come elettrone, positrone, ecc.) nel tentativo di
spiegare a noi stessi cosa conosciamo del mondo
esterno e aiutarci a ottenere nuove conoscenze». E, a suo avviso, chiedere a una teoria di fornire una buona immagine della realtà
oggettiva equivale a sottoporla a controlli severi per verificare se essa
«contiene una controparte per ogni elemento del mondo fisico». È ovvio però,
che quando si tenti di tradurre questo criterio generale in un concreto
strumento di analisi della struttura di una teoria,
sorge immediatamente una difficoltà che rischia di compromettere la
fondatezza dell’intero ragionamento; la condizione di completezza
sembrerebbe, infatti, dipendere da considerazioni filosofiche a priori, le
quali consentano di determinare prima quali siano gli elementi della realtà e
fissare poi le regole di corrispondenza tra questi e il sistema di concetti.
A questa difficoltà fanno esplicito riferimento gli autori della memoria, i
quali, tuttavia, considerano non necessaria per i loro fini
una definizione esauriente di realtà, e ritengono che ci si possa
limitare a semplici considerazioni relative ai risultati delle misure e alle
procedure sperimentali: «Saremo soddisfatti con il seguente criterio, che a
noi sembra ragionevole. Se, senza disturbare in alcun modo un sistema,
possiamo predire con certezza (cioè, con probabilità
uguale all’unità) il valore di una quantità fisica, allora esiste un elemento
della realtà fisica che corrisponde a questa quantità fisica. Ci sembra che
questo criterio, pur essendo lungi dall’esaurire tutti
i modi possibili di riconoscere una realtà fisica, ci fornisca almeno uno di
questi modi, ogni qualvolta si verifichino le condizioni considerate in esso.
Questo criterio, inteso come una condizione, non necessaria, ma semplicemente
sufficiente, di realtà, è in accordo con l’idea di realtà sia classica, sia quanto-meccanica». Per valutare
quanto ci sia di scontato o di ragionevole in questa assunzione
e nell’intero preambolo epistemologico della memoria occorrerebbe un’analisi
molto impegnativa, che finirebbe necessariamente per toccare capitoli
importanti di storia della filosofia e di filosofia della scienza. Nelle
discussioni che sono seguite a questo lavoro si è
preferito, molto spesso, limitarsi a sottolineare la prudenza di questa
formulazione, la quale sembrerebbe non implicare alcun giudizio sulla natura
della realtà fisica; le quantità che compaiono nei nostri schemi
interpretativi non sono reali, semplicemente corrispondono a elementi della
realtà. Qui non intendiamo affrontare questioni di questa natura, anche
perché per i nostri scopi serve soltanto richiamare l’attenzione su un
aspetto relativo alla struttura logica dell’argomento
di Einstein, Podolski e Rosen, sul quale peraltro concordano sia i critici, sia i
sostenitori del loro punto di vista: il criterio di realtà entra in modo
tanto essenziale nello schema del ragionamento, che qualsiasi dichiarazione
sulla sua insostenibilità comporterebbe l’immediata confutazione della
dimostrazione. D’altra parte, è
chiaro quale sia l’obiettivo della memoria; gli
autori si propongono di eseguire un controllo della completezza della
meccanica quantistica, o, più precisamente, di verificare se il tipo di
descrizione della realtà fisica ammesso dal suo formalismo soddisfi i
requisiti che, in base alle loro assunzioni, dovrebbe godere qualsiasi
descrizione completa. La dimostrazione è suddivisa in due parti, che
riflettono l’articolazione di questo programma: nella prima, si tenta di
caratterizzare, alla luce della condizione di completezza, le modalità di
descrizione della teoria e si definisce il grado di realtà attribuibile alle
quantità che fissano lo stato di un sistema quantistico; nella seconda, si verifica l’esistenza di situazioni sperimentali che richiedono
una descrizione più ampia di quella permessa dalla meccanica quantistica. È
qui che interviene in modo rilevante il criterio di realtà, e soprattutto si
rende necessaria un’assunzione implicita che, come vedremo, comporta un
singolare superamento del paradosso del ‘33. Le possibilità di descrizione della meccanica quantistica Per illustrare
le possibilità di descrizione della meccanica quantistica, gli autori
discutono l’esempio di una particella avente un solo grado di libertà. Lo
stato quantistico del sistema e completamente caratterizzato, per la teoria,
dalla funzione d’onda , la quale ne definisce le quantità
fisiche. […] La meccanica
quantistica dice che, se si effettua una misura di
posizione si ha una certa probabilità che il risultato sia compreso in un
certo intervallo di valori. Tuttavia, osservano gli
autori, «una tale misura disturba la particella e quindi altera il suo stato.
Dopo che sia stata determinata la coordinata, la particella non si troverà
più nello stato dato dalla [6.2]. La conclusione che di solito nella
meccanica quantistica si ricava da qui è che, quando la quantità di moto di
una particella è conosciuta, la sua coordinata non ha alcuna realtà fisica». Da una parte, quando lo stato di una particella è descritto da
una funzione d’onda che ci permette di prevedere con certezza il valore della
sua quantità di moto, resta indeterminato il valore della posizione e
possiamo fare soltanto previsioni probabilistiche sul risultato di una sua
misura. Dall’altra, ogni misura effettuata per determinare la
posizione disturba, dicono gli autori, la particella, ne altera
io stato e quindi modifica la funzione d’onda iniziale. Se conoscere con
precisione una quantità fisica e farle corrispondere un elemento di realtà
equivale alla condizione che il sistema sia descritto da una funzione d’onda
che soddisfi la [6 . i],
ovvero che la funzione d’onda sia un’autofunzione
dell’operatore associato a quella quantità, segue, per il criterio di realtà,
la seguente asserzione: la funzione d’onda descrive lo stato della particella
solo se, quando conosciamo la sua quantità di moto, la coordinata non ha
alcuna realtà fisica. Ma questo è vero, in generale, per qualunque coppia di
quantità fisiche associate a operatori che non
commutano; allora, «la precisa conoscenza di una di esse preclude una tale
conoscenza dell’altra. Inoltre, ogni tentativo di determinare quest’ultima sperimentalmente altera lo stato del sistema
in modo tale da distruggere la conoscenza della prima». Ciò significa
che ogni operazione di misura, ogni tentativo di
determinare sperimentalmente il valore di una quantità sulla quale la teoria
non è in grado di fare previsioni precise, e quindi non può riconoscerle
immediatamente una realtà fisica, ha l’effetto di cancellare il contenuto di
realtà di una seconda quantità che caratterizza lo stato del sistema. Resterebbe
pertanto aperta alla meccanica quantistica questa rigida alternativa:
«o (1) la descrizione della realtà [...] data dalla
funzione d’onda non è completa, oppure (2) quando gli operatori
corrispondenti a due quantità fisiche non commutano, le due quantità non possono
avere una realtà simultanea». Se la funzione d’onda rappresentasse
correttamente ed esaurientemente lo stato di un sistema quantistico, se la
descrizione della meccanica quantistica fosse completa, ovvero
se ogni elemento di realtà avesse una controparte nella teoria,
l’impossibilità di prevedere con precisione entrambe le quantità significherebbe
semplicemente che esse corrispondono a elementi incompatibili nella realtà.
