NIRVANA E DIO, L’ALTRO MISTERIOSO

 

Di P. Knitter, Senza Budda non potrei dirmi cristiano, pp. 70-97

 

 

In quest’ultimo dei tre capitoli fondativi, dedicati a Dio e al nirvana, dibattiamo un tema che ribolle sotto la superficie dei problemi che incontro nel confrontarmi con Dio, inteso come Altro trascendente, nonché Altro personale: come trovare le parole per una Realtà che, tanto per la sua stessa natura, quanto per come tocca la nostra vita, va essenzialmente al di là delle parole. Quando i buddhisti che hanno avuto una qualche esperienza d’Illuminazione o i cristiani che sono entrati negli ambiti della mistica tentano di parlare di ciò che sta loro accadendo, cominciano a balbettare. Scoprono come, per quanto possa essere stata suscitata da parole, la loro esperienza si colloca sempre due passi avanti, oppure sfugge alle parole che essi potrebbero usare per descriverla. Ecco perché il buddhismo e il cristianesimo, nonché le altre religioni del mondo, riconoscono, sia pure in termini diversi, che ciò che davvero conta per loro è una questione che attiene al Mistero. Nel proprio nucleo più intimo, le religioni trattano una Realtà che esse stesse riconoscono indefinibile, incomprensibile ineffabile.

Comunque sia, tutte le religioni parlano, e alcune più di altre. Il cristianesimo - insieme con le altre religioni semitiche, ebraismo e islam, e forse più di queste - è una delle religioni più “loquaci”. Come vedremo approfondendo in questo capitolo, in tutta la loro storia i cristiani hanno utilizzato una sfilza di parole per descrivere e perfino per definire quello in cui sono, anche quando queste credenze attenevano alla natura stessa di Dio.

E il problema sta proprio in questo, cioè in come tenere in me tutte le parole riguardanti Dio che ho imparato da buon cristiano e successivamente da teologo professionista, con crescente consapevolezza, specialmente negli ultimi tre decenni, del Mistero di Dio. Ora che ci penso, il problema delle “parole” potrebbe non soltanto affiorare dagli altri problemi che o trattato negli ultimi due capitoli, ma perfino essere una delle loro cause maggiori.

Mi si consenta, allora, di fare un tentativo per descrivere i problemi che mi pongono le parole.

 

 

I miei combattimenti interiori: parole che incatenano il Mistero

 

Con il passare degli anni, l’utilizzo del linguaggio religioso con cui sono cresciuto mi ha posto problemi sempre maggiori. Spesso, specialmente a messa, ma anche conversando con amici cristiani come me, oppure leggendo libri di autori cristiani, ho sentito o letto espressioni che mi bloccano nei miei percorsi mentali o emotivi. I miei problemi, in particolare, hanno a che fare o con la comprensione o con lo sconcerto: mi sono chiesto “Questo cosa significa veramente?”, oppure mi sono incagliato nella questione: “Questo può davvero significare quello che dovrebbe significare?”. Non mi riferisco alle cose strane che s’infilano così facilmente nei discorsi o nei libri di religione (come dice un mio amico: «La religione attira sia gli ingegni più brillanti sia gli sprovveduti»). A voler essere fin troppo onesto, a scatenare i miei problemi sono state parole che formano il tessuto stesso della professione di fede e del dogma cristiani, come: «Figlio unigenito... Della stessa sostanza del Padre... Verrà a giudicare i vivi e i morti... Concepita senza peccato... Assunta corporalmente in cielo».

Il problema che mi pone un simile linguaggio non sta tanto nel fatto che possa non essere comprensibile per me (anche se devo ammettere che faccio ancora fatica ad afferrare termini quali “consustanziale” o “assunta corporalmente in cielo”); quello che mi ha lasciato interdetto è il fatto che queste parole abbiano troppo senso: sono, cioè, state capite e spiegate fin troppo chiaramente o definitivamente. Così, la mia croce non è stata la mancanza di significato, bensì un eccesso di significato; essa non sta nella possibilità di trovare un significato, ma nella determinazione del significato stesso. L’immagine che viene in mente è quella di un bellissimo uccello tropicale... in gabbia. Pur essendo in grado di spiccare il volo, non gli è consentito.

Uccidiamo la religione se non le diamo la possibilità di spiccare il volo; se ciò può costituire un problema per qualsiasi religione, per il cristianesimo rappresenta un problema notevole.

 

Un equilibrio delicato

 

Per sua stessa definizione, il cristianesimo ha la responsabilità molto impegnativa di dover mantenere un equilibrio delicato tra parole umane e Mistero divino. Da un lato, potremmo dire che le parole rappresentano il senso stesso del cristianesimo e non soltanto per il fatto che esso ha ereditato dalla madre ebrea amore e rispetto per il Dabar o ‘Verbo’ di Dio - Verbo che ha generato il mondo («E Dio disse: “Sia... “») e che poi ha proseguito la conversazione tramite Mosè e i profeti. Il cristianesimo è andato oltre sua madre e, in un certo senso, le ha procurato un bel po’ di dolore, quando i teologi, nei secoli successivi, hanno introdotto una distinzione per così dire, tra un “Dio parlante” e un “Dio creatore”. Il Dio sempre-uno, avvertirono e poi proclamarono i cristiani, non era soltanto Padre (prima Persona della Trinità), ma anche Verbo (seconda Persona). (Il compito dello Spirito, allora, era di suscitare una risposta al Verbo).

Poi, come se quest’elemento non fosse sufficiente a denotare la differenza tra la prole cristiana e la maternità ebraica, l’autore del Vangelo di Giovanni fece un annuncio che si è riverberato e amplificato lungo tutta la storia cristiana, diventando il dogma di fede che, più di ogni altro, ha distinto il cristianesimo dalle altre religioni: questo Verbo, che creò il mondo e che parlò a Mosè e ai profèti, si è incarnato nell’essere umano Gesù di Nazareth. «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 114). I cristiani, cioè, proclamano che Gesù è il Verbo di Dio. Il Dio stesso che è il Verbo è il fondatore e il nucleo del credo e della pratica cristiani.

Questo rispetto per Dio come Verbo diventò e rimane tuttora una parte centrale della mia spiritualità fin da quando divenni, e restai per ventitré anni, membro della Società del Verbo Divino. Come missionario del Verbo Divino, il compito universale di tutti i cristiani si trasformò nel compito particolare della mia vita: ascoltare la Parola di Dio, comprenderla alla luce di altre culture e utilizzare poi altre parole per parlarne al mondo intero. Grazie ai missionari della SVD (l’acronimo del loro nome latino), sono ancora un amante delle parole.

Il fatto di diventare teologo ha sia approfondito quell’amore sia aumentato la mia cautela al riguardo. Nei miei anni di studio all’Università Gregoriana di Roma (1962-1966) - anni che coincisero provvidenzialmente e meravigliosamente con lo svolgimento del Concilio Vaticano II (1962-1965) - l’enfasi, come c’era da aspettarsi, era posta sulle parole, sulla Parola di Dio come trasmessa nella Bibbia, nonché sulle parole della chiesa, contenute in un libro che noi studenti chiamavamo semplicemente Denzinger (dal nome di uno dei suoi curatori gesuiti). Nelle pagine consunte e sottolineate del mio Denzinger, racchiuse in una copertina malconcia, avevo a disposizione tutte le dottrine dei concili e dei papi nella storia. Queste parole della chiesa, ci veniva spiegato, erano necessarie ed erano volute da Dio per interpretare, proteggere e talvolta definire infallibilmente il vero significato della Parola di Dio. Così, per i nostri esami principali (sempre orali, con tre esaminatori gesuiti, e sempre in latino) entravamo tremanti nell’aula con due libri in mano: la Bibbia e il Denzinger (quest’ultimo nella mia mano destra dal momento che lo usavo più spesso). La veridicità e la precisione delle nostre risposte andavano misurate, in ultima analisi, sulla parola di Dio, e della chiesa.