Altrimenti, non resterebbe che esprimere un giudizio di incompletezza
sulla teoria, e dire che le restrizioni imposte dal formalismo alle
previsioni di quantità fisiche non derivano (la difetti della realtà, ma dai
limiti del contenuto descrittivo della funzione d’onda. Nonostante il
carattere logicamente stringente del ragionamento, conclusioni del genere
potrebbero essere giudicate non necessarie; è sufficiente far osservare che
«le informazioni ricavabili dalla funzione d’onda corrispondono esattamente a
ciò che può essere misurato senza alterare lo stato del sistema», per
difendere, cob argomenti a prima vista
ragionevoli, la tesi che “la funzione d’onda contiene una descrizione
completa della realtà fisica del sistema nello stato cui essa corrisponde”. La seconda parte
dell’articolo è dedicata alla discussione del ben noto esperimento mentale
del sistema composto da due particelle, le quali,
dopo aver interagito per un certo tempo, possano essere considerate e
studiate come due sottosistemi indipendenti. Si dimostra, sotto opportune
condizioni, ma in pieno accordo con il formalismo della teoria, che
attraverso misure sulla prima particella è possibile predire con certezza e
senza disturbare in alcun modo il secondo sistema, il valore della quantità di moto
P o il valore della posizione Q, dell’altra particella. Coerentemente
con il criterio di realtà definito dagli autori, ha quindi senso considerare
le quantità P e Q come elementi come elementi di realtà; esse, come nella
fisica classica, definiscono in tal modo lo stato
della particella. La conclusione de dimostrazione è questa: «In un primo momento abbiamo dimostrato che o (1) la descrizione
quanto-meccanica della realtà data dalla funzione
d’onda non è completa, oppure (2), quando gli operatori corrispondenti a due
quantità fisiche non commutano, le due quanti non possono avere una realtà
simultanea. Muovendo poi dall’ipotesi che la funzione d’onda fornisce una descrizione
completa della realtà fisica, siamo arrivati alla conclusione che due
quantità fisiche, con operatori che non commutano, possono avere una realtà simultanea.
Cosi la negazione di (1) porta alla negazione dell’unica altra alternativa (2). Siamo quindi obbligati a concludere che la descrizione quanto-meccanica
della realtà fisica data dalle funzioni d’onda non è completa». La storia continua Prima ancora che
l’articolo fosse pubblicato dalla “Physical Review”, i risultati
del lavoro furono divulgati con grande clamore dal “New York Times”, che, con il titolo Einstein Attacks Quantum Theory,
riportava un ampio resoconto delle tesi in esso sostenute. Sebbene questa iniziativa provocasse l’irritazione di Einstein, il quale riteneva che un quotidiano non fosse una
sede idonea per discutere seriamente questioni di carattere scientifico, il
rilievo dato a quell’evento era ampiamente giustificato;
soprattutto, sarebbe stato confermato dalle reazioni immediate della comunità
dei fisici e dall’ampio interesse che, il paradosso di Einstein,
Podolski e Rosen ha
suscitato in mezzo secolo di discussioni teoriche e filosofiche sui
fondamenti della meccanica quantistica. Analisi dell’articolo L’articolo
solleva interrogativi molto seri sul valore conoscitivo della scienza; ma ciò
non dovrebbe far perdere di vista quale sia la sua reale portata, quale sia, cioè, la tesi dimostrata in quel lavoro: se si assume il
principio secondo cui la completezza di una teoria scientifica è definita da
una rigida relazione di corrispondenza tra concetti ed elementi della realtà,
e qualora si accetti di considerare reali quegli elementi che sono definiti
attraverso il criterio di realtà formulato dagli autori, allora la meccanica
quantistica è una teoria incompleta. Ma la dimostrazione di questa tesi ha
bisogno di un’assunzione ulteriore; si deve
ammettere che sia verificata anche per gli oggetti microscopici la cosiddetta
ipotesi di località: «Poiché all’istante della misura i due sistemi non
interagiscono, non può avvenire alcun cambiamento reale nel secondo sistema
in conseguenza di qualcosa che possa essere fatto al
primo sistema». Per gli autori era un’ipotesi tanto ovvia da non aver bisogno
di alcun commento particolare; a loro avviso, essa
esprimeva in termini diversi una delle condizioni richieste dall’esperimento
delle due particelle, ovvero l’assenza di ogni interazione tra i due
sottosistemi a partire da un dato istante. Non è certo in discussione il
carattere intuitivo di questa assunzione, la cui
violazione, tra l’altro, sembrerebbe implicare, in contrasto con la teoria
speciale della relatività, la possibilità di inviare un segnale, a velocità
superiore a quella della, luce. Ciò non toglie, tuttavia, che così la
dimostrazione di incompletezza avesse bisogno di
assumere per ipotesi la negazione del paradosso che, secondo Einstein, era implicito nello schema interpretativo della
meccanica quantistica. Come si è visto,
l’argomento di Einstein, Podolski e Rosen non fornisce
invece alcuna spiegazione del perchè nasca quel paradosso e non giunge a
dimostrare il suo carattere apparente, non ci mostra cioè quali siano i
difetti della teoria o i preconcetti da cui discenderebbero conseguenze che
violano il senso comune. O meglio, potremmo anche considerare l’argomento di Einstein, Podolski
e Rosen come una soluzione del paradosso; ma in tal
caso dovremmo riconoscere che esso può essere superato solo negandolo con un
fiat, e che l’unica possibilità perché non si verifichi una situazione tanto
imbarazzante è quella di considerare la teoria incompleta, cioè incompatibile
con un modello di descrizione della realtà presupposto alla teoria stessa e
giustificabile in termini filosofici generali. Per liberarsi
del paradosso si è costretti dunque ad abbandonare la teoria. Ciò spiega
perché dal controllo severo cui Einstem, Podolski e Rosen l’avevano
sottoposta, la meccanica quantistica uscisse in
realtà indenne; essi non vi avevano colto una contraddizione formale o una
lacuna concettuale, ma la violazione di un astratto ideale di spiegazione e
di rappresentazione del mondo fisico. Proprio per questo, sebbene
dichiarassero la loro piena convinzione circa l’esistenza di una descrizione
della realtà fisica anche per i microoggetti, non
erano in grado di dire se questa descrizione dovesse essere ricercata con una
modifica della teoria, oppure se una teoria completa
fosse incompatibile con i fondamenti stessi della meccanica quantistica; il
loro articolo non conteneva indicazioni utili per un futuro programma di
ricerca. La risposta di Bohr Due mesi dopo la
pubblicazione del lavoro di Einstein,
Podolski e Rosen, la
stessa rivista americana riceveva un lungo scritto di Bohr
che reca lo stesso titolo e che si apre con il rifiuto della dichiarazione di
una presunta incompletezza della meccanica quantistica, o meglio con un
giudizio critico sulla fondatezza delle premesse che a quella dichiarazione
condurrebbero: «Non mi sembra che la direzione del loro ragionamento riesca a
cogliere la situazione effettiva che la fisica atomica ci pone di fronte».
Alla domanda, che è contenuta nel titolo comune dei due lavori, Can Quantum-Mechanical
Description o/ Physical Reality Be Considered
Complete?,
non ha alcun senso rispondere con un si o con un no, per il semplice motivo
che essa è mal formulata, se alle parole «descrizione», «realtà fisica», e
«completa » si assegnano i significati voluti da Einstein.