Eppure, in mezzo al flusso di parole che caratterizzò la mia istruzione universitaria alla Gregoriana, venivamo anche avvertiti, per quanto solo in modo occasionale ed enigmatico, delle limitazioni delle parole e del ragionamento umano che ci sta dietro. Questi avvertimenti li sentivamo ai nostri corsi di teologia spirituale, quando studiavamo i mistici cristiani. Mistici quali Dionigi l’Areopagita, Giovanni della Croce, Teresa d’Avila, Meister Eckhart, Giuliana di Norwich cominciarono a ronzarmi in testa mentre ascoltavo le lunghe esposizioni dei docenti in altri corsi “Sul Dio Trino”, “Sul Verbo Incarnato”, “Sui Novissimi”. Sopra la massa crescente del mio sapere teologico aleggiava l’avvertimento dei mistici: tutto ciò che si può conoscere di Dio è di gran lunga sorpassato e deve essere tenuto sotto controllo da quanto non si conosce e non si può conoscere di Dio.

Tuttavia, come scoprii sempre durante i miei anni alla “Greg”, non erano soltanto i mistici a metterci in guardia sul nostro linguaggio. Perfino il Denzinger riconosceva esplicitamente e si prostrava davanti al Mistero di quello che i cristiani chiamano “Dio”. Nel Quarto Concilio Lateranense del 1215 e ancora nel Concilio Vaticano I del 1875, il Magisterium (il Magistero, o corpus dottrinale ufficiale della Chiesa cattolica) definì formalmente l’“incomprensibilità” di Dio (Denzinger, nn. 428 e 1782). In altre parole, è dogma definito che Dio non può essere definito.

E qui sta il pizzicore che già sentivo in quei primi anni, ma che successivamente divenne un’irritazione spirituale ancora maggiore: in che modo tengo insieme tutto il sapere assodato, di cui dispongo da teologo e che sono chiamato a professare da credente, con quanto ho sempre più avvertito e che il Magistero ha perfino definito come il mistero assoluto e l’incomprensibilità di Dio?

 

 

Un equilibrio spezzato

 

La triste realtà e la radice dei miei combattimenti interiori non abbiamo tenuto insieme le due componenti di cui sopra (quella conoscitiva e quella mistica). Nelle aule di teologia, dai pulpiti domenicali, a catechismo, fin troppo spesso noi cristiani non osserviamo il necessario equilibrio tra incomprensibilità, tra le nostre parole umane e il Mistero ricco e ineffabile di Dio.

Lasciate che elenchi alcuni dei modi in cui questo è avvenuto nel mio caso. Cercherò di parlare come una persona seduta sulle panche di una chiesa, cioè esattamente il posto che occupo tutte le domeniche (be’, quasi tutte le domeniche), da quando ho lasciato il sacerdozio, nel 1975. Forse, la fonte principale del mio frequente sconforto riguardo al linguaggio parlato nella comunità ecclesiale risiede nel fatto che esso sia così concreto, o così preciso, davvero letterale. Ormai so che molti di noi cristiani adulti hanno fatto tanta strada dai tempi in cui consideravano “i sei giorni della creazione” giornate di ventiquattro ore. E io stesso ho fatto molta strada dai primi anni Sessanta, quando sedevo alle lezioni di padre Clemens Fuerst sui Novissimi (“De Ultimis”) e scrivevo diligentemente sul quaderno che il fuoco dell’inferno è «materiale» e che, anche se non sappiamo con certezza che tipo di strumenti musicali saranno utilizzati per suonare la chiamata al Giudizio Universale, «un suono ci sarà».

L’istruzione religiosa postconciliare ha messo in guardia molti cattolici dal prendere alla lettera tutte le immagini e asserzioni del Credo e del catechismo che professano e usano. Okey è un sollievo, ma è soltanto una soluzione a metà. Se non letteralmente, come dovremmo interpretare questi articoli di fede? Cosa stiamo affermando, cosa intendiamo dire, quando diciamo ciò che diciamo o sentiamo ciò che sentiamo ogni domenica? Che ci sono «tre Persone in Dio», che «Gesù siede alla destra del Padre», che «verrà alla fine dei tempi», che Maria era vergine «prima, durante e dopo» la nascita di Gesù che alcuni vanno in purgatorio e che altri soffriranno all’inferno «in eterno», che Maria fu «assunta corporalmente in cielo»? Non sto chiedendo che un qualche ben definito significato sostituisca quello letterale di questi enunciati di fede. Io - e molti cristiani con me - sto semplicemente chiedendo: «In che cosa crediamo se non crediamo nel significato letterale di simili enunciati?».

I problemi che mi pone il linguaggio cristiano si approfondiscono proprio quando tentiamo di rispondere davvero alla domanda: «In che cosa crediamo, se non crediamo alla lettera?». In questa maniera tante interpretazioni delle dottrine cristiane si sono trasformate in barriere all’esplorazione del contenuto più profondo, o all’esplorazione di altro contenuto. La ragione principale sembra essere il modo in cui i significati attribuiti agli elementi della fede cristiana hanno spesso innalzato muri, muri che escludono. E lo hanno fatto sia escludendo altre, o diverse, interpretazioni, insistendo che questo è l’unico modo valido di concepire una determinata dottrina (ad esempio, la transustanziazione è il solo modo valido di concepire la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia), sia escludendo, o denigrando, tutte le verità dall’altra parte del muro cristiano, in altre religioni. Sembra che molto spesso la maniera in cui noi cristiani affermiamo che “deteniamo queste verità” ci porti a negare o a screditare le verità che altri detengono o sostengono.

Quello a cui voglio arrivare ha a che fare con il marchio “solo e unico” che caratterizza una larga parte della fede e della dottrina cristiane. Se davvero c’è un solo Dio, allora tutti gli altri dei sono falsi (e per questo motivo gli altri “dei” meritano soltanto una “d” minuscola). Se Gesù è davvero il Figlio di Dio, è l’unico Figlio di Dio; oppure se è davvero il Salvatore, allora è l’unico Salvatore. Se la chiesa cristiana rappresenta la via d’accesso alla salvezza, allora è la sola via, o almeno la via migliore e definitiva. Oppure, per riprendere alcune delle questioni dei precedenti: se Dio è onnipotente, allora non può essere dipendente; se Dio è davvero una Persona, allora le religioni non riconoscono un Essere Supremo personale sono atee.

La mia verità” si contrappone o distrugge la “tua verità. Per tornare all’immagine che ho già adoperato: quando prendiamo l’uccello esotico del linguaggio religioso e lo mettiamo gabbia, si trasforma in un uccello rapace.

No voglio esagerare nell’enunciazione del mio disagio, ma che vi siano in giro molti rapaci di questo genere che volano nelle nostre comunità cristiane. Li ho incontrati nelle vesti di cristiani che vogliono essere uniti in una fede ben definita che pertanto invocano l’intervento dei pastori per escludere determinati membri della parrocchia perché non credono nella “presenza reale” di Gesù nel pane. Li ho incontrati in organizzazioni cattoliche che denunciano vescovi all’autorità romana per aver consentito a laici di predicare alla messa. Li ho incontrati nelle vesti di vescovi che scomunicano politici cattolici per via delle loro opinioni sul rapporto tra il diritto della Chiesa e il diritto dello Stato, su questioni come l’aborto o il diritto alla riproduzione. E sì, per essere candidamente onesto, li ho incontrati anche personalmente in funzionari del Vaticano che vietano a dei teologi di insegnare e di scrivere per via dei loro sforzi di esplorare nuove interpretazioni del ruolo di. Cristo e della Chiesa in relazione ad altre religioni. Non vorrei che si dimenticassero le loro buone intenzioni, però mi azzardo a pensare che forse stanno compiendo abuso del linguaggio religioso.

Questi esempi indicano che il linguaggio religioso non rappresenta soltanto un mezzo necessario mediante il quale una comunità si raccoglie per articolare quanto la tiene insieme e ciò che essa difende e rappresenta. Il linguaggio religioso, come ogni linguaggio, può essere agevolmente utilizzato come strumento di potere attraverso cui alcune persone cercano di controllare altre persone. Come ci dicono i filosofi contemporanei, è un pericolo costante che si presenta ogni volta che apriamo la bocca e parliamo, per cui dobbiamo esserne consapevoli e rimanere consapevoli e rimanere vigili. Nel momento in cui abbassiamo la guardia, la tentazione di trasformare il linguaggio religioso in linguaggio di potere emerge non appena prendiamo quel linguaggio in modo troppo letterale, preciso o univoco.

Proprio quello che, nella mia esperienza, succede troppo spesso nelle chiese cristiane. Nel modo di concepire e usare il linguaggio religioso, non incateniamo solo il Mistero di Dio: ci incateniamo a vicenda.

 

 

Attraversando la frontiera: il dito non è la luna

 

Come in tutte le religioni, le parole rivestono un grande ruolo anche nel buddhismo. È però un ruolo subordinato, giacché prima viene l’esperienza: l’esperienza dell’Illuminazione, il Risveg1io all’esistere in seno all’Interessere. Prima viene il vivere, vivere una vita di compassione verso tutti gli esseri senzienti come un Bodhisattva. Le parole hanno un’importanza e un senso soltanto nella misura in cui promuovono una esperienza e uno stile di vita di questo tipo Per i buddhisti, le parole sono sempre mezzi per un fine, non sono mai fini a se stesse. Anzi, la dottrina tradizionale del Buddha è che, una volta raggiunto lo scopo, puoi buttar via le parole, dal momento che non ti serviranno, oppure le userai liberamente, agevolmente, in modo sciolto (come un uccello usa le ali per spiccare il volo o piombare sulla preda).

Per i buddhisti le parole non sono soltanto subordinate a un fine esperienziale più alto o profondo, ma sono anche inadeguate a tale scopo. Per la loro natura ontologica e strumentale non possono mai condurti fino alla meta. Anche se le parole possono costituire l’abc e la preparazione per l’esperienza e la consapevolezza dell’Interessere, deve accadere qualcos’altro perché emerga questa consapevolezza, qualcos’altro che superi il potere evocativo di qualsiasi parola. E quando quel “qualcos’altro” accadrà davvero, supererà di molto anche qualsiasi cosa possa essere catturata dal linguaggio. Le parole possono aver giocato un ruolo nell’innescare l’esperienza della perdita della propria identità in quella più grande dell’Interessere, ma nel momento in cui arriva l’esperienza avviene un’esplosione di cui non si riesce più a trovare il detonatore. Per dirlo in maniera più diretta e in termini occidentali, nel buddhismo il “mistero” ha sempre la precedenza sulle parole all’andata o al ritorno, cioè sia nel prepararsi a, sia nel gettare uno sguardo retrospettivo su quanto si vede nel momento in cui gli occhi vengono veramente aperti.

Per concludere questa panoramica a volo d’uccello, generalizzante e spero non troppo scorretta sulla concezione buddhista del linguaggio, occorre aggiungere che, essendo sempre subordinate e inadeguate, le parole sono anche pericolose. Poiché gli esseri umani sono esseri senzienti privilegiati non solo grazie alla capacità di essere illuminati, ma anche per la capacità di parlare, il loro parlare può, fin troppo facilmente e forse inevitabilmente, interferire con la loro Illuminazione. Nel momento in cui le parole divengono più importanti dell’esperienza della Vacuità, nel momento in cui proclamiamo la “necessità” di determinate parole per arrivare all’Illuminazione, nel momento in cui, nel nostro lessico quotidiano, “parlare della compassione diventa più importante di camminare” nella compassione stessa, allora le parole manifestano il pericolo sempre incombente che rappresentano: diventano impedimenti o surrogati dell’esperienza a cui Buddha ha chiamato gli esseri umani.

Tutte le etichette che i buddhisti hanno apposto su qualsiasi confezione di parole (“subordinate”, “inadeguate”, “pericolose”) risultano abbastanza astratte. Lasciate che offra alcuni esempi di storielle o immagini tradizionali buddhiste che riescono a dar loro un po’ di sostanza e di colore.

 

Attenzione alle parole

 

Si racconta spesso la parabola dell’uomo ucciso con una freccia avvelenata. Lui è là disteso sulla strada con la freccia che gli sporge dalla pancia, quando arrivano alcuni amici a soccorrerlo. Ma prima che possano fare alcunché, lui comincia a sommergerli di domande: «Chi ha fatto questo? Perché l’ha fatto? Dov’era appostato? Che tipo di freccia è?». Con dolcezza e determinazione gli dicono di tacere: «Smettila di parlare a vanvera! Dobbiamo tirar fuori la freccia». Questo, commenta Gautama il Buddha, è il compito di un essere illuminato: estrarre la freccia della sofferenza dalla nostra vita, e non rispondere a tutti i nostri interrogativi speculativi, oso dire teologici. Le parole interferiscono molto facilmente con quel compito.

Un messaggio simile è veicolato in un’espressione che le prime Scritture buddhiste mettono spesso in bocca a Gautama: «La tua domanda non c’entra». Ogni volta che qualcuno lo poneva di fronte a una domanda quale: «L’io esiste o non esiste? Viviamo dopo la morte? Da dove è venuto il mondo?», quella era la sua replica. Come dire: ciò che stai chiedendo non ha nulla a che fare con le risposte che offro. Le tue domande riguardano questioni che vanno al di là sia delle parole che dell’intelletto umano. In ogni caso, esse rappresentano distrazioni rispetto a quanto noi possiamo e abbiamo bisogno di fare: escogitare i modi di affrontare la sofferenza, come vivere pacificamente e compassionevolmente. Fai prima questo e magari rimarrà del tempo per porre le domande e discuterle... se sarà necessario.

Un’altra ben nota immagine suggerisce che le parole potrebbero non essere necessarie. Il Buddha paragonava il suo insegnamento e le sue parole a una zattera il cui solo scopo era di consentire alla gente di raggiungere la riva dell’Illuminazione. Ma, aggiungeva, quando raggiungerai la riva, puoi buttar via la zattera! Perché tenertela? Non ne hai più bisogno. Trascinandotela dietro sulla terraferma come un peso morto, ne faresti proprio questo, un peso morto.