A questo quesito
Bohr contrappone l’interpretazione del ‘27 la
quale, a suo avviso, mostra con chiarezza che la meccanica quantistica, nel
proprio campo specifico di validità, «risulta una
descrizione completamente razionale dei fenomeni fisici con i quali abbiamo a
che fare nei processi atomici». La natura dei fenomeni che coinvolgono i microoggetti è tale che le contraddizioni e i paradossi
sono apparenti; essi non sono indizi evidenti di presunte incompletezze della
teoria, ma «dimostrano soltanto una fondamentale inadeguatezza del punto di
vista tradizionale della filosofia naturale per una
trattazione razionale di questi fenomeni». Bohr tende cosi a capovolgere un’impostazione
che pretenderebbe, come sembra suggerire Podolski,
di misurare la validità interpretativa di una teoria con il metro di
un’idealizzazione della realtà coerente con una particolare situazione
fenomenica - quella che caratterizza la fisica del macroscopico
- e compatibile con le modalità di descrizione ammesse dalle teorie
classiche: l’impostazione, cioè, che richiede a ogni teoria di contenere
un’immagine adeguata della realtà obiettiva e di fornire comunque un modello
visualizzabile di essa. Al contrario, secondo Bohr,
si tratta di valutare quale sia la natura dei
fenomeni di cui si occupa la teoria, attraverso un’analisi delle condizioni
nelle quali il fenomeno quantistico può essere osservato e indagato
sperimentalmente, e delle possibilità di definire le parole che inventiamo, i
concetti fisici che caratterizzano lo stato di un sistema. Solo così è
possibile ricavare un modello di descrizione che tenga
conto della realtà degli oggetti quantistici. Le due posizioni in disaccordo Tra Bohr e Einstein
non c’era accordo neppure su una definizione generale delle finalità
conoscitive della loro disciplina: per Einstein «la
fisica è un tentativo di afferrare concettualmente la realtà, quale la si
concepisce indipendentemente dal fatto di essere osservata. In questo senso
si parla di “realtà fisica”». Bohr negava gli
stessi presupposti delle critiche di incompletezza
mosse alla meccanica quantistica, poiché, a suo avviso, adottando un diverso
approccio metodologico era facile scoprire che il criterio di realtà di Einstein, «per quanto prudente possa apparire la sua
formulazione, contiene un’ambiguità essenziale quando viene applicato ai
problemi concreti», specialmente per il significato da dare all’espressione
«senza disturbare in alcun modo il sistema». Era questo il problema centrale della
fisica quantistica: l’esistenza di un’interazione indeterminata in ogni
processo di misura implica una ridefinizione del
concetto di fenomeno che entra in contrasto con l’ideale einsteiniano
di una concettualizzazione della realtà non
condizionata dalle nostre osservazioni e per questo richiede, secondo Bohr, una «revisione radicale del nostro atteggiamento
nei confronti della realtà fisica». La sostanza
della replica di Bohr, l’elemento di maggiore
debolezza teorica che egli coglieva nel ragionamento degli avversari, era
indicato in modo chiaro già nella breve lettera inviata a “Nature” il 29
giugno, nella quale era annunciata la pubblicazione dell’articolo sulla “Pnysical Review”. Qui, dopo
aver ripreso il criterio di realtà di Einstein, Podolski e Rosen, e riassunto in poche righe i passaggi essenziali
della loro dimostrazione, Bohr concludeva: «Vorrei sottolineare, tuttavia, che il criterio citato contiene
un’ambiguità essenziale quando e applicato a problemi di meccanica
quantistica. È vero che nelle misure in considerazione è esclusa ogni diretta
interazione meccanica tra il sistema e gli agenti di misura, ma un esame più
attento rivela che il procedimento di misurazione influenza in modo
essenziale le condizioni sulle quali si fonda l’effettiva definizione delle
quantità fisiche in questione. Poiché queste condizioni devono essere
considerate come un elemento inerente a ogni
fenomeno, cui può essere applicato senza ambiguità il termine “realtà fisica,
la conclusione degli autori suddetti non sembrerebbe giustificata». La strategia adottata da Bohr
nella replica è dunque volta a demolire gli assunti della dimostrazione, non
a contestarne la coerenza logica; il che, tuttavia, non comportava che egli desse vita a una disputa sulle implicazioni ontologiche
della nuova fisica. I suoi argomenti erano teorici e riguardavano la natura
del fenomeno quantistico, il rapporto tra condizioni di osservazione
e possibilità di definizione, il problema del disturbo del sistema nel corso
di una misura e la distinzione tra oggetto fisico e apparato sperimentale. Bohr utilizzava anche la discussione di
alcuni esperimenti mentali, anche se, egli osservava, si trattava di
una semplice riproposizione di cose ben note e
analizzate in precedenti occasioni. La premessa del
ragionamento, il presupposto logico e teorico di qualunque esame del problema
della descrizione in meccanica quantistica, è per Bohr
un giudizio sul significato dell’ipotesi di Planck -
un giudizio che, come si è visto, si era formato
lentamente nel corso di alcuni decenni di ricerche: nello studio dei fenomeni
relativi al mondo microscopico si presenta un elemento di individualità che è
completamente estraneo alla fisica classica. Alla luce di questo postulato,
l’impossibilità di svolgere un’analisi più dettagliata della reazione tra una
particella e lo strumento di misura, il fatto cioè
che ogni osservazione su un microoggetto dia sempre
luogo a ciò che Einstein chiamava una perdita di
conoscenza di una parte del sistema non è una caratteristica di una
particolare procedura sperimentale, ma una proprietà essenziale di ogni
dispositivo adatto a studiare un fenomeno di questo tipo. Al
di là delle loro diverse inclinazioni filosofiche, il punto teorico da
cui aveva origine il contrasto tra Bohr e Einstein era questo: Einstein
non accettava il postulato quantistico come premessa necessaria della teoria.
In realtà, il problema delle implicazioni concettuali e fisiche dell’ipotesi
di Planck li aveva sempre visti su posizioni contrapposte,
fin da quando si discuteva sulla natura della
radiazione. Ora, quello stesso problema li portava a parlare linguaggi diversi,
a non accordarsi neppure sulla scelta delle questioni scientificamente
rilevanti e ad allontanarsi lungo prospettive interpretative e programmi di
ricerca divergenti. Se la meccanica quantistica non si fondasse
sul postulato dell’individualità dei processi atomici, e se la struttura
matematica della teoria riflettesse semplicemente, attraverso le relazioni di
Heisenberg, le limitazioni conoscitive richieste da
particolari procedimenti di misura, l’esperimento mentale di Einstein avrebbe realmente dimostrato che l’impossibilità
di un’analisi esauriente delle proprietà di un sistema dipende da un inadeguata
rappresentazione teorica della realtà fisica. In tal caso, 1 individualità
del fenomeno, che per Bohr deriva dall’interazione
indeterminata implicita nell’idea di quanto di azione,
nella meccanica quantistica si risolverebbe in «una descrizione incompleta,
caratterizzata da una raccolta arbitraria di diversi elementi della realtà
fisica, a costo di sacrificarne altri»; cambiando dispositivo sperimentale,
non si farebbe altro che selezionare di volta in volta condizioni di
osservazione che consentono di evidenziare solo alcuni aspetti del sistema
fisico. Ma il postulato della teoria
porta a conclusioni molto diverse. L’individualità quantistica esprime un
aspetto epistemologico fondamentale della nuova fisica, dal quale non può
prescindere una qualunque definizione di realtà: la natura stessa dei fenomeni
quantistici ci obbliga «a una discriminazione
razionale tra dispositivi e procedure sperimentali essenzialmente diversi,
che sono adeguati o per un uso non ambiguo dell’idea di localizzazione
spaziale, o per un’applicazione legittima del teorema di conservazione della
quantità di moto». Da questo punto di vista, la teoria tiene certamente conto
di un elemento di arbitrarietà, della nostra libertà
di scegliere le condizioni di osservazione; ma il fatto che si debba
rinunciare a uno dei due aspetti della descrizione, che nella loro sintesi
definiscono il modello classico, riguarda, in definitiva, la stessa realtà
fisica e i vincoli concettuali che essa ci impone. Infatti, tale rinuncia
«dipende essenzialmente dall’impossibilità, nel campo della teoria
quantistica, di controllare accuratamente la reazione dell’oggetto sullo
strumento di misura, cioè il trasferimento di quantità
di moto nel caso di misure di posizione, e lo spostamento nel caso di misure
di quantità di moto». L’aspetto problematico della perdita di controllo su una parte
dell’interazione non consiste, tuttavia, nell’impossibilità di conoscere,
quando si studia un fenomeno quantistico, il valore di una data quantità
fisica, riguarda piuttosto l’impossibilità di definire queste quantità. I
paradossi nascono dunque dal contrasto tra condizioni di osservazione
e possibilità di definizione, da un uso indiscriminato e acritico dei
concetti di posizione e quantità di moto, dal non tener conto che questi
concetti, nelle particolari situazioni sperimentali, realizzate concretamente
o solo costruite col pensiero, non sempre per la teoria quantistica sono
definibili e dotati di significato. Per Bohr, l’argomento di Einstein, Podolski e Rosen poggia su basi inesistenti; la loro definizione di
realtà è, per la teoria quantistica, inaccettabile, poiché il problema al
quale essi si riferiscono con l’espressione «senza disturbare in alcun modo
il sistema» non coglie la natura reale dell’interazione tra oggetto e
strumento. In tutti gli esempi discussi, osserva Bohr,
non esiste, infatti, alcun «problema di disturbo
meccanico del sistema in esame durante l’ultimo stadio critico del processo
di misura. Ma anche in questo stadio si pone essenzialmente la questione di
un’influenza sulle reali condizioni che definiscono
i possibili tipi di predizione riguardo al comportamento futuro del sistema».