I buddisti Zen ricorrono a uno scenario ancor più potente e ripugnante, per sottolineare il pericolo di diventare troppo dipendenti dalle parole, perfino dalle parole del Maestro: «Se incontri il Buddha», ammoniscono, «uccidilo!». Per i buddhisti, non-violenti, l’affermazione è evidentemente un’iperbole; il rilievo che fa, però, non lo è: non lasciare che le parole, quelle del Buddha, interferiscano con il nucleo del messaggio del Buddha stesso: fare esperienza personale del esperire l’apertura degli occhi, avvertire a tuo beneficio l’eurofizzante Vacuità dell’Interessere. Se qualsiasi parola, maestro o libro sacro diventano più importanti di ciò, allora scaricali fuori bordo e continua a veleggiare.

Ma il detto che per me (e per la maggioranza dei maestri buddisti che ho avuto) descrive meglio il modo in cui i buddisti impiegano le parole e il linguaggio è contenuto nella semplice sentenza Zen: «Il dito non è la luna». La luna rappresenta quanto cerchiamo in senso ultimo (o meglio cosa sia- senso ultimo): Illuminazione, nirvana, Vacuità, natura di Buddha cioè, in termini più cristiano-occidentali, potremo dire Mistero o Senso Ultimo. Le dita ci servono a indicarci la direzione verso quel Mistero che può essere reale nella nostra esperienza tanto quanto va oltre le nostre parole e la nostra comprensione. Se confondiamo il dito puntato con la luna mancheremo il bersaglio della luna! La visione buddhista del linguaggio è tanto semplice e tuttavia tanto profonda impegnativa quanto mostrato da questi esempi.

 

Le dita hanno un loro scopo

 

Anche se i buddhisti sono, a dir poco, cauti con le parole, che se il loro intento permanente è di andare oltre le parole, come interlocutore cristiano di un dialogo interreligioso non ritengo però completamente spiazzato quando considero l’importanza del ruolo accordato dal buddhismo alle parole. Mi piace infatti scherzare con i miei amici buddhisti: «Però non buttate mai via la zattera! Non uccidete mai davvero il Buddha!». La zattera del Dharma, oppure degli insegnamenti del Buddha resta infatti importante e non mi pare che questa importanza sia legata soltanto all’insegnamento per coloro che ancora avanzano sulla strada che conduce al Risveglio; anche i maestri sembrano continuare ad aver bisogno della guida o de gli ammonimenti della zattera e del Buddha.

Pur riconoscendo però l’importanza, forse perfino la necessità, delle parole, i maestri buddhisti le usano in modo molto diverso da quelli cristiani (specialmente se il cristiano è un teologo, un vescovo, o un papa!). Il punto è ben esplicitato dalla cosiddetta Parabola della Casa in Fiamme, che si trova nel Sutra del Loto, un testo Mahayana. Un padre saggio e amorevole scopre con orrore che la casa in cui i suoi tre bambini stanno allegramente giocando con dei carri-giocattolo è in fiamme e deve farli uscire il più velocemente possibile. Totalmente concentrati sui propri giocattoli, i bimbi, però, non danno assolutamente retta ai suoi delicati quanto urgenti inviti a uscire. Ricorre, così, a quella che noi potremmo definire una pietosa bugia, e racconta di carri ancora più grandi e più belli che li aspettano fuori: carri tirati da capre, da cervi e da buoi, per essere precisi. I piccoli si scaraventano fuori entusiasti e si salvano. Rimangono però delusi? Nient’affatto. Anche se il papà ha detto una bugia, finisce per mantenere la parola data in maniera ancora più incredibile. Regala ai figli un carro luccicante di pietre preziose tirato da due splendidi manzi bianchi: ecco un giocattolo che li supera tutti!

Questa strana storiella, ormai anacronistica (oggi il papà dovrebbe appellarsi a un nuovo videogioco per attirare i figli fuori della casa), rappresenta la dottrina buddhista relativa all’upaya, la destrezza-nei-mezzi’ o i ‘mezzi abili’. Il Buddha o i maestri buddhisti (il padre nella nostra parabola), per via della loro compassione straripante e sapiente, impiegheranno qualsiasi “mezzo” o qualsiasi “parola” a loro disposizione - quand’anche, come indica la parabola, ciò implicasse pure di stiracchiare un po’ la verità - per salvare i figli dell’umanità, mentre giocano scioccamente in una casa attaccata dalle fiamme della sofferenza. Il dono ultimo che è consegnato con mezzi tanto abili, potremmo dire truccati, è il carro ingioiellato dell’Illuminazione, e la pace e compassione che comporta.

A questo abile, flessibile, ingegnoso e perfino ampio modo di usare il linguaggio sottostà la nozione buddhista del linguaggio quale mezzo per un fine. Sembra quasi che il buddismo in questo caso, insista sull’idea che “il fine giustifica i mezzi” (adopera pure tutti i mezzi che vuoi, purché raggiungano lo scopo dell’Illuminazione). Però, non è proprio così. L’insegnamento morale dell’Ottuplice Sentiero, che vieta di nuocere agli altri con parole o azioni, andrebbe applicato qui allo stesso modo in cui si applica a tutta la vita dei buddhisti. Ma la nozione di upaya chiarisce abbondantemente che il fine è il più importante dei mezzi, ovvero l’esperienza è più importante delle parole

Come un mio amico buddhista, David Loy, mi ha spiegato in un messaggio via e-mail su questo capitolo: «Per i buddisti il linguaggio non è qualcosa che ci salva perché vi ci identifichiamo, ma è piuttosto qualcosa che ci trasforma quando vi entriamo in contatto. Gli insegnamenti buddhisti, come tutte le altre dottrine, vanno interpretati. Ma per i buddhisti l’interpretazione non è una questione di fede, bensì di stile di vita.

Ciò non significa certo che qualsiasi credenza o parola siano quindi giustificati, bensì che saranno necessarie molte parole le, varie e flessibili. Chiaramente, nel guardaroba del buddismo non sembra esserci spazio per nessuna dottrina o parola “sola e unica”, infallibile, per così dire “a taglia unica”. Tutte parole infatti sono al servizio della Verità. E la Verità ha bisogno di molti servitori.

Alcuni di questi servitori possono essere enigmatici o ingegnosi. Mi riferisco ai koan, ovvero agli strumenti verbali che alcuni maestri Zen usano per indirizzare i propri studenti sul sentiero dell’Illuminazione. Sono domande insidiose, stupide, assolutamente incongruenti, che ad alcuni studiosi occidentali (Huston Smith) suonano come una forma di «giochino trascendentale». Alcuni dei koan meglio conosciuti sono: «Qual è il suono di una mano che applaude?», o «Mostrami il tuo volto originario, prima della nascita», «Un cane ha una natura di Buddha?». Agli studenti è richiesto di passare lunghe ore a lottare con questi interrogativi e poi di tornare a proporre le proprie risposte al maestro. Il maestro li rispedisce continuamente indietro a studiare di più finché non ci arrivano.

Lungi da me il pensiero di rivelare “dove” arrivino. Mi è stato detto, però, che ha a che fare con la presa di coscienza che la risposta, o il modo di rispondere, non è questione di “parole giuste” e nemmeno di ragionamento (quello che noi chiameremmo “pensiero razionale”). I koan sono parole che vengono impiegate per mostrare l’inadeguatezza di parole, pensieri e immagini e il loro scopo è di spingere gli studenti al di là di ogni pensiero e immagine. Per usare un’immagine inadeguata, i koan sono simili a bastoncini di dinamite per la mente, inseriti con discrezione dal maestro nel muro del pensiero razionale per farlo saltare in aria; si potrebbe dire che tramite i koan si intende causare un cortocircuito mentale che aprirà un varco. Questo libererà l’allievo, affinché scopra la risposta attraverso un percorso assolutamente diverso, cioè tramite una maniera più esperienziale, immediata e intuitiva di afferrare o di venire afferrati dalla verità di ciò che siamo davvero. I koan sono quindi un modo di combattere il fuoco col fuoco stesso, ovvero le parole con le parole stesse.

Per riassumere, offro una delle enunciazioni contemporanee più chiare, semplici e impegnative della visione buddhista del linguaggio, comprendente due dei Quattordici principi dell’Interessere scritti da Thich Nhat Hanh:

 

Non idolatrare o rimanere vincolato ad alcuna dottrina, teoria o ideologia, neppure quelle buddhiste. Tutti i sistemi di pensiero sono strumenti di indirizzo, non sono verità assolute. Se hai un fucile, puoi sparare a una, due, tre, cinque persone, ma se hai un’ideologia e vi rimani legato, pensando che sia la verità assoluta, puoi ucciderne milioni.

Non pensare che il sapere di cui attualmente disponi rappresenti una verità immutabile e assoluta. Evita di essere limitato di vedute e vincolato a quelle attuali. Impara e pratica il non-attaccamento alle visioni per essere aperto ad accogliere i punti di vista degli altri.

 

DITA E LUNA

Nhat Hanh mette in chiaro sia il pericolo che i benefici ricavabili dalla distinzione tra dito e luna. Le dita che vengono scampiate per la luna e divengono così “l’unico dito” possono anche diventare molto facilmente pugni, che fanno violenza a chi rifiuta di accettare il “nostro dito”. D’altro canto, le dita riconosciute come “dita puntate” verso la luna (l’unica luna che stiamo tutti cercando di vedere con maggior chiarezza) ci lasciano liberi, anzi ci ricordano di imparare da altre dita.

Il linguaggio cristiano e perfino il linguaggio dei testi del Credo e dei dogmi di fede possono essere intesi come dita puntate verso la luna? Come or cercherò di mostrare, questa domanda è irta di difficoltà e colma di opportunità.

 

Riattraversando la frontiera: le parole che hanno a cuore il Mistero.

 

Uno dei frutti più evidenti e forse più utili che noi cristiani possiamo raccogliere da un dialogo con i buddhisti ha a che fate con il linguaggio: il buddhismo ci può assistere nel riconoscere e poi ristabilire l’equilibrio spezzato, descritto sopra, tra Dio, che diciamo essere un Mistero, e le parole che usiamo per parlare ditale Mistero. Nella mia vita spirituale, nel ripassare la frontiera del cristianesimo, di ritorno dal dialogo con il huddhismo, penso di essere diventato più capace di adoperare le parole nel modo in cui hanno a cuore il Mistero del Divino.

L’espressione avere a cuore è una lama a doppio taglio. In senso negativo, mostra le limitazioni di ogni parola impiegata per parlare del Dio che abbiamo chiamato lo Spirito connettivo: le parole devono rispettare il Mistero e non prendere mai il suo posto in modo idolatrico. In senso positivo, pero, proprio quando le limitazioni vengono affermate e preservate, le parole diventano ancor più efficaci nel rivelare il Mistero, simili a telescopi con cui scrutare i cieli misteriosi: solo se messi a fuoco riusciamo effettivamente a vedere qualcosa; senza un punto focale, per vedere troppo non vediamo assolutamente nulla, oppure ciò che vediamo è molto fuorviante. Le nostre parole hanno a cuore il Mistero vedendone soltanto un parte, ovvero, nell’immagine buddhista: il dito identifica la luna senza identificarsi con essa.

 

Tutte le parole sono dita

 

A beneficio mio e dei cristiani come me, sento il bisogno di calcare su questo punto con maggior forza. Un’altra amica buddhista, Rita Gross (un’ex cristiana), mi ha chiesto acuta mente: «Puoi davvero dire che tutto il linguaggio cristiano e non solo le riflessioni o fantasticherie dei teologi, ma anche le storie e gli insegnamenti della Scrittura e le precise formule dottrinali e dogmatiche - siano “dita puntate verso la luna?» La mia risposta, precedentemente esitante, ma ora decisa, è: «Sì!». E lo dico da cristiano. Vi sono grandi parti della nostra tradizione e dottrina cristiane che non solo ci permettono, ma anche ci richiedono di concordare con nostri fratelli e sorelle buddisti. Il linguaggio cristiano, come ogni linguaggio religioso, in tutto il suo lessico si compone di dita che puntano in direzione della luna.

La solidità granitica di questa affermazione si fonda sulla dottrina cristiana, salda ma spesso sommersa, che Dio è un Mistero che nessuna mente o parole umane possono afferrare in modo chiaro e completo. Nella poesia della Bibbia, troviamo che sempre «vediamo come in uno specchio, in maniera confusa» (1 Cor 13,12), oppure, come abbiamo già sentito, nel preciso dettato del Quarto Concilio Lateranense, dobbiamo inchinarci davanti all’incomprensibilità di Dio. Ciò significa che, per tutto ciò che possiamo e dobbiamo dire circa il Mistero divino, vi è molto di più che rimane non detto. E questo “non detto” dovrebbe restare appollaiato sulla nostra spalla, come una sorta di scimmia angelica, a ricordarci costantemente che quanto diciamo o dichiariamo su Dio - che siamo il papa che impartisce una “dottrina ufficiale” o bravi genitori che ammoniscono i figli - non può mai essere l’unica parola, o l’ultima, in merito a Dio, giacché c’è sempre di più da dire, da sapere. E il “più” può magari non solo accrescere o chiarire quanto abbiamo già dichiarato, ma spesso anche correggerlo. Parlo qui non da buddhista, ma da cristiano. Questa è corretta dottrina cristiana e, aggiungo, cattolica.

Quanto ho appena detto costituisce un enunciato teologico. Mi si consenta, perciò, di usare un po’ di lessico tecnico per suffragarlo. Il buddhismo ha rappresentato un incentivo per me potrebbe esserlo per la mia comunità cristiana in generale a rispolverare e a recuperare quella che nella storia del pensiero cristiano è stata chiamata teologia “negativa” (o “apofatica). Noi teologi ed educatori religiosi facciamo prevalente teologia “positiva” (o “catafatica”), che parla di chi o che cosa sia Dio o che cosa Dio abbia fatto in quella che chiamiamo la “storia della salvezza”. La teologia negativa ci ricorda ciò che Dio non e, ossia la ragione e il modo in cui il Divino non è quello che noi diciamo, perché è molto di più. Si può qui ravvisare un’analogia con la nozione hindu di neti neti, ‘non questo, non questo’, che gli hindu aggiungono sempre, come una ripetuta nota a piè di pagina, a qualsiasi cosa dicano di Dio.

Tutto quello che affermiamo su Dio, quindi, deve essere negato o precisato, oppure ridimensionato alla luce di quanto non possiamo dire e non possiamo sapere. Se potessimo scrivere (ma naturalmente non possiamo) tutto quello che non possiamo sapere di Dio, sarebbe un’enciclopedia in confronto al pamphlet di quello che possiamo sapere.