L’intervento dell’osservatore non provoca alcuna alterazione
dello stato reale del sistema, non maschera la conoscenza di una delle
quantità fisiche, né cancella la sua realtà; esso fissa soltanto le
condizioni perché si possano definire senza ambiguità i concetti che sono
utilizzati nella descrizione del fenomeno, e che ci consentono di fare
previsioni sull’evoluzione del sistema. Poiché per Bohr l’espressione «realtà fisica» può essere riferita
solo al fenomeno, non ha senso parlare di descrizione incompleta della realtà
fisica. D’altra parte,
nella replica Bohr non utilizzava l’argomento che Einstein, Podolski e Rosen attribuivano sostenitori
della completezza della meccanica quantistica; egli non avrebbe mai difeso il
suo punto di vista affermando che la teoria è completa perché è grado di
predire con certezza le quantità che possono essere misurate senza disturbare
in alcun modo sistema, un disturbo ancora una volta meccanico. Ciò avrebbe
significato servirsi di quel che era stato criticato nel punto di vista degli
avversari per sostituire alla loro istanza
realistica una riduzione in chiave fenomenistica
della portata conoscitiva della teoria, sia per contrapporre una concezione
filosofica della scienza a un’altra. La difesa della sua posizione
interpretativa non richiedeva esiti di questo genere, poiché, a suo avviso,
in nessun caso la descrizione della meccanica quantistica avrebbe
potuto essere valutata con il criterio di Einstein;
piuttosto essa andava «caratterizzata come un’utilizzazione razionale di
tutte le possibilità di un’interpretazione non ambigua delle misure,
compatibile con l’interazione finita e incontrollabile tra gli oggetti e gli
strumenti di misura nel campo della teoria quantistica». Non si può certo
dire che all’evidenza intuitiva dell’argomento di Einstein Bohr contrapponesse
soluzioni semplici e facilmente comprensibili; in realtà, con quella
definizione egli riproponeva lo schema interpretativo che aveva riassunto
nell’idea di complementarità. A suo avviso, il problema della descrizione dei
fenomeni non poteva essere posto in termini generali e astratti, essendo
strettamente legato alla possibilità di considerare la descrizione della
realtà fisica indipendente dalle particolari
condizioni di osservazione. Con l’idea di interazione
finita e incontrollata, il postulato quantistico aveva messo in discussione
per la prima volta questa possibilità e segnato una brusca discontinuità con
la fisica classica. Einstein non riconosceva la necessità
di un postulato quantistico; perciò, coerentemente, chiedeva alla teoria di
contenere una descrizione oggettiva del mondo fisico, indipendente cioè dalle nostre osservazioni. Secondo Bohr, al contrario, il problema della descrizione andava
affrontato alla luce di una situazione completamente nuova; essa richiedeva
una soluzione razionale che riuscisse a conciliare l’elemento di individualità proprio della realtà dei processi
quantistici, con l’esigenza di utilizzare comunque i concetti classici per
interpretare i risultati sperimentali, ovvero di riferirsi a strumenti di
descrizione che non solo erano definiti in contesti teorici ormai superati,
ma soprattutto presupponevano l’indipendenza dell’evento dalla sua osservabilità. Esisteva, a suo avviso, un’unica
condizione razionale per superare questo conflitto: i simboli della meccanica
quantistica possono essere interpretati senza ambiguità solo nei casi in cui
i suoi apparati matematici «permettono di predire i risultati che si
dovrebbero ottenere con un dato dispositivo sperimentale descritto in modo
completamente classico». In altri termini, l’esistenza di vincoli
linguistici, che ci obbligano a parlare di «posizione» o di «quantità di
moto» per esprimere il risultato di una misura, non ha conseguenze di rilievo
sul modo in cui il formalismo della meccanica quantistica rappresenta lo
stato di un sistema e descrive la sua evoluzione. Questo perché è corretto
associare ai simboli x o p, che compaiono nella funzione d’onda, i termini
«posizione» o «quantità di moto» solo quando la teoria è in grado di
prevedere quale sarà il risultato esatto di una misura, date certe condizioni
di osservazione. Queste condizioni, come si è visto,
per la teoria quantistica, delimitano le possibilità di definizione dei
concetti classici, quindi assicurano che si possa dare un’interpretazione non
ambigua della misura e stabiliscono una corrispondenza tra concetti definiti
e simboli matematici. L’affermazione di Einstein, Podolski
e Rosen, secondo la quale, per uno stato
rappresentato dalla funzione d’onda [6.2], se cerchiamo di conoscere
sperimentalmente la posizione della particella, il disturbo del sistema ne
altera lo stato e quindi, lasciando indeterminato il valore della quantità di
moto, la priva di realtà fisica, andrebbe perciò riformulata, secondo il linguaggio
di Bohr, nei modo seguente: possiamo interpretare
senza ambiguità il simbolo po della [6.2], e
associare ad esso il concetto di quantità di moto, poichè
la [6.4] permette di affermare che compiendo una misura, con un opportuno
dispositivo descritto classicamente, la quantità di moto trovata avrà proprio
il valore o. La corrispondenza tra il simbolo «p» e
il termine «quantità di moto» è valida soltanto per queste particolari
condizioni di osservazione. Cambiando dispositivo sperimentale per
determinare, per es., la
posizione della particella non possiamo utilizzare questo termine neppure per
dire che misurando la posizione la quantità di moto resta indeterminata. «Solo
la mutua esclusione di due procedure sperimentali», osservava Bohr, «consente una definizione non ambigua delle
grandezze fisiche complementari e un uso non ambiguo dei concetti classici
complementari». Coerentemente
con l’idea di complementarità ripresa in questo contesto,
dovremmo allora negare ogni fondamento sia alla premessa, sia alla
conclusione della dimostrazione di Einstein, Podolski e Rosen. Da una parte,
è falsa l’asserzione secondo la quale in meccanica quantistica, «quando gli
operatori corrispondenti a due quantità fisiche non commutano, le due quantità fisiche non possono avere una realtà
simultanea». Ma è falsa non perché in essa sia
implicito un discutibile criterio di realtà, quanto piuttosto perché
presuppone che «la precisa conoscenza di una di esse precluda una tale
conoscenza dell’altra», e quindi assume, arbitrariamente dovremmo dire, che
quelle quantità fisiche, i concetti corrispondenti ai simboli P e Q. Dall’altra, è anche falsa la conclusione circa la
realtà simultanea di queste quantità che si ricava dall’esperimento delle due
particelle, poichè in essa non si tiene conto che
le previsioni esatte sui valori di P e Q della seconda particella sono
ricavate attraverso due successive operazioni di misura sulla prima, quindi
da due diverse condizioni di osservazione e, ovviamente, da due diverse
possibilità di definizione dei concetti associati a quei simboli. Prevedendo
proprio obiezioni di questo genere, Einstein, Podolski e Rosen avevano
scritto al termine del loro articolo: «In realtà, non si arriverebbe alla
nostra conclusione insistendo sul fatto che due o più quantità fisiche
possono essere considerate elementi simultanei della realtà solo quando esse possono essere misurate o previste
simultaneamente. Da questo punto di vista, poiché si può prevedere o l’una o
l’altra delle due quantità P e Q, ma non tutte e due simultaneamente, esse
non sono simultaneamente reali. Ciò fa sì che la realtà di P e Q dipenda dal
processo di misura attuato sul primo sistema, che non disturba in alcun modo
il secondo. Non ci si può aspettare che una ragionèvole definizione di realtà
permetta questo». Essi escludevano questa possibilità, facendo ancora una
volta appello a inevitabili conseguenze paradossali.