Una delle menti teologiche più brillanti e influenti in tutta la storia cristiana, i cui scritti voluminosi occupano e preoccupano i teologi fin dal XIII secolo, riconosceva di essere soltanto pamphlettista davanti all’assoluto Mistero del Divino. “La sostanza divina supera ogni forma raggiunta dal nostro in intelletto” annunciava Tommaso nel gergo filosofico del suo tempo, traendone poi le conseguenze personali del caso: «Conosce Dio al meglio chi riconosce che qualsiasi cosa pensi o dica rimane lontana da quello che Dio è» (Summa contra Gentiles 4, 3; In librum De causis expositio, 6). Forse in questo sta il motivo per cui, verso la fine della sua vita, dopo un’esperienza mistica in cui percepì del Mistero Divino in maniera assai più chiara di quanto potesse mai conoscere, l’Aquinate dichiar in modo eclatante che tutti i tomi che aveva scritto non erano che paglia che si poteva tranquillamente gettare nel fuoco!

Le avvertenze contenute nella teologia negativa, o nell’affermazione buddhista che ci ricorda che le nostre dita in tema di dottrina non sono la luna sono particolarmente utili o semplicemente necessarie, quando si è di fronte alla tendenza cristiana a susare così tanto linguaggio «solo e unico”. Ritorneremo sulla questione più avanti quando esamineremo in profondità la terminologia del “Figlio unigenito”, nel quinto capitolo, dedicato a Cristo. Per il momento posso formulare la conclusione tanto semplice, quanto rivoluzionaria, che il budihismo mi ha aiutato a riconoscere: se davvero prendiamo sul serio la nostra dottrina circa l’incomprensibilità di Dio, se davvero crediamo, come diciamo di fare, che il Mistero Divino sia sempre maggiore di quello che possiamo sapere e dire, allora noi cristiani dobbiamo stare molto più attenti al modo in cui usiamo l’aggettivo “unico” - se osiamo utilizzarlo in assoluto. L’annunciare al mondo che Dio può essere concepito unicamente come Trino, che Dio salva unicamente tramite una chiesa, che c’è un unico modo di organizzare la chiesa, che unicamente gli uomini possono essere sacerdoti, significa fare affermazioni che corrono il rischio di pigiare tutto il Mistero in un solo contenitore. E siamo poi noi i proprietari del contenitore, oppure lo usiamo per sostituire altri contenitori. Idoli e idolatri finiscono sempre per combattersi.

 

Impossibile aggirare i simboli

 

Se i buddhisti hanno ragione ad affermare che tutte le nostre parole sono dita puntate verso la luna e non la luna stessa, allora tutte le nostre parole riguardo a Dio sono simboli. Sospetto, anzi affermo, che, se i cristiani che sono combattuti su quello che sarebbero chiamati a credere potessero comprendere con la testa e abbracciare con il cuore la frase «Tutte le nostre parole sono simboli», riscontrerebbero non soltanto una maggiore facilità nei confronti dei propri combattimenti interiori, ma anche la possibilità di trarne frutti effettivi. Non dimenticherò mai lo sbigottimento, seguito da un senso di liberazione e poi di gioia euforica, che avvertii quando lessi per la prima volta il modo in cui Paul Tillich motiva perchè non si possa parlare di Dio se non ricorrendo a simboli. (Fu dopo  i miei studi a Roma, giacché, essendo protestante, Lich non era nell’elenco delle letture richieste alla Gregoriana negli anni Sessanta). Inizialmente, Tillich riteneva che l’unica eccezione a questa affermazione fosse la parola “Dio”. Ben presto, però, riconobbe che anche “Dio” doveva essere incluso tra tutti gli altri simboli delle altre religioni che puntano a quello che Tillich chiamava «il Dio al di là di Dio».

Così per Tillich (e ritengo che gran parte dei principali teologi cristiani sarebbe d’accordo con lui) i simboli risultano indi spensabili sia per l’esperienza che per l’espressione del Mistero. Ciò significa che per tutti noi non si dà alcuna esperienza diretta, non mediata (i miei studenti direbbero «guardandosi dritti negli occhi») di Dio. C’è sempre una frapposizione, un veicolo, ovvero quello che qui chiamiamo un simbolo. Forse alcuni buddhisti Zen avrebbero qualcosa da ridire in merito, ma, quand’anche avessero ragione, quand’anche si potesse dare un’esperienza a-simbolica dell’Assoluto, ammetterebbero che non vi è alcun modo di parlare di quell’esperienza al di fuori dei simboli.

Cosa sono, però, queste cose meravigliose, benché limitanti, chiamate simboli? Cercando di evitare tutta la massa di discorsi filosofici che si è accumulata nel tentativo di rispondere a questo interrogativo, potremmo dire che essenzialmente i simboli sono oggetti, parole, immagini, storie o pezzi di

esperienza che rendono presenti o danno espressione a realtà che altrimenti sarebbero amorfe e indescrivibili. I simboli ci mettono in grado di sentire o di parlare di cose che in se stesse sono difficili da sentire o da discutere a parole. Ecco alcuni esempi comuni ma preziosi: un anello che simboleggia l’amore (almeno nella Cultura occidentale, giacché i simboli sono condizionati dalle culture), una colomba che suscita un sentimento di pace, una storia eroica che accende in noi il coraggio (Frodo nel Signore degli Anelli). Gli esempi illustrano quello che anche Tillich ha osservato riguardo ai simboli: partecipano, ma non sono quello che simboleggiano. Il significato di un simbolo non può essere assegnato volontariamente, nel modo in cui assegniamo il significato di alt al semaforo rosso e di via al verde. Vi è qualcosa di “naturale” nel suo significato: il modo in cui la circolarità di un anello comunica l’eternità preziosa di un amore, o in cui il delicato movimento di una colomba ci colma di pace, o in cui la storia di Frodo e il suo incessante ardimento incanta le nostre riserve di coraggio.

Ho detto che leggere le osservazioni di Tillich in tema di simboli fu per me liberatorio: mi liberò dal peso, spesso troppo pesante da sopportare, di dover prendere alla lettera tutto il linguaggio della mia fede cristiana. Anzi, mi mise in guardia dal rischio che, prendendo alla lettera certi articoli di fede, possa magari non capirne il significato vero e proprio. Ciò che Tillich diceva in quel momento divenne sempre più cogente, e pertanto ancor più liberatorio, attraverso il mio dialogo con il buddhismo. Ero già andato oltre la lettura letterale della storia della creazione in sei giorni e di tante altre storie nel cosiddetto Antico Testamento. Ora, però, quello che Tillich e i buddhisti mi dicevano si applicava anche al Nuovo Testamento, al Credo niceno, al Denzinger. Tutte le nostre parole, tutti i nostri discorsi sono dita, ovvero simboli.

Se, da un lato, fu una liberazione, dall’altro rappresentò anche una sfida incombente. Ecco dove voleva arrivare Tillich, insistendo sul fatto che, se davvero capiamo cosa sono i simboli, non diremo mai: «E solo un simbolo». Presa come simbolo, un’immagine, una storia esplode in mille significati, e può continuare a esplodere assumendo un significato diverso nel lungo corso dei secoli. Infatti, se il nostro linguaggio religioso è principalmente simbolico, non letterale significa che il suo contenuto, il suo significato, è più profondo e potente, più personalmente coinvolgente, di quanto potrebbero essere se venisse preso “solo” letteralmente. E facile prendere «Dio Padre» o «seduto alla destra del Padre» o “figlio di Dio» alla lettera. Assai più impegnativo e appagante è chiedere e poi avvertire il significato e la potenza simbolica di queste parole e immagini.