Il problema non riguardava, però, né il disturbo né la realtà, ma solo i
nostri concetti. «Rileggendo
questi passi », scriverà alcuni anni dopo Bohr, a
proposito della sua replica, «mi rendo perfettamente conto dell’inefficacia
del mio modo di esprimermi, che deve aver reso molto
difficile cogliere il filo logico del ragionamento. Esso era inteso a mettere in evidenza la sostanziale ambiguità implicita nel
fatto di riferirsi agli attributi fisici degli oggetti, quando ci si occupa
di fenomeni in cui non si può fare alcuna distinzione netta tra il
comportamento degli oggetti stessi e la loro interazione con gli strumenti di
misura». Forse Bohr, parlando di oscurità
espositive, intendeva riferirsi ad affermazioni come «il termine ‘realtà fisica’ può essere riferito correttamente solo al
fenomeno», da cui aveva tratto la conclusione, logicamente necessaria, circa
l’arbitrarietà del giudizio di incompletezza della descrizione quanto-meccanica. Tuttavia, egli non metteva in
discussione la validità degli argomenti utilizzati in quell’occasione;
riconosceva soltanto che il criterio di realtà e il tentativo di confutazione
di Einstein, Podolski e Rosen lo avevano
obbligato a precisare meglio alcuni aspetti delle sue precedenti
formulazioni, i quali probabilmente potevano fornire lo spunto per obiezioni
di questa natura; non a caso la sua replica si era sviluppata attorno ai
concetti di interazione indeterminata e di individualità del fenomeno. Su
questi egli avrebbe sentito il bisogno di tornare in scritti successivi;
questa volta il tema centrale della discussione riguardava un altro
paradosso, e l’obiettivo della polemica non era più Einstein, ma fisici che
fin dall’inizio avevano sostenuto con convinzione l’interpretazione di Copenhagen. «I paradossi quantistici »: queste parole annotava Bohr in uno degli appunti preparatori della conferenza di
Como, e in un altro manoscritto affermava: «dal punto di vista della natura
complementare dell’osservazione e della definizione sembra possibile trattare
coerentemente i paradossi della teoria quantistica in pieno accordo con le
esperienze più semplici». I paradossi cui
si riferiva Bohr sono quelli derivanti dalla
cosiddetta natura duale della radiazione e della materia. Dirà Pauli, per illustrare la situazione nella quale si era venuta a trovare la fisica alla fine del 1926: «la
differenza tra le conseguenze delle due immagini è altrettanto insormontabile
quanto l’analoga differenza tra le due relazioni logiche logiche
o-o e sia-sia». Se ci riferiamo al classico esperimento mentale del fotone e
delle due fenditure, secondo la rappresentazione corpuscolare
il fotone non può che attraversare o una fenditura o l’altra; mentre,
se prendiamo in considerazione la rappresentazione ondulatoria, al fine di
interpretare l’interferenza prodotta, dobbiamo tener presente che la
distribuzione risultante del fotone dipende ovviamente dai possibili percorsi
delle onde parziali sia attraverso l’una, sia attraverso l’altra fenditura. Come si è visto,
le relazioni di Heisenberg mostravano
che i paradossi erano scritti nelle formule semplici della teoria quantistica,
dove compare la costante di Planck: in quelle
formule, h fissa una relazione di proporzionalità diretta tra coppie di
simboli ai quali sono associati concetti utilizzati, rispettivamente, per una
rappresentazione ondulatoria o corpuscolare di un oggetto fisico. Il dualismo
era dunque implicito nell’idea stessa di quanto di azione,
e le relazioni di indeterminazione fornivano una soluzione tecnica
relativamente agevole del paradosso: esse escludono, infatti, che nelle
nostre osservazioni si verifichino situazioni sconcertanti come quelle cui ci
conduce qualsiasi tentativo di rappresentare visivamente il comportamento di
un fotone; solo in questo caso ci troveremmo «di fronte alla difficoltà di
dover dire, da un lato, che il fotone sceglie sempre una delle due direzioni
e, dall’altro, che si comporta come se le avesse percorse entrambe». Nessuna
contraddizione dovremmo invece cogliere nell’uso della descrizione
ondulatoria e della descrizione corpuscolare, visto che una delle conseguenze
della teoria è mostrare che gli esperimenti cui si possono applicare quelle
diverse descrizioni sono tra loro incompatibili. Non si tratta perciò di
assegnare a un fotone o a un elettrone una natura
duale, ma di riconoscere che nello studio di un fenomeno quantistico gli
esperimenti descrivibili con il linguaggio delle onde e quelli descrivibili
con il linguaggio dei corpuscoli si escludono a vicenda. Le relazioni di indeterminazione rendono infatti conto di
un’interazione indeterminata tra oggetto e apparato di misura, per cui ogni
misura tendente a determinare la direzione di propagazione di un fotone impedisce
lo studio del fenomeno di interferenza; viceversa, un esperimento di
interferenza esclude la possibilità di seguire il fotone nello spazio e nel
tempo. Nel già citato
saggio del 1949, Bohr sottolineava
che questo era un punto «di grande importanza logica, poiché solo il fatto
che ci troviamo di fronte alla scelta o di tracciare il percorso di una
particella oppure di osservare gli effetti di interferenza ci permette di
sfuggire alla necessità paradossale di concludere che il comportamento di un
elettrone o di un fotone dipenderebbe dalla presenza di una fenditura del
diaframma, attraverso la quale si potrebbe dimostrare che non è passato». Ma questa non
può che essere la soluzione tecnica del paradosso, perché se davvero la
meccanica quantistica si limitasse a giustificare in questi termini la
coesistenza di concezioni contraddittorie circa la natura fisica degli
oggetti microscopici, essa non sarebbe affatto
immune dal genere di obiezioni sollevate da Einstein
. Daltra parte, per superare realmente quei paradossi,
dissolvendoli, era necessario cogliere il nesso tra le limitazioni imposte
dalle relazioni di Heisenberg all’uso dei concetti
classici e la natura discontinua dei processi microscopici; il che
richiedeva, in ultima analisi, che si esplicitasse il significato del
concetto di interazione indeterminata. Ma su questo il fronte dei sostenitori
dell’interpretazione di Copenhagen era molto meno
compatto di quanto si è soliti sostenere. Nel 1933, in
occasione del conferimento del Nobel, Heisenberg
tornava sui problemi interpretativi della meccanica quantistica chiarendo
definitivamente la propria posizione. A suo avviso, mentre lo scopo della
fisica classica è l’indagine dei processi oggettivi che avvengono
nello spazio e nel tempo, «nella teoria quantistica la situazione è
completamente diversa. Proprio il fatto che il formalismo
della meccanica quantistica non può essere interpretato come una descrizione
visiva di un fenomeno nello spazio e nel tempo mostra che la meccanica
quantistica non si occupa in alcun modo della determinazione oggettiva dei
fenomeni spazio-temporali». La causa di questo ribaltamento di
prospettiva interpretativa sarebbe, per Heisenberg,
il fatto che, «mentre nella teoria classica la modalità di osservazione
non ha alcuna influenza sull’evento, nella teoria quantistica il disturbo
associato con ogni osservazione del fenomeno atomico ha un ruolo decisivo». La perturbazione
discontinua del sistema costituisce dunque un elemento determinante
nella valutazione dei limiti di ogni descrizione spazio-temporale; le
relazioni di indeterminazione vengono così interpretate come una legge della
teoria che esprime l’essenza di ogni processo di misura, dove una parte della
perturbazione resta fondamentalmente sconosciuta: «La determinazione
sperimentale di qualunque evento spazio-temporale richiede in ogni caso un
sistema di riferimento “fissato” - cioè un sistema
di coordinate in cui l’osservatore è in quiete - cui riferire tutte le
misure. L’assunzione che questo sistema sia fissato implica che si ignori dall’inizio la sua quantità di moto, poiché
“fissato” implica, ovviamente, mente altro che ogni quantità di moto
trasferita ad esso non evochi alcun effetto percettibile. A questo punto,
l’indeterminazione fondamentalmente necessaria è cosi
trasmessa via l’apparato di misura all’evento atomico». Era perciò
necessario abbandonare lo schema della fisica classica, che tende a oggettivare i risultati delle osservazioni, riferendosi
a processi spazio-temporali che obbediscono a leggi, o meglio riconoscere che
questo schema entra in conflitto con il carattere non visualizzabile degli
eventi, simbolizzato dalla costante di Planck. E da
qui Heisenberg concludeva,
a proposito dei limiti di validità della meccanica classica: «La fisica
classica rappresenta quello sforzo di studiare È dunque chiaro
che per Heisenberg l’interazione indeterminata
riguarda le conseguenze di un effetto fisico di natura discontinua, di una
perturbazione che interviene in ogni osservazione; e in questo
egli mostrava di essere rimasto fermo alle posizioni che aveva difeso,
contro Bohr, nella primavera del 1927. Ma allora,
come si è detto, sarebbero per lo meno comprensibili le critiche di Einstein e non avrebbe nulla
di arbitrario la sua convinzione che vi sia «qualcosa come lo stato reale di
un sistema fisico, che esiste oggettivamente, indipendentemente da ogni
osservatore o misura, e che può essere descritto, almeno in linea di
principio, con i mezzi di espressione della fisica». Certamente, il punto di
vista di Heisenberg non impediva che questa tesi
potesse dar vita a un programma di ricerca
alternativo; e non a caso anche Einstein leggeva le
relazioni di indeterminazione come una perdita di conoscenza di una parte del
sistema, provocata dal procedimento di misura. D’altra parte, come trovare in
quel modo di intendere l’idea di interazione
indeterminata argomenti convincenti per evitare i commenti ironici fatti da Schrodinger alle risposte evasive dietro cui, a suo
avviso, erano soliti trincerarsi i sostenitori del punto di vista ufficiale?
Secondo Schrodinger quelle risposte avevano il solo
pregio «di essere inattaccabili perché basate sul
principio semplice e sicuro che la sana e sobria realtà, per gli scopi della
scienza, coincide con ciò che e (o può essere) osservato» e perchè davano per
scontato «che ciò che è o può essere osservabile coincide esattamente con ciò
che piace alla meccanica quantistica di chiamare osservabile». Schrodinger aveva perfettamente ragione nel sottolineare che le radici della controversia andavano
cercate nel significato che si attribuiva al principio metodologico secondo
cui «è la teoria a decidere che cosa possiamo osservare». A questo tipo di obiezioni Heisenberg
contrapponeva unicamente una presa di posizione sui limiti conoscitivi della
teoria, la quale, appunto, non si occupa della determinazione oggettiva dei
fenomeni spazio-temporali. Nel suo ragionamento, si doveva
infatti ammettere implicitamente che lo stato di un sistema fosse
definibile indipendentemente da ogni processo di osservazione; le relazioni
di indeterminazione rendevano allora conto dell’effetto fisico per cui le
nostre osservazioni, a causa di un’interazione finita con il sistema da parte
dell’apparato, ci permettono soltanto di raccogliere informazioni incomplete
su quello stato. In ciò egli non si discostava molto dall’atteggiamento di
quei fisici. che, alla fine dell’Ottocento,
ricercavano ipotesi plausibili per spiegare perchè non possiamo misurare la
velocità assoluta della Terra, come dovrebbe essere assumendo la concezione
classica dello spazio e del tempo assoluti. In entrambi i casi, si tentava di
spiegare l’impossibilità di determinare sperimentalmente un aspetto della
realtà. Ma così si rinunciava a priori ad analizzare le assunzioni che
rendevano necessarie quelle previsioni inosservabili, e si rinunciava a
riflettere sul grado di arbitrarietà di tali
assunzioni alla luce delle nuove leggi della fisica. Bohr rifiutava il punto di vista
di Heisenberg, proprio perché coglieva in esso gli argomenti sui quali faceva leva la critica di Einstein: «In particolare non sarebbe fuori luogo a
questo proposito mettere in guardia contro un equivoco che verosimilmente sorge quando si cerca di esprimere il contenuto delle ben
note relazioni di indeterminazione di Heisenberg
[...] con questa affermazione: “la posizione e la
quantità di moto di una particella non possono essere misurate
simultaneamente con quanta accuratezza vogliamo. Secondo questa formulazione,
sembrerebbe come se avessimo a che fare con una rinuncia arbitraria della
misura dell’uno o dell’altro dei due attributi ben definiti dell’oggetto; ciò
non precluderebbe la possibilità di una teoria futura che prenda in considerazione entrambi gli attributi in linea con la
fisica classica. Dalle considerazioni precedenti dovrebbe essere chiaro che
la situazione della fisica atomica nel suo insieme priva di
ogni significato attributi intrinseci quali quelli che le
idealizzazioni della fisica classica tenderebbero ad attribuire all’oggetto».
Al contrario, fa osservare Bohr, «il ruolo corretto
delle relazioni di indeterminazione consiste
nell’assicurare quantitativamente la compatibilità logica dileggi
apparentemente contraddittorie, le quali compaiono quando usiamo due diversi
dispositivi sperimentali, di cui solo uno permette un uso non ambiguo del
concetto di posizione, mentre solo l’altro permette l’applicazione del
concetto di quantità di moto quale e definito esclusivamente mediante la
legge di, conservazione». Per Bohr, come per Pauli, l’obiettivo
primario era esplicitare il significato e le conseguenze fisiche e teoriche
della scoperta planckiana dell’indivisibilità del
quanto di azione; e non è certo casuale che entrambi
vedessero in questo una stretta analogia con quanto era avvenuto in fisica
con la scoperta di un’altra costante della natura, la velocità delle luce. A
loro avviso, non c’era alcun problema particolare
riguardante la perturbazione dello strumento sull’oggetto osservato.
L’interrogativo corretto era un altro: cosa accade se in linea di principio, cioè per la natura stessa dei processi fisici,
l’interazione resta in ogni caso indeterminata e non può essere tenuta sotto
controllo neppure con un raffinamento degli strumenti? Quali concetti fisici
e quali categorie interpretative siamo obbligati a
modificare con l’avvento dell’idea di discontinuità? Sembrava quasi che essi
seguissero alla lettera gli insegnamenti metodologici di Einstein, il quale nel 1905, abbandonando i presupposti
della fisica dell’etere, si era chiesto quali concetti e quali categorie
fosse necessario modificare se si assumeva l’esistenza di un limite alla
velocità di propagazione dell’azione, e quale nuova immagine della realtà
fosse compatibile con la nuova teoria. Proprio perché Pauli e Bohr ritenevano che
questa fosse la domanda fondamentale assumevano la finitezza del quanto di azione e la discontinuità o individualità dei processi
atomici come postulato della nuova meccanica. Le idee di discontinuità e di individualità mettono in luce aspetti della realtà che
sono del tutto estranei alle teorie classiche, cosi come il postulato della
velocità della luce riguarda aspetti della realtà che sono incomprensibili
per la concezione dello spazio e del tempo della meccanica newtoniana. L’interazione indeterminata associata a ogni processo di misura è la conseguenza osservativa dell’individualità dei processi atomici e
delle leggi della meccanica quantistica, così come la dipendenza della
simultaneità degli eventi dallo stato di moto dell’osservatore è, per la
teoria della relatività, la conseguenza osservativa
del postulato della velocità della luce e delle leggi dell’elettromagnetismo.