Come riuscirci? In che modo, come si dice spesso, prendere i nostri simboli «non alla lettera ma seriamente»? Come – ci siamo chiesti prima - individuare il reale significato di un simbolo, se non consideriamo questo significato letterale? Non c’è ovviamente nessuna risposta facile.

Per cominciare, una cosa che ho trovato utile tanto per me quanto per i miei studenti è stato ricordare che definire qualcosa un simbolo non equivale a negarne la verità. Anche se semplicemente “non è successo”, o magari non è successo proprio nel modo in cui viene narrato, non significa che un racconto simbolico non racchiuda una potente verità, che, al contrario, potrebbe essere più trascinante ed emozionante.

Per giungere a quel significato più profondo ed emozionante è necessario riconoscere che il prendere le nostre storie e il nostro linguaggio come simbolo e mito significa accostarvisi in maniera molto simile a quella con cui ci accostiamo alla poesia. Riconosciamo che la verità che magari veicolano non può essere afferrata in modo cristallino e che, per arrivarci, dovremo lasciare che i simboli danzino nella nostra fantasia prima di poter mettere piede nel nostro intelletto. Ci stanno dicendo qualcosa, ma prima parlano al cuore e ai sentimenti, e soltanto dopo potranno essere registrati nella mente e nei pensieri. Naturalmente, visto che in noi cristiani è insito uno spirito comunitario, il processo di percezione e lettura delle nostre storie e credenze va necessariamente condiviso: se da un lato dovrà essere per ciascuno di noi un processo personale, dall’altro non sarà mai solitario.

Nel giungere alla verità di simboli e miti, sono d’aiuto anche il riconoscere e il permettere che il loro significato sia più generale che particolare. Occorre che spieghi bene cosa intendo dire, per evitare facili malintesi: quand’anche il contenuto di un’immagine o di una narrazione fosse estremamente conciso e specifico, quand’anche si basasse su un evento storico molto, particolare (per esempio, l’esodo dall’Egitto, la crocifissione di Gesù), il suo senso ultimo, insito nella particolare immagine o contenuto, è vero e illuminante riguardo la vita, la natura umana, la storia in genere. Simboli e miti e poesia sono simili al raggio di luce ben definito che illumina qualcosa che non sapevamo ma che speravamo esistesse, nella buia camera di quella che talvolta chiamiamo “la condizione umana”. La forza più intima di un simbolo non è determinata dalla misura o dalla forma del raggio, bensì dalla verità che chiarisce e ravviva. Ciò non significa che le verità che i simboli illuminano rappresentino sempre una scoperta stupenda e meravigliosa; anzi, la verità che ci restituiscono potrebbe anche essere come un calcione nel sedere che reclama da noi un cambiamento di vita.

Che dire, però, del contenuto storico o fattuale di un simbolo o di un mito? Questo è un interrogativo che i cristiani devono necessariamente sollevare, giacché, come abbiamo visto precedentemente, essi (con i genitori ebrei e i fratelli musulmani) hanno sperimentato e credono in un Dio della storia. Gli eventi storici, pertanto, formano lo zoccolo duro del cristianesimo. Se questo è vero, va tuttavia riconosciuto che ogni linguaggio religioso è simbolico e quindi che gli eventi e le figure storiche sono anch’essi “dita verso la luna”; questo zoccolo duro storico deve, perciò, rivivere come poesia del simbolo. Con ciò intendo dire che, a meno che l’evento (l’esodo, la crocifissione) diventi un simbolo che si riverbera nei nostri sentimenti e illumina una verità universale della nostra vita, non è null’altro che un evento accaduto o una persona vissuta nel passato storico.

Per fare un’autentica differenza nella nostra vita, ovvero, nel linguaggio cristiano, “per salvarci”, la storia deve diventare simbolo. Quando i teologi dicono che il cristianesimo si basa sull’avvenimento cristiano”, ciò significa che la nostra religione si fonda su un simbolo storico o un mito storico, ovvero sulla storia che parla con la potenza del mito.

Se ciò ha senso, come penso che lo abbia o lo possa avere, se persino i fatti storici fondativi della nostra fede sono dita puntate verso la luna, allora la cosa davvero importante da chiedere non è «E successo veramente?», oppure «Che cosa è successo di preciso?», bensì «Che cosa significa?». Se anche non possiamo sapere con certezza cosa sia successo di preciso, o, in certi racconti, se sia successo affatto, il significato simbolico di un simbolo o di un mito può comunque dare la possibilità di essere un un dito puntato verso la luna: può comunque restituire un significato che illumina e ravviva la nostra vita e la rovescia come un guanto, scaraventandola in una nuova direzione.

Un esempio concreto di quanto sto cercando di dire: se anche Gesù non avesse camminato sulle acque né avesse chiesto a Pietro di fare lo stesso, le parole che disse (o che si dice aver detto) a Pietro: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato» (Mt 14,31), hanno avuto il potere di scuotere e di trasformare la mia vita. (Nel capitolo su Cristo e Buddha approfondiremo come la resurrezione, pietra angolare del cristianesimo, possa essere considerata un “mito storico”).

 

Azione più che informazione

 

Nel prendere il nostro linguaggio più sul serio che letteralmente, o, come ho appena detto, concentrandosi su «Che cosa significa» piuttosto che su «E’ successo veramente potremo tenere presente qualche consiglio tecnico che ci viene dai teologi di professione: tutto il linguaggio religioso, specialmente quando se ne riconosce la valenza di linguaggio simbolico, è “performativo, più che informativo”; tradotto: lo scopo primario di tutto il linguaggi nella Bibbia, nei testi dottrinali e nel catechismo è di dirci come vivere, piuttosto che fornirci chiare risposte definitive sulla natura di Dio e dell’universo. I teologi annunciano davvero quanto il Buddha insegnò secoli prima: come simboli e miti, le nostre credenze religiose esistono prima di tutto per strappare dal nostro corpo la freccia della sofferenza, non per rispondere alle domande relative ai motivi della presenza della freccia. Qualsiasi informazione le nostre credenze, ovvero i nostri simboli e miti ci forniscano, quel che conta di più è sentire e vivere quell’informazione, piuttosto che definirla, apponendovi un’etichetta. Il ruolo dei simboli è di cambiarci la vita, non di riempirci la testa.

Essi, comunque, offrono davvero qualcosa alla nostra meditazione intellettuale. Nell’insistere sull’azione, piuttosto che sull’informazione, non intendo in alcun modo negare che le nostre credenze intese come simboli ci stiano dicendo qual cosa di reale, qualcosa di vero. Nel linguaggio tecnico teologico, hanno un contenuto “ontologico”, non soltanto un intento etico. Nel chiamarci a vivere e ad agire in un determinato modo, ci stanno anche fornendo informazioni su come “davvero stanno le cose”. Non voglio svalutare quelli che i filosofi chiamano gli “enunciati di verità” dei contenuti della nostra fede; voglio però confermare due conseguenze del riconoscere l’involucro simbolico di tutti gli enunciati di verità 1) Come l’autore del Vangelo di Giovanni sottolinea in tutta la sua narrazione delle azioni di Gesù, è molto più importante fare la verità che conoscerla anzi, la possiamo conoscerla soltanto facendola: solo in questo modo «la verità vi farà liberi» 2) Qualsiasi cosa conosciamo della verità quel sapere, come abbiamo visto in Thich Nhat Hanh, non può mai essere assolutizzato. Ci sarà sempre “altra verità ossia ci sarà sempre il bisogno e l’opportunità di comprendere la verità già effettivamente posseduta più in profondità cioè in modo diverso.