E in entrambi i casi le conseguenze dei postulati
implicano una violazione del senso comune. La relazione tra
interazione indeterminata e individualità del fenomeno va intesa nel senso
che, ogni qualvolta tentiamo di fare oggetto di indagine
l’interazione che resta indeterminata nel corso di una misura - per es., la
quantità di moto quando facciamo una misura di posizione - dobbiamo
utilizzare un nuovo dispositivo sperimentale; un dispositivo che dà luogo inevitabilmente
a una nuova interazione indeterminata e quindi a un fenomeno totalmente
nuovo. Ogni processo atomico possiede allora una sua intrinseca
individualità, in quanto, come diceva Bohr, ogni
tentativo di suddividere il fenomeno, cioè di
controllare gli aspetti che restano indeterminati una volta scelto un certo
dispositivo sperimentale, origina sempre un fenomeno differente. Si deve perciò concludere
che ogni fenomeno è determinato univocamente e inseparabile dalle condizioni
sperimentali nelle quali si manifesta; in questo senso, secondo Bohr, la meccanica quantistica sviluppa l’idea
relativistica della dipendenza dei fenomeni dal sistema di riferimento. Ma la
dipendenza di cui parla la meccanica quantistica esprime una condizione
ancora più forte, perché esclude ogni possibilità di descrivere in modo
univoco gli oggetti atomici tramite le usuali proprietà fisiche, ovvero di descrivere i fenomeni indipendentemente dal modo
in cui sono stati osservati. La revisione del concetto classico di fenomeno richiedeva,
per Pauli, «la possibilità logica di un nuovo e più
ampio modello di pensiero», il quale ci obblighi a prendere in considerazione
«l’osservatore, comprendendo l’apparato da lui usato, in modo diverso da come
avviene nella fisica classica». L’osservatore non ha più la posizione
distaccata o nascosta che gli viene implicitamente
riconosciuta dalle idealizzazioni dei modelli classici di descrizione, ma,
come dice Pauli, è «un osservatore che con i suoi
effetti indeterminabili crea [ogni volta] una nuova situazione». In quel
modello di pensiero si tiene infatti conto che ogni
osservazione è il risultato di una libera scelta da parte dell’osservatore
tra procedure sperimentali che si escludono l’una con l’altra. Tuttavia, per Bohr, questa scelta non implicava, come invece riteneva Heisenberg, alcuna rinuncia sul piano conoscitivo; essa
era piuttosto la conseguenza, implicita nel postulato quantistico, «del
riconoscimento che un’analisi [più particolareggiata dei fenomeni atomici] è
esclusa in linea di principio» . E, proprio per
evitare le obiezioni cui si prestava il ragionamento di Heisenberg,
egli sconsigliava l’uso di «frasi, che si trovano spesso nella letteratura
fisica, come ‘disturbare il fenomeno per mezzo di osservazioni’ o ‘creare attributi fisici a oggetti
atomici per mezzo di misurazioni’. Queste frasi, che possono servire a rammentare i paradossi
apparenti della teoria quantistica, possono al tempo stesso creare confusione,
poiché parole come ‘fenomeni’ e ‘osservazioni’, così come attributi e
misurazioni, sono usate in un modo difficilmente conciliabile con il
linguaggio comune e la loro definizione pratica». Per rendere conto
del nuovo stato di cose, egli suggeriva di utilizzare la «parola fenomeno
esclusivamente per riferirci alle osservazioni ottenute in circostanze ben
definite, comprendenti una descrizione dell’intero congegno sperimentale”. Il fenomeno ha
dunque una sua individualità che si manifesta nell’impossibilità concettuale
di operare una netta separazione tra il sistema fisico, classicamente
definibile e descrivibile in modo indipendente da ogni osservazione, e lo
strumento (li misura, mediante il quale quel sistema può essere osservato.
L’osservatore, fissando le condizioni nelle quali un oggetto atomico viene osservato, compie ogni volta un intervento di
portata indeterminata, fissa cioè i vincoli per il corso del fenomeno, senza
tuttavia influenzare il risultato della misura. Il paradosso del
dualismo scompare tecnicamente, come abbiamo visto, se si tiene conto che
ogni descrizione è sempre riferita a una particolare
situazione sperimentale e riguarda fenomeni singoli. In questo contesto, il paradosso può essere allora soltanto il
risultato di un presupposto filosofico: perché esso esista si deve, infatti,
ammettere che le immagini classiche delle onde e dei corpuscoli, con cui
descriviamo di volta in volta i fenomeni singoli, si riferiscano anche a proprietà
possedute dai sistemi, indipendentemente da qualsiasi interazione con gli
strumenti di osservazione. Così, nella descrizione dei processi quantistici,
è ancora possibile utilizzare i concetti classici di «posizione», «velocità»,
«frequenza» senza che si cada negli esiti catastrofici del dualismo, solo se
si rinuncia a tale presupposto filosofico; o meglio, solo se si riconosce che
esso deriva da un’assolutizzazione arbitraria di
un’immagine scientifica del mondo. Il paradosso si dissolve solo se si
ammette - per usare un modo di esprimersi tradizionale - che l’uso dei
concetti classici per descrivere le manifestazioni fenomeniche degli oggetti
non implica necessariamente che gli oggetti stessi
possiedano proprietà corrispondenti a quei termini anche quando non sono
osservati. I paradossi
della realtà, si trasformano così in paradossi del nostro linguaggio e delle
sue diverse funzioni descrittive rispetto a ciò che si ritiene sia l’oggetto della descrizione. E se vogliamo tradurre il
ragionamento precedente su questo nuovo piano, dobbiamo necessariamente concludere che i paradossi scompaiono solo se si rinuncia
a credere che quel linguaggio rifletta una struttura della realtà e si
riconosce che le nostre descrizioni non sono indipendenti dal punto di vista
scelto dall’osservatore per descrivere la realtà con il linguaggio di cui
dispone. Questa è, tra l’altro, la conseguenza del processo di astrazione concettuale che accompagna la crescita della
conoscenza e che nella microfisica comporta che il
linguaggio formale con cui si esprime la teoria non sia più in grado di
suggerire un’immagine intuitiva e visualizzabile della realtà. Nel suo ultimo
scritto, Planck faceva notare che la differenza
sostanziale tra la meccanica classica e la meccanica quantistica, derivante
dall’introduzione del quanto di azione, non
riguardava la dibattutissima questione della
causalità e del determinismo; piuttosto, a suo parere, il dato realmente nuovo
di cui bisognava prendere atto era che il significato di ogni simbolo che
compare nella teoria non è più «immediataménte e direttamente intelligibile». Se, infatti, è vero che la funzione d’onda della meccanica
quantistica è «completamente determinata per tutti i punti e tutti i tempi
dalle condizioni iniziali e al contorno», allora «il principio del
determinismo è rigorosamente valido nell’immagine del mondo della meccanica
quantistica come in quella della fisica classica». «La differenza»,
aggiungeva Planck, «sta solo nei simboli e nella
matematica»; una differenza che, come è espresso
rigorosamente dalle relazioni di Heisenberg, si
riflette in un’«incertezza nella traduzione» dei simboli, dal linguaggio
teorico al linguaggio con cui descriviamo i risultati delle nostre
osservazioni. È proprio l’incertezza di questa traduzione che ci obbliga a
riconoscere che «il significato di un certo simbolo non ha un senso definito,
a meno che non si precisino le condizioni del
particolare strumento di misura » usato per tradurre quel simbolo in un termine
del nostro linguaggio. L’incertezza delle nostre previsioni, concludeva Planck, si riduce così
a un’incertezza nella traduzione tra termini di due linguaggi differenti. Di questa incertezza tengono conto le leggi della meccanica
quantistica, dove la funzione d’onda «non ci dà i valori delle coordinate in
funzione del tempo, ma semplicemente la probabilità che le coordinate
possiedano certi valori in determinati istanti». Nello stesso
spirito del ragionamento di Planck, Pauli suggeriva di considerare queste probabilità come
«primarie». Egli intendeva così sottolineare che, a
differenza del concetto classico di probabilità, queste «non si possono
ricondurre, tramite opportune ipotesi, a leggi deterministiche». Le probabilità
primarie sono determinate da campi in spazi multidimensionali,
i quali possono o descrivere la statistica di una serie di misure effettuate
in condizioni iniziali identiche, oppure, per una singola misura, esprimere
semplicemente delle possibilità. Per chiarire meglio il suo pensiero, Pauli diceva che il risultato di
una misura individuale non è compreso da leggi, nel significato classico di
previsione del valore esatto di una grandezza. Esso si presenta come un fatto
primario, non determinato da cause, e per questo egli,
riprendendo un’espressione di Bohr, parlava
dell’«irrazionale verificarsi di un singolo evento». Un campo di probabilità,
definito in uno spazio multidimensionale,
rappresenta allora per Pauli una sorta di «catalogo
di aspettazione», e le leggi che esprimono
l’evoluzione del campo descrivono un ordinamento astratto delle possibilità
di osservazione. Si tratta di campi che, a differenza di quelli della fisica
classica, non si possono misurare in linea di principio ugualmente in punti