 

Le dita sono importanti... e diverse

 

Dopo aver provato a spiegare quello che ho imparato dai buddhismo sul linguaggio e sulle dita, sento di dover ricordare qualcosa a me stesso dal punto di vista cristiano. Nonostante tutta la loro inadeguatezza, parole e dita puntate potrebbero rivestire un’importanza maggiore di quanto buddhisti e cristiani pensino. Se i cristiani hanno buoni motivi, all’interno dell’esperienza e tradizione, per usare il simbolo “Vers, Verbum) per descrivere la natura stessa di Dio (la persona della Trinità è chiamata “il Verbo”), allora le parole nonostante tutte le loro limitazioni, sono uno dei motivi in cui il Divino si fa presente nella vita e nella storia umane. Nel linguaggio buddhista forse possiamo dire che le parole rappresentano una delle forme in cui la Vacuità si manifesta.

Lasciate, però, che faccia un ulteriore coraggioso passo avanti nelle mie riflessioni cristiane: se è vero che «il dito non è la luna», non dobbiamo stare attenti a non assolutizzare troppo questa affermazione? Esistono, infatti, ragioni per affermare «il dito è la luna», la luna veramente, anche se non completamente. Gli indici puntati (parole, simboli, miti dottrine) non indica soltanto. Nell’indicare rendono effettivamente presente lo Spirito o connettivo. Essi sono lo Spirito - lo sono realmente, anche se mai interamente. Ecco il punto a cui voleva arrivare Tillich sottolineando che, sebbene i simboli non possano mai essere identificati con quanto simboleggiano, partecipano di ciò che simboleggiano.

Perciò i buddhisti devono forse stare attenti a insistere sul che le parole sono soltanto un mezzo funzionale a un fine esse possono anche incarnare in modo parziale reale il fine. La Forma è la Vacuità: questa “forma” qui Gesù è il Verbo di Dio. Maometto è il profeta di Allah.

Le implicazioni pratiche di queste riflessioni piuttosto astratte sono che, almeno per me come cristiano, le parole rivestono un’importanza nelle differenze che esistono tra loro; ad esempio, le diverse parole che usiamo per Mistero non sono soltanto modi diversi di dire la stessa cosa: ciascuna sta dicendo qualcosa di diverso circa la medesima cosa, il medesimo Misteri, e perciò le differenze contano. Potremmo forse affermare che, se tutte le dita delle religioni indicano la medesima luna, ciascun dito, per così dire, indica una parte della luna stessa. Così, senza le dita dei buddhisti, vi sono parti della luna che i cristiani non vedrebbero mai, e lo stesso e vero delle dita dei cristiani per i buddhisti.

Lasciate che concluda questo paragrafo con alcuni appunti tratti dal mio diario, che ci aiuteranno a rendere più personale e spero più chiari questi argomenti piuttosto ostici. Nell’agosto del 2005, mentre mi trovavo in ritiro nell’abbazia americana del Getsemani, in Kentucky, fui toccato dalla forza delle parole:

 

Il Divino è mistero assoluto; sovrasta così tanto il nostro linguaggio e la, nostra esperienza di cristiani; sì, sovrasta di così tanto anche Gesù il Cristo. E tuttavia il Divino è in attesa, per così dire, di irrompere nella realtà finita tramite noi esseri umani e attraverso le nostre parole umane. Quando noi esseri umani, compreso l’essere umano Gesù, parliamo di Dio e della salvezza e della storia in base alla nostra esperienza personale, consentiamo al Mistero Divino di toccarci e di trasformarci precisamente tramite quelle esperienze finite, nonché tramite le parole e storie finite e inadeguate che ne risultano. Sì, parlare di Dio come di colui che verrà alla fine dei tempi e di Gesù come di Figlio unigenito di Dio significa toccare soltanto una parte del Mistero Divino, la Matrice Creativa che pulsa nel mondo. Eppure È un modo molto reale ed efficace di rendere presente il Mistero. Quello a cui vogliamo arrivare, quando parliamo della “fine dei tempi”, può magari essere molto inadeguato e forse persino fuorviante, nel momento in cui collochiamo il significato di queste parole nell’illimitato quadro del Divino. Queste parole, tuttavia, e questa tradizione sono fonte di continua ispirazione: hanno ispirato milioni di persone ad amare e a operare a favore della giustizia e a credere che questo mondo possa essere diverso. Nel momento in cui le persone agiscono così, vivono in modo adeguato la vita Divina, anche se la comprensione che hanno tramite i loro simboli è così inadeguata e frastornante.

Quando diciamo che Dio si incarna nella carne della storia, diciamo che le nostre parole, i nostri simboli e le nostre credenze inadeguate sono vere nel loro essere inadeguate: esse, infatti, danno la possibilità a Dio di essere Dio, danno la possibilità all’Interessere di essere Interessere ancor più pienamente. Come possono essere più vere, parole finite come sono?

 

Nel luglio del 2003 cercavo di spiegare a me stesso come io possa dedicarmi completamente a qualcosa che posso conoscere soltanto parzialmente:

 

Nelle parole che riscontro nella mia tradizione, le parole che mi nutrono e spesso m’insultano, trovo ciò che è assolutamente necessario per nutrire il mio spirito, specialmente il mio spirito cristiano. In quelle stesse parole, però, sento anche quello che è assolutamente inadeguato. Ho bisogno delle parole perché dicono qualcosa di come mi sento, di quello che spero, di quello a cui mi sono impegnato; eppure, se dicono qualcosa, quel qualcosa ha un significato per me soltanto quando ricordo a me stesso che non dicono tutto, qualcosa ma non tutto. Ciò riveste un significato sufficiente perché ponga a rischio la mia vita, ma anche insufficiente a distogliermi dall’aprirmi al di più e al Mistero essenziale che rappresenta la realtà che chiamo Dio.

Dunque tutte le parole che sento durante la messa, leggo nella Bibbia o adopero in aula (parole come salvezza, fine dei tempi, Seconda Venuta, Trinità, Madre di Dio), sono tutte indicatrici di realtà che vanno tanto molto al di là di tutti noi, quanto sono potentemente presenti; potentemente presenti, ma al contempo soltanto frammenti di quanto potremmo conoscere e che non conosceremo mai pienamente. Se posso rischiare la mia vita sulla base di frammenti, so che questi frammenti sono abbastanza potenti per ridare forma alla mia vita e la vita del mondo, ma allo stesso tempo sono soltanto indicatori, da non assolutizzare mai né rendere immutabili e definitivi.

Così, la prossima volta che una parola della liturgia mi rimane incastrata in bocca, devo ricordare a me stesso che essa è soltanto un frammento, provare a renderla un frammento squisito, e poi inghiottirlo.

Per quanto grande sia il problema che il linguaggio cristiano presenta per me, ne ho comunque bisogno, poiché ne vivo.

 

 

 

 

 

 

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