diversi: «L’esecuzione di una misura in un dato luogo ha come conseguenza il
passaggio a un fenomeno con condizioni iniziali
diverse, alle quali corrisponde un nuovo insieme di possibili risultati da
ottenere, e perciò un campo dappertutto totalmente nuovo». Parlare di
probabilità primarie in questo contesto significa
dire che, una volta scelte le condizioni di osservazione, ovvero fissati i
vincoli per un certo fenomeno, le leggi della teoria non sono in grado di
fare previsioni esatte sul risultato della misura, ma descrivono le diverse
possibilità evolutive del sistema. Questa generalizzazione
del concetto classico di legge tiene conto del fatto che in fisica atomica i
fenomeni hanno «la nuova proprietà della totalità, in quanto non si lasciano
scomporre in fenomeni parziali senza che si cambi essenzialmente ogni volta
l’intero fenomeno». Lo schema di pensiero più ampio, cui si richiamava Pauli, avrebbe dovuto allora permettere alla teoria di
«includere l’irrazionale verificarsi di un singolo evento» e quindi, «come
combinazione dell’aspetto razionale e irrazionale di una realtà
essenzialmente paradossale, essa si può anche definire come una teoria del
divenire». «La questione»,
dirà Bohr, ricordando le discussioni al Consiglio Solvay, «era se, per ciò che riguarda i singoli effetti,
si dovesse adottare una terminologia proposta da Dirac,
secondo la quale ci troviamo di fronte a una scelta
compiuta dalla ‘natura’, o se invece, come suggeriva Heisenberg,
dovessimo dire che la scelta era compiuta dall”osservatore’ che costruisce gli strumenti di misura e
legge ciò che essi registrano. Qualsiasi terminologia del
genere, tuttavia, sembrerebbe dubbia, poiché da una parte è poco ragionevole
attribuire alla natura una volizione nel senso comune della parola, e dall’altra,
non è certo possibile all’osservatore influenzare gli eventi che possono
verificarsi nelle condizioni da lui predisposte. A mio avviso, l’unica
alternativa sta nell’ammettere che, in questo campo
dell’esperienza, ci troviamo di fronte a fenomeni individuali, e che le
nostre possibilità di adoperare gli strumenti di misura ci permettono solo di
fare una scelta fra i diversi tipi di fenomeni complementari che vogliamo
studiare». La differenza fondamentale tra la descrizione classica e la
descrizione quanto-meccanica della realtà fisica
nasce, dunque, da una ridefinizione dello stesso
concetto di fenomeno e dalle conseguenze inevitabili della distinzione
operata in questo caso tra l’apparato di misura e l’oggetto in esame. Nel mondo degli atomi e delle particel1e, l’interazione
prodotta in ogni processo di misura forma una parte inseparabile del
fenomeno: questa è la conseguenza non del contrasto tra il carattere macroscopico degli strumenti e quello microscopico dei
processi elementari, ma di una nuova legge di natura, che ci obbliga ad
abbandonare il requisito di continuità proprio delle nostre forme di
rappresentazione. D’altra parte, nello stesso concetto di descrizione è
implicita l’assunzione di una separabilità di principio tra il fenomeno
descritto e gli strumenti attraverso i quali raccogliamo
i dati per la descrizione. La stessa descrizione del risultato di una misura -
dire, per es.,
«l’elettrone si trova nella posizione a» - comporta un’operazione concettuale
di oggettivazione del significato di questa asserzione, ovvero il riconoscimento
che il risultato sia, in linea di principio, indipendente dalle condizioni di
osservazione: una possibilità che la meccanica quantistica esclude in linea
di principio. Al contrario, per essa ogni processo
di misura dà luogo a un fenomeno individuale, che ammette proprie modalità di
descrizione. Di questo tiene conto la meccanica quantistica, stabilendo una
relazione rigorosa tra condizioni di osservazione e
possibilità di definizione dei concetti classici utilizzati nelle singole
descrizioni. L’idea di complementarità esprime allora il carattere mutuamente
esclusivo delle descrizioni riferite a particolari condizioni di osservazione e quindi a fenomeni individuali; d’altra
parte, la meccanica quantistica può ammettere soltanto descrizioni complementari,
perché ciascuna di esse presuppone un’operazione concettuale di distinzione
tra oggetto e apparato incompatibile con la natura del fenomeno quantistico.
In questo senso, si può allora affermare che «le condizioni reali di misura
costituiscono un elemento inerente alla descrizione di ogni
fenomeno», per cui una realtà indipendente nel significato ordinario non può
essere assegnata né al fenomeno, né allo strumento di osservazione; piuttosto
l’accento va messo, come ricordava Bohr in una
lettera a Dirac, sul carattere soggettivo dell’idea
di osservazione e sul contrasto che esiste tra questa e l’idea classica di
oggetto isolato. La meccanica quantistica rappresenta perciò una forma di
descrizione razionale dei fenomeni della fisica atomica, ed è l’unica
possibile di una realtà che ci obbliga sempre a specificare il punto di vista
dal quale intendiamo descriverla; a indicare cioè le
condizioni nelle quali ogni descrizione è compatibile con l’univoca
definizione dei concetti che utilizza. All’esterno di queste condizioni non è
data alcuna descrizione della realtà; o, più propriamente, se si prescinde
dalle condizioni sperimentali, il concetto di realtà fisica di un sistema
quantistico è del tutto privo di significato. L’unico modo corretto di
utilizzare il termine « realtà » è allora applicano
alla totalità costituita dal sistema e dall’apparato sperimentale. La meccanica
quantistica solleva dunque, per Bohr, il «vecchio
problema filosofico dell’esistenza oggettiva dei fenomeni indipendentemente
dalle nostre osservazioni», arricchendolo di nuovi significati: «la scoperta
del quanto di azione mostra non solo i limiti
naturali della fisica classica, ma pone la scienza della natura in una
situazione del tutto nuova […]; ogni osservazione richiede un’interferenza
sul corso del fenomeno che è di natura tale da privarci dei fondamenti che
sono alla base del modo di descrizione causale» E, criticando quanti
tendevano a interpretare la fisica quantistica come la conferma di particolari
indirizzi filosofici, per es. del positivismo, Pauli
faceva notare che «la situazione gnoseologica di fronte alla quale si trova
la fisica moderna non era stata prevista da alcun sistema filosofico». Ma, in verità,
se questa situazione era del tutto sconosciuta e nuova
per le implicazioni relative all’abbandono della causalità, non lo era
affatto, secondo Bohr, sia per quanto riguarda il
problema della realtà fisica, sia per quanto riguarda l’indipendenza dei
fenomeni dalle condizioni di osservazione. E ad Einstein
Bohr ricordava che era stata la relatività a richiamare
per la prima volta la nostra attenzione sulla «dipendenza essenziale di ogni fenomeno fisico dal sistema di riferimento
dell’osservatore». Essa aveva permesso, infatti, di «chiarire i paradossi
legati alla velocità finita della luce e il giudizio sugli eventi da parte di osservatori in moto relativo, mostrando l’arbitrarietà
contenuta proprio nel concetto di simultaneità, e suggerendo quindi un
atteggiamento più libero sul problema della coordinazione spazio-temporale”.
Sul piano concettuale essa ci obbliga, infatti, a rinunciare all’abituale
separazione delle idee di spazio e di tempo se non vogliamo precluderci la
comprensione delle leggi della fisica. La meccanica quantistica non fece altro,
secondo Bohr, che sviluppare quella revisione del nostro atteggiamento verso la realtà fisica,
avviata dalla relatività di Einstein, il quale
aveva contribuito «alla fondamentale modifica di tutte le idee riguardanti il
carattere assoluto dei fenomeni fisici». «Abbiamo imparato dalla relatività
che l’espediente della netta separazione di spazio e tempo, richiesto dai
nostri sensi, dipende puramente dal fatto che le velocità di cui si tratta
comunemente sono piccole rispetto alla velocità della luce. Similmente,
possiamo dire che la scoperta di Planck
ci ha portato a riconoscere che la correttezza del nostro atteggiamento
tradizionale, che è caratterizzato dal requisito della causalità, dipende dal
piccolissimo valore del quanto di azione rispetto alle azioni con cui abbiamo
a che fare nei fenomeni ordinari». Nelle obiezioni
rivolte all’interpretazione della meccanica quantistica e soprattutto
nell’articolo del ‘35, Einstein sembrava, invece,
dimenticare la grande lezione che la relatività
aveva dato a proposito del problema della realtà fisica. «E’ stato per me
molto piacevole essere presente durante le conversazioni tra Bohr e Einstein»,
scriveva Ehrenfest nel novembre del 1927. «Come un
gioco di scacchi. Einstein tutto il tempo con nuovi
esempi [...] Bohr
circondato da nuvole di fumo filosofico costantemente alla ricerca di argomenti per abbattere un esempio dopo l’altro [...]. Ma io sono sempre senza riserve dalla parte di Bohr e contro Einstein. Il suo
atteggiamento nei confronti di Bohr è ora esattamente
uguale all’atteggiamento dei difensori della simultaneità assoluta verso di lui». (da Atomi, Metafore, Paradossi di Sandro Petruccioli,
pp. 287-286) |
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